Pena

  • In attesa di Giustizia: inutili rimedi

    Quella verificatasi a Cutro non è la prima e non sarà, purtroppo, l’ultima tragedia del mare cui dovremo assistere a causa della inarrestabile fuga dai paesi di origine di migranti oppressi da guerra, povertà e stenti di ogni genere e quello dei flussi migratori irregolari è un problema molto serio a prescindere da esiti fatali delle traversate cui non è facile per il Governo – qualsiasi governo – trovare un rimedio.

    Certamente non può esserlo, come è stato recentemente fatto, l’aumento delle sanzioni previste per gli scafisti: anzi, è l’ennesima iniziativa del tutto inutile adottata mettendo mano al codice penale.

    Per meglio illustrare quale sia lo spunto di riflessione che la rubrica offre questa settimana, è innanzitutto necessario comprendere bene chi siano davvero i c.d. “scafisti”, intesi come coloro che timonano un malconcio naviglio carico di poveri sventurati verso la destinazione. La figura finisce con il sovrapporsi, confondendosi, con quella dei trafficanti di esseri umani e la differenza non è banale.

    Nella realtà gli organizzatori di questi indegni e lucrosi traffici si guardano bene, come dovrebbe essere facilmente intuibile, anche solo dal mettere un piede su quei barconi della disperazione  condividendo con i passeggeri  i rischi altissimi della traversata: i veri, unici “scafisti” che meriterebbero di essere individuati e severamente puniti sono proprio costoro che, tutt’al più, scortano le carrette del mare fino ai limiti delle acque territoriali del Paese di partenza per poi fare rapido rientro a casa, sui loro motoscafi, abbandonando quei disperati al loro destino. Ecco: questi sono i veri criminali e non li abbiamo mai visti, né mai li vedremo nella assoluta impossibilità di identificarli chiedendo improbabili forme di cooperazione dalle Autorità Giudiziarie del Paese di provenienza.

    Ebbene, la nostra ennesima crociata contro il male che si annuncia con i tradizionali squilli tromba (“stretta sugli scafisti”, “pene più severe per gli scafisti”, “nuovi reati contro gli scafisti”), serve giusto giusto per poter scrivere titoloni sui giornali facendo mostra con i cittadini che anelano giustizia e sicurezza di una muscolatura che a quei delinquenti non fa nemmeno il solletico.

    E vi è di più: negli ultimi dieci anni sono stati arrestati e processati oltre 2500 “scafisti”. Posto che costoro non sono soliti indossare la divisa immacolata ed il cappellino da capitano, essi vengono, a regola, individuati – con intuibile ampio margine di approssimazione – tramite le dichiarazioni degli stessi migranti e dei superstiti, quando accadono naufragi. Orbene, in gran parte dei casi, coloro che sono stati indicati  (ammesso che fossero davvero imbarcati a timonare) altro non sono che migranti come gli altri, che per le più varie ragioni – ed essendo capaci di guidare un natante – si sono detti disposti ad accettare l’incarico dell’ associazione criminale di condurre il barcone; facile immaginare che questo accada per ottenere uno sconto sul costo del viaggio; oppure sono disperati disposti a rischiare la vita ed il carcere per guadagnare qualcosa.

    Per quelli che finiscono nelle nostre mani, spesso individuati con larghissimi margini di incertezza, è tra l’altro già prevista una pena fino a cinque anni di reclusione ma basta che le persone trasbordate siano più di cinque, cioè la normalità del fenomeno, per far scattare l’ipotesi aggravata, un minimo di cinque ed un massimo di quindici anni. Se poi c’è naufragio si aggiunge (almeno) l’omicidio colposo plurimo. Dunque, una aspettativa punitiva già altissima, senza alcun bisogno di novità normative.

    Nel nostro Paese, però, va così: se accade un fatto grave che, magari, interessa anche possibili responsabilità istituzionali, una sola è la risposta: nuove figure di reato, o inasprimento delle pene. E’ un riflesso populista, patrimonio comune dei governi di qualsivoglia colore politico, che usano il diritto penale non per raggiungere un seppur minimo e concreto risultato in termini di dissuasione dal delinquere, ma per lanciare tramite la narrazione mediatica il messaggio di uno Stato che reagisce con implacabile severità. Quale mai sarà il migrante che si rende disponibile a pilotare il barcone perché altrimenti non avrebbe il denaro sufficiente per imbarcarsi, o il disperato che non sa come altrimenti guadagnare nella vita, che recederà dall’intento venendo a sapere (da chi, poi?), che la pena che sta rischiando non è più di 15, ma di 20 anni?

    In compenso va in onda la consueta liturgia dello “Stato che reagisce con fermezza”, ed in attesa che giustizia sia fatta saremo tutti più tranquilli. O, forse, no.

  • In attesa di Giustizia: (in)giustizia sportiva

    Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me…i giudici sportivi devono essere dei cultori  della Critica della Ragion Pratica per essere riusciti a condannare la Juventus ad una pena che, per l’illecito  che le è stato attribuito non esiste: un po’ quello che successe a Norimberga, allorquando i gerarchi nazisti furono processati per “crimini contro l’umanità”, delitto che, in sé e per sé non era contemplato da nessuna norma giuridica sebbene attenesse alla legge morale; ma, insomma, quella era Norimberga e il Tribunale finì per darne una definizione aggiungendo l’omicidio, lo sterminio di massa, la persecuzione su base razziale, politica o religiosa.

    In sintesi, e per avviare la riflessione, sono stati inflitti alla Juventus quindici punti di penalizzazione senza che sia stato formalizzato uno specifico illecito sportivo connesso al tema delle plusvalenze e la motivazione della sentenza altro non fa che confermare un clima di giustizialismo diffuso che è andato a toccare anche il settore sportivo.

    Il provvedimento dice, senza spiegarsi oltre, che è vero: la norma che si assume violata nel capo di imputazione non c’è ma i documenti arrivati dalla Procura di Torino (relativi ad un processo ancora da celebrarsi ed in cui verificare la fondatezza dell’accusa…) sembrano descrivere – in ogni caso – una realtà fatta  di imbrogli. Ed ecco che l’insulto alla legge morale supplisce alla mancanza di una contestazione scritta.

    Formalismi avvocateschi? Nossignori: ai bianconeri è stato ascritta l’inosservanza dei doveri di lealtà e probità sportiva: definizione un po’ generica se l’addebito viene mosso senza specificare in cosa siano consistiti e…si badi bene: stiamo parlando, e non ve n’è dubbio, di alterazione di scritture contabili.   Secondo il codice sportivo, per  arrivare ad una penalizzazione si sarebbe dovuto sostenere, e possibilmente dimostrare con delle perizie, che quei falsi erano intesi a dissimulare una situazione di insolvenza risalente al 2020 che avrebbe impedito alla Juve di iscriversi al campionato  successivo.

    L’ipotesi è  fantasiosa prima ancora che totalmente inesplorata: comunque sia, in mancanza di imputazione  e  di prove a supporto, la sanzione non avrebbe dovuto essere la penalizzazione in classifica ma una multa, salata ma pur sempre sopportabile dalla famiglia Agnelli.

    Anche in questa sede un ruolo decisivo lo hanno svolto le intercettazioni telefoniche, ovviamente fatte nell’indagine penale e trasferite al giudice sportivo senza che siano state ancora periziate (cioè verificato, come prevede la legge, che ciò che è stato manoscritto dagli agenti addetti all’ascolto corrisponda a ciò che è stato effettivamente detto e registrato). E’, a questo punto, inutile rilevare che il giusto processo per le società sportive è un traguardo ancora lontano da raggiungere e che la motivazione della sentenza di condanna della Juventus assomiglia di più ad una supercazzola che ad un funambolismo giuridico: certamente non a quella che dovrebbe essere la sostanza di un provvedimento reso al termine di un giudizio serio.

    Lo sport è qualcosa che appartiene alla vita di tutti noi e di tutti i giorni: per alcuni è una passione, un hobby, per molti altri è un lavoro da atleta o da dirigente e la pretesa che disponga di un ordinamento giuridico che non emuli il codice penale su base analogica dei tempi dell’URSS e sia affidato a giudici competenti non è fuor di luogo.

    Può darsi che questa rubrica torni in argomento e la questione  potrebbe essere meno stucchevole di un commento all’affaire Cospito: carcere duro o no per  un gentiluomo d’altri tempi ritenuto responsabile di aver piazzato due ordigni, di cui uno ad alto potenziale nell’assalto ad una Scuola Allievi dei Carabinieri?

    In attesa di Giustizia sportiva per ora è tutto, a voi studio centrale.

     

  • 41 bis per tutti per garantire i cittadini e rendere giustizia alle vittime

    Inutile che una parte del personale politico si impanchi in più o meno pretestuose polemiche, la verità incontrovertibile è che lo Stato, per garantire i cittadini e rendere giustizia alle troppe vittime, non può che applicare il 41 bis per tutti i crimini per i quali è contemplato.

    Tutto il resto è ininfluente.

  • In attesa di Giustizia: quaggiù qualcuno ci ama

    Non è una novità e non è la prima volta che se ne parla in questa rubrica: certo si è che la categoria degli avvocati e – più che mai quella dei penalisti – non è ai vertici della scala di popolarità tra la gente comune, almeno fino a quando non incorre nella sfortunata esperienza di una imputazione, certamente non ha tra i suoi fans l’Associazione Nazionale Magistrati, il furore giustizialista alimentato da larga parte della classe politica la illustra come complice dei peggiori criminali.

    In un Paese nel quale, tra le tante, l’infrastruttura di cui si avverte sempre più la mancanza è una immateriale e cioè a dire la cultura, fa piacere leggere queste riflessioni tanto più apprezzate quanto inattese di Isabella Bossi Fedrigotti pubblicate sul Corriere della Sera tempo fa.

    Chi l’avrebbe mai detto che la nota scrittrice avesse un passato come quello che descrive e che ne vada così orgogliosa come traspare dalle sue parole?

    In gioventù ho assunto, controvoglia, qualche patrocinio penale. È stata un’esperienza che mi ha segnato. Poi la vita mi ha portato altrove. La difesa penale è il compito più alto, giusto e nobile che possa svolgere un avvocato, anche la difesa dei più efferati criminali. Ma come? come può essere impresa meritevole difendere i criminali?

    Anche il peggiore degli assassini (o peggio) resta un essere umano. Dovrà giustamente sottostare alla sua giusta pena. Ma non può essere condannato per qualcosa che non ha fatto solo perché è “un infame”, non può essere picchiato o torturato perché “è un mostro”, non può essere condannato sommariamente, con prove dubbie, ad una pena esorbitante perché così chiedono i media, l’opinione pubblica o un magistrato troppo zelante.

    Devi farti dieci anni di galera? Va bene, ma siano dieci e non undici, le accuse siano chiare, le prove siano prove, e debitamente prodotte, la procedura sia rispettata. Per questo ci sono io che ti difendo. Non ti difendo contro la giustizia, ma per la giustizia. Perché tu, anche se assassino, resti un uomo e non diventi carne da macello.

    In secundis, la maggior parte dei criminali – non tutti – son gente ferita, squinternata, squilibrata, ignorante, grezza, impaurita, in una parola debole, che si ritrovano soli in un mondo di ufficiali di polizia, pubblici ministeri, giudici, periti, ecc., tutta gente laureata, di condotta integerrima, che fa il proprio lavoro, inserita in un sistema col suo complesso sistema di regole e regoline e che sono potenzialmente suoi nemici. È giusto che ci sia almeno uno laureato, in giacca e cravatta, che conosce il sistema e non ne è intimidito, che lavora per lui, che è dalla sua parte.

    Ma non diciamo anche noi nel Salve Regina “avvocata nostra”? Tutti finiremo di fronte ad un tribunale a dar conto di quello che abbiamo fatto e non fatto, detto e non detto. Ci vuole un avvocato anche lì, o no?

    Grazie, Isabella, lo dico da avvocato ma prima ancora da cittadino: leggendo queste righe – riportate nella loro originale interezza – scritte con intensa sintesi da chi non è di parte o emotivamente coinvolto forse sarà più facile comprendere quale sia il ministero del difensore, quale la sua cruciale importanza in quella attività così complessa ed impattante nella vita tanto dei presunti autori quanto delle vittime dei reati.

    Un attività volta a contribuire a che si renda giustizia, una giustizia quella degli uomini che sia – se non altro – il meno imperfetta possibile.

  • In attesa di Giustizia: Beccaria non abita più qui

    Nella nostra Costituzione, all’articolo 27, echeggia il pensiero di Cesare Beccaria laddove si prevede che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato: un impegno, pertanto, che coinvolge l’intera amministrazione della Giustizia, dal Giudicante che deve determinare il trattamento sanzionatorio per chi sia stato ritenuto autore di un reato misurandolo con le prospettive di reinserimento sociale, sino al Tribunale di Sorveglianza che può ammettere un condannato a benefici che ne riducano la pena ovvero ne consentano l’espiazione attraverso un progressivo riacquisto della libertà sempre che il soggetto – sottoposto ad osservazione di esperti durante la carcerazione – ne risulti meritevole anche per la possibilità di ottenere un lavoro all’esterno.

    La nostra legislazione prevede che anche l’ergastolano possa avere una opportunità di rientro nel consorzio sociale, sia pure dopo molti e molti anni di detenzione, invece che un “fine pena mai”. Ma ci sono delle limitazioni introdotte nel tempo e tra queste quella che prevede il c.d. ergastolo ostativo, cioè a dire (con riferimento solo a taluni reati di sangue aggravati) il divieto di misure premiali di qualsiasi genere.

    Con decisione recentissima la CEDU ha affermato che l’ergastolo ostativo è contrario anche alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo violandone  l’art 3.

    La pronuncia, partitamente in un periodo storico – politico in cui la tendenza è quella della panpenalizzazione delle condotte e dell’inasprimento delle pene, è di grande importanza nel quadro di un necessario riallineamento della pena detentiva perpetua alla necessaria finalità rieducativa della pena e suona a monito di un legislatore nazionale ispirato solo dalla estremizzazione del rigore, senza considerare che la sicurezza dei cittadini deve essere assicurata anche tentando, almeno tentando, il recupero dei condannati allontanandone il pericolo che ricadano nel crimine una volta scontata la pena.

    Peraltro la critica della CEDU non ha tanto ad oggetto la durata della pena, quanto l’automatismo normativo che, nei reati “ostativi” che non sono solo quelli puniti con l’ergastolo, ravvede nella collaborazione con l’autorità giudiziaria l’unico strumento per ritenere cessata la pericolosità: la Corte mette, dunque, in discussione anche delle ostatività (alcune recentemente introdotte, per esempio per reati contro la Pubblica Amministrazione) relative a pene temporanee.

    La CEDU ha ritenuto che, se la collaborazione costituisce l’unica via attraverso la quale il condannato possa aspirare ad una rivalutazione della sua pericolosità, vi è da dubitare che il dubbio possa essere il frutto di una libera scelta, senza contare che, non di rado, è la paura di ritorsioni che determina la scelta di non collaborare. Quindi, deduce la Corte, la mancanza di collaborazione non può di per sé esprimere una permanente adesione a valori criminali o alla criminalità organizzata, ed altresì che la dissociazione del condannato può esprimersi con diverse modalità. D’altro canto, la collaborazione non è necessariamente prova di una effettiva resipiscenza ma può essere frutto di una valutazione utilitaristica. Infine, afferma la Corte che la personalità di un condannato non può essere ritenuta immutabile rispetto a quella che era al momento della commissione di un reato e, pertanto, deve tenersi conto dei progressi eventualmente accertati nel corso dell’esecuzione della pena.

    La Grand Chambre ha infine osservato che compete allo Stato Italiano introdurre una riforma del regime dell’ergastolo che garantisca valorizzazione di eventuali progressi del condannato ai fini della valutazione pericolosità dello stesso e dell’eventuale accesso a misure alternative al carcere, a prescindere dalla eventuale collaborazione.

    Beccaria non abita più qua, ce lo ricordano da Strasburgo: converrà tenere conto dell’insegnamento invece che perseguire il consenso attraverso il clangore delle manette.

  • In attesa di Giustizia: Verziano Coffee Morning

    Mentre il Governo traccheggia accampando giustificazioni poco credibili con la promulgazione del nuovo Ordinamento Penitenziario, normativa impopolare sotto elezioni e con un corpo elettorale affamato di vendetta sociale, il 20 febbraio si è celebrata la giornata mondiale della Giustizia Sociale: iniziativa poco conosciuta patrocinata dall’ONU il cui tema, quest’anno, erano i lavoratori in movimento.

    In questo ambito, una manifestazione degna di nota è stata organizzata nel carcere di Verziano, vicino Brescia: istituto progettato inizialmente per essere un istituto penitenziario minorile è stato da subito destinato a casa di reclusione, cioè a dire, un luogo destinato ai detenuti in espiazione di una pena definitiva dei quali, secondo il dettato costituzionale, si deve curare la rieducazione.

    Dunque, pochi giorni dopo, la mattina di sabato 24, la casa di reclusione è stata aperta alla cittadinanza per poter accedere alle strutture interne dove la colazione è stata servita dai detenuti con caffè e pasticcini prodotti da loro: infatti, regolarmente stipendiati, un certo numero di carcerati che fruiscono di misure alternative alla detenzione è stato assunto, tramite una cooperativa, da aziende private per produrre cialde per l’espresso e cannoncini farciti. Un po’ di numeri? In un anno sono stati realizzati oltre venti milioni di cialde, mentre i pasticcini confezionati raggiungono quotidianamente il quintale.

    Ne abbiamo già parlato su queste colonne: è intuitivo che l’avviamento ad una specializzazione professionale agevoli il reinserimento sociale facilitando l’accesso al mondo del lavoro e ad avvantaggiarsene è proprio quella sicurezza cui tanto anela una classe politica ansiosa di farne viatico per il consenso.

    Con sacrificio e grazie alla collaborazione di cooperative ed aziende private, in più di un istituto penitenziario si realizzano attività simili ma resta fondamentale comunicarne l’utilità all’esterno: anche e soprattutto avvicinandovi la cittadinanza, come hanno fatto a Verziano dove per dare lavoro, con imprese già pronte ad offrirlo, ad altri condannati servirebbe però un nuovo padiglione. E qui la parola passa al Ministero della Giustizia ed alla cronica mancanza di risorse economiche nelle casse dello Stato.

    E’ stato il pensiero liberale di Cesare Beccaria a porre le fondamenta perché la pena non rimanesse una mera retribuzione del crimine connesso ma un’occasione di riscatto: e in questa finalità bisogna crederci, non fosse altro perché sono i numeri a segnalare che l’opera di reinserimento, quando è resa possibile ed adeguata è efficace  mentre la caduta nella recidiva è marginale.

    E per comprendere meglio quanto intenso sia anche per molti di quegli uomini rinchiusi in gabbia il desiderio di migliorarsi, lascio la parola a quanto scritto da un detenuto in occasione della visita alle carceri del Papa: “Oggi mi sento libero nella mente e nell’anima, oggi so che anche in questo inferno di peccatori c’è speranza: non siamo dimenticati o emarginati, non siamo solo un numero di matricola, oggi siamo di nuovo uomini, donne, madri, padri e figli. Grazie Francesco.”

  • In attesa di Giustizia: verso le elezioni…dello sceriffo?

    In altre occasioni, su queste colonne, abbiamo affrontato il tema del rapporto intercorrente tra politica, giustizia e sicurezza che è tutto sbilanciato a favore di quest’ultima in quanto ogni intervento così orientato (anche solo apparentemente) è foriero di ampio consenso presso un’opinione pubblica, o meglio, un corpo elettorale assai sensibile all’argomento.

    I fatti di cronaca degli ultimi giorni sembrano giovare alla causa di chi è alla ricerca di voti facendo leva proprio sul senso di insicurezza che hanno alimentato: due ragazze uccise barbaramente, un giustiziere armato, una rapina con sparatoria possono fornire materiale inesauribile per una campagna elettorale giocata sulle paure della gente comune. Nessuna parte politica sembra essersi sottratta al dibattito e nessuna ha espresso concetti coerenti con il pensiero liberale, optando – piuttosto – per una propaganda fondata sulla repressione.

    Tutto molto facile: se è vero che la comparsa di nuove categorie di emarginati che fuggono da miseria, guerre e persecuzioni ha portato con sé inevitabili frange di criminalità renderla destinataria di un diritto penale “del nemico” è operazione agevole e ampiamente condivisa soprattutto laddove possa apparire indistinto il confine con il terrorismo di matrice islamica ed il suo doveroso contrasto.

    Sempre attualissimo il tema della legittima difesa, con proposte in ordine alla sua estensione, quando non ad una possibile presunzione per legge.

    Ovviamente, la certezza della pena è un obiettivo considerato equivalente all’inasprimento delle sanzioni ed alla riduzione delle garanzie: con buona pace dei canoni costituzionali relativi alle finalità rieducative della pena, alla ragionevolezza, alla presunzione di non colpevolezza e – non ultimo – al giusto processo.

    L’insegnamento di Cesare Beccaria, che è evocato proprio dall’art. 27 della Costituzione, dovrebbe cedere il passo al pensiero dell’omonimo Lombroso secondo il quale il criminale nasce tale ed è – pertanto – insensibile a priori a qualsiasi iniziativa volta al reinserimento sociale.

    Ecco, dunque, che langue la riforma dell’Ordinamento Penitenziario contenuta in una legge delega e sostanzialmente pronta per l’emanazione da parte del Governo e poco importa che le statistiche del Ministero della Giustizia segnalino un tasso di recidiva contenuto da parte dei condannati ammessi a misure alternative alla detenzione rispetto al 70% di chi sconta per intero la pena dietro le sbarre: non è mestieri inimicarsi (proprio adesso…) gli elettori con un provvedimento definito in maniera completamente fuori luogo salvaladri.

    Per questo c’è ancora tempo, molto poco, troppo poco per credere che un intervento ritenuto impopolare possa bruciare le tappe approdando sulla Gazzetta Ufficiale. Poco importa che la riforma non sia salvaladri ma salvauomini e vada incontro ad esigenze di maggiore tutela della collettività: è una patata bollente da rifilare alla prossima legislatura dopo essersi allacciati alla poltrona con una cintura di sicurezza, con buona pace della Giustizia che è abituata ad attendere.

Pulsante per tornare all'inizio