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  • Tutte le ragioni di Draghi e il nuovo patto per salvare il Paese

    Non occorreva avere il dono della premonizione del futuro per intuire che tutti i partiti, dopo le elezioni del Presidente della Repubblica, avrebbero intrapreso la strategia per il progressivo logoramento di Draghi.

    E se è vero che a dare fuoco alle polveri è stato Conte, che in tal modo ha definitivamente confermato la sua inadeguatezza a qualsiasi ruolo politico, per assenza congenita di acume e carisma, non è purtuttavia l’unico responsabile del processo di delegittimazione continua delle attività dell’esecutivo a guida Draghi, che è la vera ragione delle dimissioni del Presidente del Consiglio.

    Non v’è dubbio infatti che Draghi abbia ragione su tutta la linea.

    Fino all’uscita scomposta e disperata di Conte, quali sono state infatti le dinamiche all’interno della maggioranza in relazione alla coerenza del patto di governo?

    Quale è stato il comportamento di tutti i partiti, specialmente su due elementi fondamentali e dirimenti per le sorti presenti e future del Paese e cioè le riforme e la politica di spesa pubblica, per non parlare dell’Ucraina?

    Sei mesi di dure polemiche quotidiane su ogni punto delle riforme, che sono state stravolte, mutilate, accantonate, svuotate e oggetto di battaglia politica, confermando la volontà dei partiti di non volere alcun effettivo cambiamento del sistema obsoleto, che costituisce il principale freno allo sviluppo economico e sociale nazionale.

    Non era, quindi, solo il M5S a creare problemi, che purtuttavia con le sue “battaglie identitarie”, dal superbonus di 32 miliardi di euro, e le sue conseguenti truffe plurimiliardarie, insieme al reddito di cittadinanza, ha fatto strame di risorse, penalizzato il mercato del lavoro e che, proprio sul mantenimento di queste norme assurde, ha avviato la crisi, ma anche Salvini ci ha messo molto di suo e FI, quando si è trattato di temi come la giustizia, la concorrenza o il fisco, a giocare all’opposizione e minare le proposte del governo, o lo stesso PD, che non si è sottratto alle “battaglie identitarie” e, oltre a concorrere alle modifiche delle proposte governative, votate da tutti i ministri all’unanimità, ha pensato bene di aggiungere altri temi divisivi come lo Jus scholae o la liberalizzazione delle droghe leggere, offrendo ulteriori motivi a chi cercava solo ragioni di scontro.

    Un Governo di unità nazionale, nato per le emergenze, che viene messo da mesi in costante stato di assedio e ricatto da tutti i partiti che lo compongono, come può adempiere al proprio mandato?

    Questa è la domanda, l’unica possibile di Draghi, nel decidere di dimettersi.

    Perché il vero problema è l’evidenza che ormai da anni i partiti italiani non hanno alcuna dignità, coerenza e visione politica.

    La cosiddetta rivendicazione della identità, sotto forma di provvedimenti, è la più patetica forma di ammissione di non avere alcuna reale identità, né ideologica, né ideale, né culturale, e soprattutto contenuti, progetti e visioni di un originale modo di concepire il governo del Paese.

    Partiti ridotti a comitati elettorali, che si auto-referenziano con la personalizzazione dei leader che, a loro volta, passano le giornate a pronunciare slogan del tutto vuoti di significato ed inseguono algoritmi come fanno i peggiori influencer della rete.

    Ecco perché quando la Meloni invoca le elezioni non è credibile, perché il popolo elettore non può essere chiamato a scegliere nel vuoto pneumatico in cui versa la politica attuale.

    Demandare al voto popolare, per la quinta volta consecutiva dopo il Porcellum, una scelta sul nulla è vergognoso e onestamente patetico, specialmente per l’esproprio della scelta dei rappresentanti, che rimane totalmente prerogativa dei capi partito. Quindi un vuoto politico ed una totale assenza di riferimento popolare sugli eletti, pura espressione della casta dei capi partito.

    Ma che sistema democratico è questo?

    Ma proprio perché la situazione è così devastata che occorre salvaguardare Draghi, quale oggettivamente unico soggetto dotato degli strumenti per offrire ciò che realmente serve al Paese, che è del tutto ignorato dalla politica.

    Ma Draghi non accetterà mai di restare alla Presidenza senza la certezza che questa politica faccia davvero un passo indietro.

    Ed allora l’unica soluzione è la stipula di un nuovo patto politico che fissi il perimetro delle riforme, delle linee di gestione dell’economia e della spesa pubblica, delle politiche di contrasto alla  pandemia e la conferma dell’impegno alla difesa dell’Ucraina dall’aggressione Russa, insieme ai partner europei, con un impegno d’onore che l’adesione a tale patto costituisca per tutti i firmatari un obbligo da osservare per tutta la durata del governo e definisca in questo l’identità dei partiti che hanno scelto l’unità nazionale quale bene comune da preservare e il rilancio del Paese attraverso le riforme.

    Un patto anti lobby, che dovrebbe essere condiviso da tutti i partiti per il bene comune e che produrrebbe in pochi mesi ciò che la politica italiana non è riuscita a realizzare in oltre 40 anni.

    Tale patto andrebbe sottoposto a tutti i partiti, compresi FdI, perché sarebbe l’unico modo giusto per azzerare le differenze elettorali per le prossime elezioni da tenersi nel 2023.

    I temi al di fuori del patto, che non riguardano le questioni del governo di unità nazionale, resterebbero terreno di confronto politico che non inficerebbe l’azione di salute pubblica, ma che consentirebbe il libero confronto dei partiti con i cittadini.

    Così si qualificherebbero nei fatti i veri patrioti e chi non ci sta, evidentemente, non lo sarebbe.

    Solo a queste condizioni, e con l’impegno dei partiti di fare una riforma elettorale che restituisca ai cittadini il diritto di scelta dei propri rappresentanti in Parlamento, si potrebbe uscire dall’empasse e scongiurare una ennesima elezione inutile, al servizio unicamente della casta politica ingiustamente e catastroficamente dominante.

  • Il modello sudamericano

    Si scopre solo adesso che la riforma che ha portato al taglio dei parlamentari determinerà un accentramento di potere talmente imponente da creare una nuova oligarchia alla quale, attraverso l’accordo tra due soli parlamentari, sarà possibile porre le condizioni per una possibile crisi di governo, accrescendone quindi il potere discrezionale.

    Queste illuminate considerazioni vengono espresse “solo adesso” da Luciano Violante dopo che il suo partito, con l’obiettivo di consolidare un’intesa politica con i 5 Stelle (ai quali va attribuita la responsabilità della proposta politica), ha votato questa riforma disgraziata evidenziando, ancora una volta, il livello del valore etico, politico ed istituzionale del Partito Democratico.

    Sarebbe stato sufficiente infatti, per comprenderne le conseguenze, un semplice ragionamento elementare partendo dalla considerazione di come la riforma mantenesse inalterato il potere del Parlamento distribuendolo però tra un numero minore di parlamentari. Sarebbe emersa evidentemente una considerazione come quella attuale di Violante alla quale il segretario del PD risponde con un classico mutismo.

    Questa riforma di fatto rompe quell’equilibrio tra poteri contrapposti, il quale rappresenta l’essenza stessa della democrazia, accentrando così quello legislativo nelle mani di un numero minore di rappresentanti dello Stato il che equivale ad aumentarne potere, discrezionalità ed influenza.

    In questo modo la nostra democrazia declina verso un sistema politico all’interno del quale la delega elettorale rappresenta un aspetto sempre meno vincolante in quanto a questo un maggior potere dei parlamentari non viene contrapposta alcuna forma di riequilibrio, come potrebbe essere un vincolo di mandato anche parziale esercitato da parte degli elettori.

    In più questo disequilibrio assume sostanzialmente i connotati di un sistema istituzionale che nasce dalla contrapposizione tra poteri oligarchici istituzionali, con l’ulteriore aggravante che questa declinazione risulti il frutto non tanto di un progetto politico accentratore a bassa democraticità quanto della miserabile espressione di una semplice stupidità, intesa come l’incapacità di mettere in relazione causa ed effetto, dei proponenti e di chi l’ha approvata in parlamento.

    In questo contesto l’Italia di fatto esce dal novero delle democrazie occidentali per entrare in quello molto più variegato e squilibrato degli stati dell’America Latina (09.10.2019 https://www.ilpattosociale.it/2019/10/09/la-nuova-oligarchia-parlamentare/.

    Le considerazioni tardive di un esponente della sinistra italiana non tolgono né tantomeno attenuano le responsabilità di chi ha votato questa sciagurata riforma.

  • Salvini e il centrodestra “sciolto come neve al sole”

    Che non esistano in natura uomini per tutte le stagioni è ampiamente dimostrato dalla storia che, a fronte di sconfitte devastanti, ha visto sempre il passaggio della corona ai sostituti, giammai la conferma nel ruolo di comando agli sconfitti.

    Ora tutti sanno che la storia non è proprio il pezzo forte di Salvini, ma anche se ignora il destino storicamente riservato a chi perde non può certo far finta di niente e comportarsi come se non avesse gravi responsabilità, visto che si è voluto accollare il ruolo di kingmaker per la scelta del Presidente della Repubblica, con la palese intenzione di utilizzare l’eventuale successo a suo beneficio, per il ruolo futuro di premier della coalizione di centrodestra.

    E invece l’elezione di Sergio Mattarella, avallata dallo stesso Salvini che, come l’esercito austroungarico, era sceso nella valle del transatlantico di Montecitorio con orgogliosa sicurezza, dopo incredibili giravolte, cambi di direzione e spiattellamento della più lunga filiera di nomi e cognomi mai proposta in nessuna precedente elezione presidenziale, si era visto costretto alla scelta del nome che per lui era l’esatto opposto della strategia sostenuta per sei giorni con imprudenza, faciloneria e una dose industriale di arroganza, per “eleggere, finalmente, un Presidente della Repubblica di Destra”.

    Ed ora che, grazie ai suoi errori, si trova tra le inevitabili macerie del centrodestra, ne sancisce lo “scioglimento come neve al sole”.

    Ma per quanto incapace a realizzare una vittoria del centrodestra senza cercare le necessarie alleanze, e, soprattutto, sapendo di non avere i voti, Salvini non è l’unico responsabile, semmai è colui che per spirito esibizionistico ne porta la croce più di altri.

    Ed infatti la debacle dell’elezione Presidenziale per il centrodestra è un risultato che appartiene a tutti e tre i leader dei principali partiti, perché la sequela degli errori è stata decisa alla unanimità nei passaggi nodali che hanno portato alla sconfitta.

    Un primo errore è stato la presunzione di avere i voti, perché ne mancavano solo 55 al raggiungimento del quorum minimo a partire dalla quarta votazione.

    Ma un leader veramente capace non si sarebbe mai buttato all’assalto sapendo di non avere le truppe necessarie alla vittoria e confidando, senza certezze, solo nei tradimenti (a pagamento? o altro?). E sapendo che fallendo il risultato il pallino sarebbe passato agli avversari, come è accaduto.

    Il secondo errore è stato quello della candidatura di Berlusconi, che ha impedito sin dall’inizio ogni ipotesi di trattativa, ritirata troppo a ridosso dell’inizio delle votazioni, dopo giorni di polemiche, veti e reazioni varie, invece di creare le condizioni di un confronto costruttivo.

    Il terzo errore è stata la scelta, anche questa con l’accordo unanime dei tre capi, ed anzi con la pressione forte della Meloni, di presentare la candidatura della Presidente Casellati “per misurare le forze reali del centrodestra”, scegliendo la candidata meno adatta per i noti dissapori all’interno del suo stesso partito e facendo esattamente ciò che nessuna coalizione, gestita da dirigenti con un minimo di fiuto politico, avrebbe mai fatto.

    Il quarto errore la scelta, anche questa all’unanimità dei tre capi, di buttare nell’arena il nome della dott.ssa Belloni, per evitare l’elezione di Draghi, ormai rimasta chiaramente l’unica vera chance.

    Solo nella scelta di Mattarella, Salvini ha operato senza coordinarsi con la Meloni, scegliendo secondo lui il male minore, ma sempre con l’obiettivo di non fare eleggere Draghi.

    Ed è questo il più grave errore di Salvini, che se avesse avuto un minimo di fiuto politico, dopo il disastro della sconfitta cercata e voluta della Casellati, invece di proporre la dott.ssa Belloni, avrebbe dovuto da subito avanzare la candidatura di Draghi, che non poteva essere respinta, ed oggi avremmo uno scenario diverso, magari con un Kingmaker ammaccato ma oggettivamente vincente, ed un Berlusconi probabilmente meno sereno, ma non del tutto svincolato da una coalizione che avrebbe trovato il modo di ricompattarsi.

    Salvini, incoscientemente, si è immolato nel tentativo di penalizzare Draghi, reo di avere giustamente commissariato la politica e si è trovato alla fine a favorire la riconferma nei rispettivi vertici, allo stesso Premier e al Presidente della Repubblica che hanno commissariato i partiti, risultando per questo il principale perdente.

    Ed è inutile che annaspi per riprendere ruoli e centralità con dichiarazioni ansiose e prive di reale valenza politica, spie di una fragilità che rischia di aumentare il danno di immagine subito.

    Ieri ha presentato uno stralunato concetto di “un nuovo progetto più grande, ambizioso e visionario” che semplicemente non esiste, anche perché proponendo un giorno la costituzione di una federazione, il giorno dopo un Partito Repubblicano stile USA, il giorno dopo ancora magari l’Unicorno Tricolore, dà l’esatta cifra del suo stato mentale confuso e incapace di incassare l’atroce sconfitta, frutto della sua superficialità e inadeguatezza al ruolo, nell’imbarazzato ma vigile silenzio dei suoi sostenitori, che sempre di più avvertono la sua inaffidabilità.

    Oggi ha ipotizzato un anno per recuperare il centrodestra, facendo finta di ignorare l’intervista in TV su La7 della Meloni, che ha sparato contrarietà di indirizzo a palle incatenate.

    Insomma un disastro, che evidenzia comunque come sia chiaro che nessuno dei leader del centrodestra ha dimostrato capacità di direzione politica e gestionale in generale, e in particolare in questa vicenda e nella volontà di svolgere un vero gioco di squadra.

    Per realizzare un progetto visionario ed essere considerati idonei a svolgere il ruolo di governo del Paese occorre prima di tutto avere una visione del presente e sapere cosa fare per assicurare un futuro agli italiani.

    Ma per avere la visione bisogna avere principi, contenuti e linee di indirizzo coerenti che il centrodestra, almeno dal 2012 in poi, con le sue scelte sovraniste e l’assenza di strategie e progettualità, l’inseguimento degli algoritmi e il duello sterile tra Salvini e Meloni per la leadership della coalizione “sciolta come neve al sole”, ha costantemente dimostrato di non avere.

    Per questo si sente il bisogno di un nuovo soggetto politico con principi, obiettivi, progetti e contenuti, che riempia il vuoto che questo centrodestra, ora in fase di rottamazione, comunque non ha mai colmato.

    *già sottosegretario al Ministero per i Beni e le Attività Culturali

  • Il secondo mandato di Mattarella

    Personalmente avrei preferito l’elezione di Mario Draghi, al secondo mandato di Sergio Mattarella, che però costituisce il migliore piano B possibile, per bloccare il tentativo di ripresa del potere da parte della insulsa e incapace casta politica nazionale.

    Ma certamente lo scienziato Salvini e tutti i politicanti che hanno complottato contro la naturale elezione al Colle di Draghi hanno fatto la scelta peggiore in assoluto in rapporto ai loro egoistici obiettivi.

    Infatti, se avessero eletto Draghi, che da Presidente avrebbe ovviamente ostacolato la politica dell’assalto alla diligenza delle risorse pubbliche, è anche vero che avrebbero potuto convergere sulla scelta unitaria di un premier, politico o tecnico, da proporre a Draghi più malleabile di lui che, invece, con l’elezione di Mattarella,  resterà Premier e, a fronte di partiti sconfitti e indeboliti, e di nuovo con le spalle blindate dalla conferma dello stesso Presidente che lo aveva nominato, certamente continuerà il commissariamento della politica ancora più decisamente che in passato.

    Quale scenario peggiore per i leader di partiti, abituati non a convincere gli elettori sulla bontà delle loro tesi politiche, che non esistono, così come i progetti di governo e neanche le semplici idee, ma piuttosto esperti ad acquisire i consensi con la demagogia spicciola, il ricorso agli algoritmi e, soprattutto, la graziosa distribuzione di ogni possibile prebenda, contributo e regalia, ovviamente a spese dell’aumento esponenziale del debito pubblico, di ritrovarsi sulle macerie della propria sconfitta e, soprattutto, privi di sponde su cui trovare conforto alle loro impresentabili esigenze?

    E se è vero che il primo obiettivo di evitare le elezioni anticipate è stato raggiunto, è pur vero che le elezioni si terranno comunque entro un anno circa, ed è evidente che i vertici  della partitocrazia imperante, già da oggi cominceranno a tremare all’idea di affrontarle senza potere ricorrere ai giochetti delle bandierine di partito, né alle ordinarie sovvenzioni, utili solo ad alimentare le loro altrimenti sterili campagne elettorali, finanziate a discapito degli interessi reali del Paese e soprattutto di quella parte che lavora, produce e paga le imposte.

    Un incubo che non li farà dormire la notte e che, soprattutto, per il modo ridicolo e insensato di come è stata gestita la corsa all’elezione del Presidente della Repubblica, ha lasciato ferite gravi e, forse insanabili, in tutte e due gli schieramenti, ma con una frattura più pesante in quello del centrodestra, che proprio per il fatto di avere più voti, ambizioni e soprattutto presunzioni di successo, è chiaramente imploso davanti all’evidente sconfitta, e per questo pagherà il prezzo più alto.

    Una brutta storia, che dà soprattutto il senso di una classe politica ottusa e arrogante che si è, speriamo per l’ultima volta, delegittimata da sola per pura incapacità e che dovrebbe prendere atto che è arrivata al capolinea, e sarebbe ora che lasciasse, senza eccezioni, il campo ad un processo di cambiamento e di vero rinnovamento della politica, che se non torna ai valori, ai principi e ai contenuti per il corretto esercizio della sua funzione, perderà sempre maggiore credibilità da parte dei cittadini e confermerà la sua inutilità.

    Con il rischio che il primato della politica, che è un valore inestimabile perché garantisce in democrazia il corretto esercizio del controllo democratico e della sovranità popolare, già da tempo osteggiato, possa essere definitivamente cancellato, persino con il paradosso autolesionistico del beneplacito della stessa società civile, stanca di imbonitori e venditori di fumo, come ormai appaiono i leader dell’attuale partitocrazia nazionale e desiderosa di fare pulizia, buttando via il bambino insieme all’acqua sporca.

    E invece c’è l’assoluta necessità di salvare la democrazia e rinforzare la partecipazione popolare, per una politica al servizio del Bene Comune, a partire dalla immediata riforma dell’elezione del Presidente della Repubblica, da togliere ai Grandi Elettori e da affidare direttamente al popolo, nonché dalla celere adozione di una legge elettorale che restituisca il diritto ai cittadini di scegliere i loro rappresentanti, ed eliminare finalmente e per sempre l’osceno esproprio della sovranità popolare, imposto da tutti i capi partito a loro esclusivo beneficio.

    *già sottosegretario per i Beni e le Attività Culturali

  • Una volta

    Qualche decennio fa il socialista Rino Formica definì la politica “sangue e merda” affrescando così un’immagine molto forte.

    La vicenda della rielezione del presidente Mattarella dimostra invece quanto obsoleta possa oggi venire considerata questa terribile definizione.

    Durante questa settimana, indipendentemente dai soggetti politici, abbiamo assistito ad un susseguirsi di proposte di candidati lanciati allo sbaraglio in quanto privi di alcun accordo politico precedente contemporaneamente a tradimenti politici e personali consumati nel giro di qualche ora. Uno spettacolo avvilente che ha dimostrato l’assoluta mancanza di qualsiasi tipo di valore umano espresso da questi leader politici i quali, per conseguire l’obiettivo minimo e anche la sola propria visibilità o l’affermazione della propria compagine politica, hanno senza ritegno imbastito delle trame finalizzate più a danneggiare l’avversario che non a raggiungere l’obiettivo, cioè l’elezione di un nuovo Presidente della Repubblica. Questi torbidi personaggi hanno utilizzato il palcoscenico parlamentare per recitare di fronte ai media la poesiola degli “alti obiettivi” che la loro azione intendeva raggiungere per poi, lontano dalle luci della ribalta e mediatiche, ordire le peggiori trame che mente umana possa immaginare.

    Subito dopo l’elezione del Presidente della Repubblica, infatti, ognuno si è arrogato il merito della rielezione del presidente Mattarella accusando la parte avversa di aver ordito e tramato contro sé stessi e la nazione.

    Dopo sole quarantotto (48) ore si ritroveranno tutti assieme al prossimo Consiglio dei Ministri come espressione di un’alleanza politica, avendo ampiamente dimostrato la propria incapacità come forze governative risultando relegate a semplici forze di sostegno ad un governo eterodiretto.

    Se Rino Formica avesse ragione il sangue dovrebbe sgorgare da ferite politiche ed umane e, di conseguenza, dare vita a mutamenti politici e personali proprio in seguito alle ferite subite e al sangue che ne è conseguito.

    Viceversa lo spettacolo offerto dalla politica dimostra, soprattutto alle giovani generazioni, come si possa tradire senza pagare alcuna conseguenza e sempre per un interesse personale sorvolare sui torti subiti venendo meno a qualsiasi principio di dignità personale.

    Questo oggi emerge come unico messaggio che la politica è in grado di offrire e comunicare: un luogo dove non si trova più né il sangue né la merda. Semplicemente, invece, l’immagine più vicina allo spettacolo parlamentare è quello di un’immensa discarica priva di ogni valore politico, etico ma soprattutto umano.

  • A Bruxelles orgia durante il lockdown per un eurodeputato di Orban

    Scandalo a Bruxelles: un festino hot tra sesso, droga e alcol in barba al lockdown scuote la capitale belga, cuore delle istituzioni europee. E scoppia un caso. Non solo perché gli uomini che hanno partecipato all’orgia venerdì scorso hanno ignorato ogni regola contro il coronavirus. Ma anche perché tra loro ci sarebbero stati diplomatici e funzionari europei ed un europarlamentare, noto esponente della politica ungherese legato a Victor Orban, che dopo essere stato scoperto si è dimesso.

    La notizia è rimbalzata su tutti i media con la polizia che, pur senza fornire molte indicazioni sull’accaduto, ha confermato l’episodio. Sono stati proprio gli agenti venerdì scorso a fare irruzione in un locale sopra un bar del centro della capitale trovando una ventina di uomini, molti di essi nudi, che partecipavano al party tra droga e alcol. Tutti sono stati identificati e multati per aver violato il lockdown con un’ammenda di 250 euro. Ma uno di loro è riuscito a scappare e quando è stato riacciuffato dai poliziotti non ha potuto fare meno di dare le proprie generalità, ammettendo di essere un parlamentare europeo e provando a giocare la carta dell’immunità.

    Immediata è scattata sul web la caccia all’identità dell’uomo mentre fonti dell’Eurocamera si trinceravano dietro la privacy per evitare ogni commento. Poi la conferma è arrivata dal diretto interessato: József Szájer, eurodeputato ultraconservatore di Fidesz che ha annunciato di essersi dimesso. “Ero presente”, ha ammesso in una dichiarazione. “Dopo che la polizia ha chiesto la mia identità, visto che non avevo documenti ho dichiarato di essere un eurodeputato. Sono profondamente dispiaciuto di aver violato le restrizioni Covid. E’ stato irresponsabile da parte mia”, ha sottolineato Szajer scusandosi con la famiglia, con i colleghi e con i suoi elettori che per quattro volte lo hanno votato al parlamento ungherese (tra il 1990 e il 2002) e quattro volte al Parlamento europeo, dal 2004.  “Chiedo loro di valutare il mio passo falso sullo sfondo di trent’anni di lavoro devoto e duro. Il passo falso è strettamente personale, io sono l’unico che ne deve assumere la responsabilità. Chiedo a tutti di non estenderlo alla mia terra o alla mia comunità politica”, ha aggiunto, precisando di non aver fatto comunque uso di droghe.

    Szájer è una personalità in vista all’interno di Fidesz, di cui è stato uno dei fondatori, ed ha ricoperto incarichi di primo piano, come la vicepresidenza del gruppo del Ppe fino alla scorsa legislatura. Un passato ingombrante che mette ancora di più in imbarazzo le élite politiche a Bruxelles e a Budapest, investite dal tam tam di commenti sul web. In molti non perdonano a Szájer le sue posizioni sui matrimoni gay, bollate come “omofobe”. E che di certo mal si conciliano con il festino di venerdì 27 novembre.

  • Sconfitte, vittorie e sconfitte travestite da vittorie

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo dell’On.Michele Rallo

    Vengo meno alle mie consolidate abitudini e, questa settimana, scrivo il pezzo per “Social” il lunedí, dopo i primi dati del referendum e delle regionali.

    È troppo presto per una analisi compiuta dei risultati, ma alcune considerazioni possono comunque farsi. In ordine sparso – naturalmente – e chiedo scusa ai lettori per il carattere disordinato delle righe che seguono.

    Referendum. Gli ultimi dati parlano di una vittoria dei SI di 70 a 30, o giú di lí. Di Maio canta vittoria con toni addirittura epici. Da un certo punto di vista ha ragione: la maggioranza degli italiani ha dato credito alla narrazione dell’antipolitica grillina. Troppo poco, peró, per cantare vittoria: i risultati delle regionali puniscono severamente i Cinque Stelle, ridimensionandoli ulteriormente e impietosamente. I grillini sono ormai incamminati stabilmente sul viale del tramonto, un viale in discesa ripida, ripidissima, con traguardo finale il precipizio.

    Decisione sbagliata. Per fare un dispetto (o per credere di farlo) al “palazzo”, gli italiani hanno votato contro i loro stessi interessi. Se ne accorgeranno presto, quando vedranno che intere province saranno rimaste senza una propria rappresentanza parlamentare, alla mercé del tornaconto delle vicine metropoli.

    Regionali: tre a tre, e palla al centro. Apparentemente, il risultato finale è di parità: tre a tre. Ma il pareggio è solo apparente, perché il Centro-destra sale e il Centro-sinistra scende. Vediamo il dettaglio.

    Il Centro-destra a quota 15 (su 20). Il Centro-destra si è rafforzato notevolmente nelle due regioni che giá controllava (Veneto e Liguria) e ne ha conquistato agevolmente una terza (le Marche). Amministra ormai 15 regioni su 20, con ció confermando di essere una solida maggioranza nel paese. Chissá se in Alto Loco se ne sono accorti.

    Il Centro-sinistra a quota 5 (su 20). Il Centro-sinistra si è rafforzato solamente nella Campania dello “sceriffo” De Luca, ha mantenuto le posizioni in Puglia con Emiliano, ha limitato i danni nella rossa Toscana (conservando la presidenza ma con uno scarto dimezzato rispetto a quello del 2015), ed è infine franato rovinosamente nelle Marche (altra regione rossa passata al Centro-destra, come l’Umbria qualche mese fa). Oltre alle 3 conservate oggi, il Centro-sinistra ne mantiene ancora 2: l’Emilia-Romagna e il Lazio. Quest’ultima regione è stata conquistata da Zingaretti nel lontano (politicamente) 2018. Il fratello di Montalbano se la tiene stretta – la regione – rinunciando anche a fare il Ministro, pur di non dimettersi da governatore e andare incontro ad elezioni anticipate (e a sicura sconfitta). Ma qualcosa in regione comincia a scricchiolare.

    Il Centro-destra non è riuscito a politicizzare il voto. Il Centro-destra ha vinto, ma non è riuscito a stravincere. Ció ha consentito al Centro-sinistra di gabellare la sconfitta per una mezza vittoria. Merito principalmente di due bravi amministratori – De Luca ed Emiliano – che sono riusciti a depoliticizzare il voto, evitando che la gente votasse contro l’incapacitá del governo nazionale a gestire la crisi economica e occupazionale, o contro la politica suicida dei porti aperti all’invasione migratoria.

    L’elettorato premia i buoni amministratori. Questo è un altro fattore che non andrebbe dimenticato: in tutte le elezioni di carattere amministrativo (regionali comprese) la gente tende a votare per chi ha dimostrato di sapere amministrare bene, mettendo in secondo piano le ragioni di schieramento politico. In Campania e in Puglia, De Luca ed Emiliano sono stati rieletti anche con l’appoggio – alla luce del sole – di ampie fasce di elettorato di destra.

    Conte salvo e Zingaretti se la cava. Il risultato politico complessivo, comunque, è sconfortante, almeno dal mio punto di vista. Il governo Conte, infatti, potrebbe sopravvivere. Se cadrá, cadrá per altre ragioni; non per il “quadro politico”, che traballa ma regge. E Zingaretti rimane alla segreteria del PD, salvato da due governatori che non lo amano affatto (e che lui non ama).

    I grillini in rotta. Se la cava anche Di Maio, almeno fino a quando riuscirá a nascondere dietro il risultato referendario lo squagliamento dei voti grillini. I Cinque Stelle hanno perso anche il terzo posto nella classifica fra i partiti – ormai stabilmente tenuto da Fratelli d’Italia – e sono adesso una forza politica a tutti gli effetti “minore”, marginale, il cui unico obiettivo è quello di restare sopra la soglia di sbarramento del 5% per evitare di scomparire del tutto. Il colpo di grazia potrebbe arrivare da un momento all’altro, per un qualche incidente di percorso; ma, se non dovesse arrivare prima, giungerá comunque con le elezioni amministrative di Roma, fissate per la primavera prossima.

    Che farà Conte? Giuseppi – ci scommetto – rinuncerá definitivamente alla possibilitá di conquistare la leadership dello sconquassato movimento grillino, e si butterá sull’altro progetto: quello di un partito tutto suo (e di Casalino). Finora è stato bravo a navigare a vista, disinnescando i molti ordigni sulla sua strada. Ha esteso a tutto il 2020 il blocco dei licenziamenti, manovrando con la cassa integrazione. Ha evitato, cosí, la paventata grande crisi sociale di autunno. E speriamo che alla grande crisi non si arrivi neanche nel gennaio del 2021.

    Corso di sopravvivenza. Il governo di Giuseppi II non ha un’anima. Si rege solo su un matrimonio di convenienza fra PD e grillini, entrambi interessati a una cosa soltanto: scongiurare le elezioni anticipate. Per evitare questo “pericolo”, tutto fa brodo. Anche una sconfitta travestita da mezza vittoria. Ma fino a quando sará possibile continuare con i giochi di prestigio?

  • La riforma elettorale che i partiti non vogliono

    Ancora una volta, mentre continuano le dichiarazioni ed i commenti sulle recenti elezioni amministrative nelle quali, come sempre, più o meno tutti hanno vinto, si riaccende il dibattito tra “non udenti” sulla riforma della  legge elettorale e, come dice un vecchio detto, non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire e nessuna forza politica sembra voler ascoltare i sentimenti di disaffezione e sfiducia degli  elettori. Come  sempre per i capi partito il problema non è cercare una legge che garantisca al massimo livello la libertà di scelta degli elettori e, di conseguenza, sia garanzia di democrazia e partecipazione, ma  l’obiettivo è individuare il sistema più garantista per le loro forze politiche. Ciascuno propone quello che ritiene sia il sistema elettorale più confacente ai suoi interessi, a prescindere dall’interesse dei cittadini.

    La democrazia per vivere ha bisogno di regole certe e rispettate e di cittadini che abbiano garantito il diritto-dovere di manifestare il loro consenso in libertà e con la conoscenza effettiva dei programmi di governo e delle capacità e competenze dei parlamentari e senatori che devono eleggere. Siamo da sempre dell’avviso che solo un sistema proporzionale, con una soglia di sbarramento, un contenuto premio di maggioranza e la scelta preferenziale dei candidati, togliendo così ai capi partito il diritto di scegliere per noi chi ci deve rappresentare, farà ritornare gli elettori ad una maggior affezione al voto e gli eletti ad occuparsi del territorio e della gente invece che cercare di accattivarsi la benevolenza dei loro maggiorenti per garantirsi il posto sicuro in lista.

    Certo un sistema proporzionale preferenziale deve avere regole ferree che controllino le spese di partiti e candidati e regolamentino la presenza in lista di personaggi televisivi, infatti vi devono essere il più possibile pari opportunità per tutti coloro che sono in lista ed i cittadini dovrebbero poter valutare su curricula oggettivi e su programmi trasparenti ed avere la possibilità di controllare l’operato di coloro che hanno eletto. Inoltre nel dibattito sulla futura legge elettorale andrebbe anche affrontato il tema della personalità giuridica dei partiti, della loro democrazia interna, del rispetto degli statuti, dei diritti degli iscritti e del controllo dei bilanci da parte della Corte dei Conti. In sintesi dovremmo riformare tutto il sistema di rappresentanza  partitica ma nessuno né 5Stelle, Lega o Pd vogliono quella trasparenza della quale parlano per conquistare consensi.

     

  • L’Europa ascolta la Merkel e ignora Grillo e i suoi alleati

    Il centro studi VoteWatch Europe ha stilato una classifica sull’influenza dei partiti presenti nei 28 Paesi dell’Unione e rappresentati al Parlamento europeo. Il partito più influente è risultata la Cdu/Csu tedesca, che nello studio viene indicato come il «partito più potente nell’Ue nonostante le sue recenti perdite». Alle sue spalle si colloca il movimento del presidente francese Emmanuel Macron ‘La Republique en Marche’, mentre in terza posizione si piazzano i Conservatori britannici. I partiti italiani figurano tra i meno influenti del continente, a «causa della frammentazione e dall’instabilità del panorama politico» del Belpaese. I grillini si collocano al settimo posto ma riescono a precedere il Pd, all’ottavo posto, mentre la Lega di Matteo Salvini è al decimo.

    Tra i maggiori Paesi – scrive VoteWatch -, «l’Italia è quella dove l’instabilità e la frammentazione politica sono più pronunciate. Questo spiega perché non ci sono partiti italiani tra i primi cinque posti, nonostante la penisola sia il quarto più grande Stato membro dell’Ue». Lo studio precisa inoltre che «gli accordi di coalizione altamente instabili e la volatilità dell’elettorato italiano hanno impedito il consolidamento del potere». Il «M5S detiene un forte peso legislativo a livello nazionale – si legge -, ma il calo nei sondaggi e la scarsa presenza a livello europeo e regionale condizionano» il suo peso politico. Il «Pd ha una maggiore longevità e connessioni più ampie in Europa, ma la sua decrescente forza elettorale ne condiziona l’influenza a livello nazionale». Infine, la Lega «gode di ottime prestazioni a livello di sondaggi ma non è lo stesso a livello Ue».

  • Carlo Calenda lancia Azione, il suo movimento politico

    Si chiama Azione e l’annuncio arriva via Social. Carlo Calenda, europarlamentare ed ex ministro, che ha lasciato il PD in polemica per la scelta di allearsi con il Movimento 5 Stelle, lancia il suo movimento che viene presentato anche nella sede della Stampa estera a Roma. Il manifesto di questo nuovo soggetto politi recita ‘Azione – Per una democrazia liberal-progressista’ e lancia un chiaro messaggio contro quelli che nel testo sono definiti ‘i disastri dei populisti e dei sovranisti’.
    Il nome Azione richiama le radici culturali e politiche del liberalismo sociale e del popolarismo di Sturzo. “Azione diventerà il pilastro di un grande Fronte Repubblicano e Democratico capace di ricacciare populisti e sovranisti ai margini del sistema politico. Per questo consentiremo la doppia tessera. Non vogliamo escludere – si legge nel testo – ma al contrario tenere le porte ben aperte. Il nostro obiettivo non è frammentare, ma lavorare per l’unità e il rinnovamento delle forze liberal democratiche”.

    Il nuovo partito, almeno secondo il suo fondatore, ambisce a raggiungere il 10% creando così un polo di liberali e progressisti che non vogliono allearsi né con il sovranismo di Salvini né con il M5S.

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