Petrolio

  • Il petrolio cresce per la paura

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Italia Oggi del 26 aprile 2019 a firma di Mario Lettieri e Paolo Raimondi

    Il recente andamento del prezzo del petrolio riflette qualche cosa di più serio e complesso rispetto al solo comportamento della domanda e dell’offerta. Ora è al livello di circa 70 dollari al barile. Una crescita importante dai 53 dell’inizio dell’anno. Solitamente l’aumento è spiegato con la decisione dei Paesi dell’Opec e della Russia di diminuire la loro produzione. A dicembre avevano annunciato di ridurla di 1,2 milioni di barili al giorno (bpd). A ciò naturalmente si aggiungono gli effetti della crisi politica e sociale del Venezuela, dell’embargo americano verso l’Iran, della preoccupante crescente incertezza sulla situazione libica e del raffreddamento della crescita globale.

    Globalmente, la produzione e il consumo di petrolio oggi si stimano in circa 100 milioni di bpd. Si dimentica, però, di dire che le evoluzioni negative sono ampiamente compensate dall’aumento della produzione di petrolio da parte degli Stati Uniti, che hanno raggiunto i 12 milioni di bpd. Anche le esportazioni americane di petrolio hanno toccato il livello record di 3,6 milioni bpd e ci si aspetta che presto arrivino fino ai 4,6 milioni bpd. Si stima che la produzione giornaliera di petrolio da parte dei paesi non-Opec, con gli Usa in testa, possa presto crescere di circa 2 milioni di barili al giorno.

    Già nel 2018 il prezzo medio del barile di greggio aveva registrato un aumento del 30% rispetto all’anno precedente. Però, l’aumento della media annuale salirebbe al 65% se il paragone lo facessimo con i dati del 2016, quando il prezzo del barile era poco sopra i 40 dollari. Certamente sono lontani anni luce dai 100 dollari del periodo 2011-2013 e dai picchi di 150 dollari nel mezzo dell’euforia speculativa legata alla grande crisi finanziaria. Com’è noto, a ottobre del 2018 si raggiunsero i 73 dollari al barile per poi scendere ai 53 dollari di dicembre. Da gennaio scorso il prezzo è in progressiva salita. Si può dedurre che le varie spiegazioni fornite dagli esperti e dalle stesse compagnie circa le variazioni dei livelli delle produzioni non sono molto convincenti. In particolare, non si giustificano le repentine oscillazioni del prezzo e i loro strettissimi tempi non riflettono gli andamenti della domanda e dell’offerta. Né l’evidente cambiamento del tasso della crescita globale e di quello del commercio internazionale può essere una giustificazione valida.

    A nostro avviso, l’attuale volatilità dei mercati energetici deve essere spiegata anche dalla crescente attenzione posta da settori della finanza sul petrolio e sulle commodity. La storia insegna che, quando altri settori finanziari (quali quelli del corporate bond, dell’immobiliare e dei titoli di stato arrancano, proprio come adesso) le grandi banche e i fondi di investimento più speculativi tendono a cercare altrove possibilità di profitto, anche al prezzo di maggiori rischi. E i prodotti energetici e in generale le commodity possono diventare oggetto di speculazioni.

    Infatti, i recenti venti di guerra in Libia, anche intorno ai maggiori pozzi petroliferi, avrebbero accresciuto l’interesse da parte di taluni speculatori per operazioni finanziarie legate ai future sul prezzo del petrolio.

    Non è un caso che la Banca dei regolamenti internazionali di Basilea abbia rilevato un notevole aumento nelle attività legate ai derivati finanziari otc. Il suo ultimo rapporto trimestrale, pubblicato in aprile, evidenzia che già a metà 2018 il valore nozionale totale degli otc ha raggiunto i 600 mila miliardi di dollari. Anche i derivati sulle commodity hanno registrato un notevole aumento, superando, dopo molti anni, i 2 mila miliardi di dollari, con un aumento del 15% rispetto ai dati rendicontati del semestre precedente. La Bri, perciò, parla «di mercati finanziari particolarmente irrequieti». Bisognerà tenerne conto.

    Non è nostra intenzione immaginare future gravi crisi finanziarie frutto di nuove speculazioni. Sono tante le variabili, economiche e geopolitiche, in gioco. Inoltre, la storia non si ripete mai negli stessi modi. Dato, però, l’aggravamento generale del processo debitorio pubblico e privato, come da noi recentemente evidenziato, auspichiamo che non sia una ripetuta mancanza di controlli e di interventi a mettere il mondo di fronte a nuovi e insostenibili rischi di crisi.

    Soprattutto non vorremmo che, ai tanti danni che di norma le attività petrolifere generano (guerre, colpi di stato, corruzione, danni alla salute e all’ambiente), si aggiungano quelli più diffusi della speculazione finanziaria fatta sui barili di petrolio, che spesso sono solo sulla carta e non realmente pieni del liquido nero.

    *già sottosegretario all’Economia **economista

  • Una giovane madre in difesa della foresta amazzonica

    Si chiana Nemonte, è una giovane madre del popolo Waorani in Ecuador e potrebbe essere il punto di forza per salvare l’Amazzonia dopo che il governo sta per vendere milioni di ettari di foresta incontaminata alle multinazionali del petrolio. Nemonte ha deciso di guidare il suo popolo fuori dalla foresta per difendere la terra dei loro antenati. Come racconta il sito www.avaaz.org, che ha attivato una raccolta fondi per sostenere la sua battaglia e quella del suo popolo di fronte ai tribunali, si troverà faccia a faccia con il governo in una causa legale epocale che potrebbe impedire la vendita della loro terra e creare un precedente per i guardiani della foresta di tutta l’Amazzonia.  La costituzione dell’Ecuador e la normativa internazionale riconoscono alla popolazioni indigene il diritto di esprimere il loro parere informato prima che le terre in cui da secoli abitano possano essere vendute, ma questo diritto è spesso (o quasi sempre) ignorato. La vendita del territorio che Nemonte difende si trova all’interno della Foresta Amazzonica che ospita il 10% delle specie del pianeta e produce il 20% dell’ossigeno che respiriamo, continuare a distruggerla significherebbe arrecare un grave danno all’umanità intera.

  • Il Qatar esce dall’Opec, egemonizzata dai ‘rivali’ dell’Arabia Saudita

    Il Qatar lascia l’Opec, come da annuncio dato a Doha dal ministro del Petrolio dell’emirato, Saad Al-Kaabiva: «Il Qatar ha deciso di ritirarsi come membro dell’Opec a partire dal gennaio 2029». Reso noto di aver informato l’Opec qualche ora prima dell’annuncio al mondo, il ministro ha fatto sapere che il suo Paese continuerà a produrre petrolio ma si concentrerà nella produzione di gas (l’emirato è il primo produttore mondiale di gas naturale liquefatto): «Non abbiamo un grande potenziale petrolifero – ha detto il ministro – siamo molto realisti. Il nostro potenziale è nel gas».

    Il Qatar è membro dell’Opec dal 1961, un anno dopo che l’organizzazione dei Paesi produttori aveva preso vita per iniziativa soprattutto dell’Arabia Saudita (che ancora oggi domina questo cartello composto da 15 Paesi membri), Paese che l’anno scorso ha rotto le relazioni diplomatiche con il Qatar, accusandolo di proteggere persone e organizzazioni ostili a Riad.

  • CNPC replaces Total in South Pars gas project, Iran says

    Total said in August it had told Iranian authorities it would withdraw from the South Pars gas project after it failed to obtain a waiver from US sanctions against Iran.

    China National Petroleum Corporation (CNPC) has reportedly replaced France’s energy giant Total in Iran’s massive South Pars gas project. Total has a 50.1% stake in the gas field, CNPC holds a 30% stake and National Iranian Oil Company subsidiary PetroPars holds the remaining 19.9%.

    “China’s CNPC has officially replaced Total in phase 11 of South Pars but it has not started work practically. Talks need to be held with CNPC … about when it will start operations,” ICANA news agency quoted Iran’s Petroleum Minister Bijan Zangeneh as saying on November 25.

    Total signed a contract to develop phase 11 of the South Pars natural gas field in 2017 with an initial investment of $1 billion. It was the first major Western energy investment in Iran after sanctions were lifted under the 2015 nuclear agreement signed between Tehran and six world countries, including the US.

    The US Administration of President Donald J. Trump has pulled out of the Iran agreement and imposed fresh sanctions but the European Union, China and Russia remain committed to the nuclear deal.

    Despite EU efforts to secure companies’ interests in Iran, Total said in August it had told Iranian authorities it would withdraw from the South Pars gas project after it failed to obtain a waiver from US sanctions against Iran.

  • L’Arabia Saudita chiude i rubinetti di petrolio e i prezzi volano alle stelle

    Dopo una serie di sedute in calo torna a salire il prezzo del petrolio. A pesare la decisione dell’Arabia Saudita di ridurre le vendite e la possibilità discussa dai Paesi Opec/non Opec di procedere a un nuovo taglio alla produzione per sostenere i prezzi dell’oro nero, che nel mese di ottobre ha segnato un calo del 20% circa.

    Secondo quanto deciso dal ministro dell’Energia Khalid al-Falih, l’Arabia Saudita, leader ufficioso dell’Opec,  prevede di ridurre la fornitura di petrolio ai mercati mondiali di 500.000 barili al giorno a partire da dicembre. Il taglio rappresenta una riduzione della fornitura globale di petrolio di circa 0,5 per cento.

    Immediata la reazione del mercato: nella mattinata del 12 novembre i contratti sul greggio Wti con scadenza a dicembre hanno guadagnato 92 centesimi a 61,11 dollari al barile. Il Brent ha guadagnato 1,45 dollari a 71,63 dollari al barile.

    La mossa dell’Arabia Saudita potrebbe essere seguita presto dall’Iraq, secondo più grande produttore di OPEC. Un funzionario del Kuwait, altro paese membro dell’Opec, ha inoltre affermato che i maggiori esportatori di petrolio nel fine settimana hanno “discusso una proposta per una sorta di riduzione della fornitura il prossimo anno”, sebbene il funzionario non abbia fornito alcun dettaglio.

    Intanto, Peter Kiernan, analista presso l’Economist Intelligence Unit di Singapore, ha spiegato che la riunione dello scorso fine settimana si è “focalizzata sulla necessità di mitigare i rischi al ribasso dei prezzi” dopo il calo dello scorso mese causato da un’impennata dell’offerta, in particolare dai primi tre produttori, gli Stati Uniti , Russia e Arabia Saudita.

    Fonte: Wall Street Italia

     

  • Nuovi ostacoli alle esportazioni israeliane di gas naturale

    Due eventi  accaduti nelle ultime settimane minacciano di ridurre significativamente la possibilità, da parte di Israele, di esportare gas naturale. Il primo è la recente vittoria elettorale di Erdogan in Turchia che, grazie all’accrescimento dei suoi poteri, potrebbe decidere di ridurre, se non addirittura eliminare, la possibilità di un gasdotto sottomarino da Israele alla Turchia. Il secondo è il rapporto iniziale sulle nuove riserve di gas al largo della costa egiziana che minacciano l’accordo esistente per esportare gas da Israele verso l’Egitto, così come il piano di Israele di utilizzare le strutture di liquefazione dell’Egitto per esportare gas liquido in Europa. L’economia israeliana non può assorbire un volume di gas abbastanza grande nei prossimi anni per giustificare gli investimenti di capitale necessari per lo sviluppo della base Leviathan. Se l’accordo sull’esportazione di gas con l’Egitto non si concretizzerà, i partner del gas dipenderanno dal piccolo accordo di esportazione con la Giordania, visto come unica ancora di salvataggio. Ciò metterebbe in pericolo lo sviluppo del Leviathan, lasciando Israele senza un backup sufficiente in caso di un’interruzione prolungata dell’approvvigionamento di gas dalla base di Tamar. Perché la situazione creatisi possa risolvere sarebbe opportuno che le compagnie del gas spingessero per la rapida attuazione dell’accordo di esportazione con l’Egitto mentre la carenza di gas egiziano continua. A sua volta, il governo israeliano dovrebbe lavorare alla questione dietro le quinte nella misura necessaria.

  • La rivoluzione energetica e post-liberista degli Stati Uniti

    Anni fa scrissi un intervento nel quale affermavo come il mondo sarebbe cambiato non appena gli Stati Uniti avessero raggiunto l’indipendenza energetica. In quegli anni infatti si cominciavano a vedere i primi effetti della ricerca tecnologica nel campo dello shale-oil. In altre parole immaginavo come gli Stati Uniti avrebbero abbandonato gli scenari internazionali a loro non congeniali e soprattutto non strategici liberi dal ricatto energetico: un diverso approccio già verificabile con la presidenza Obama che ora viene confermato con l’amministrazione Trump.

    Questa rivoluzione ha portato nel 2017/18 gli Stati Uniti a diventare il primo produttore di petrolio al mondo e grazie anche all’alleanza con l’Arabia Saudita vede la possibilità di accrescere all’interno delle politiche energetiche internazionali la posizione e soprattutto la possibilità di incidere sulle quotazioni del greggio da parte della amministrazione americana. Mentre l’Italia assieme all’Unione Europea, in modo “astuto”, ha scelto di allearsi con l’Iran (forse lo stato più antisemita del Medio Oriente) gli Stati Uniti hanno preferito un accordo con il primo paese per quel che riguarda le riserve energetiche (Arabia Saudita), creando un duopolio potenzialmente  invincibile.

    Ma un aspetto ancora più interessante emerge evidente. Mentre tutti i paesi produttori del Medio Oriente mirano ad ottenere il massimo rialzo possibile del prezzo sul mercato internazionale del barile di petrolio, in quanto questo accrescerebbe le proprie entrate, gli Stati Uniti invece assumono un ruolo assolutamente nuovo ed ancora incompreso agli occhi della stessa Unione Europea. Va Infatti ricordato come gli Usa  non solo vendono e  rappresentano il primo paese produttore ma da sempre sono anche il primo consumatore di petrolio al mondo.

    In questo senso quindi l’accordo che gli Stati Uniti hanno raggiunto con l’Arabia Saudita per aumentare la produzione saudita fino a 2 milioni di barili al giorno per ovviare ai problemi legati alla mancata esportazione di petrolio del Venezuela presenta l’evidente intenzione di evitare tensioni sui prezzi. In più a questa si aggiunge una politica di facciata di grande asprezza nei confronti della Russia che invece tenderebbe a raggiungere un accordo anche con Putin dimostrando la doppia valenza della rivoluzione energetica voluta e cercata dagli Stati Uniti stessi.

    L’amministrazione Trump infatti, pur rappresentando il primo produttore al mondo di petrolio attraverso le proprie scelte, non mira ad ottenere la più alta quotazione possibile del barile ma attraverso la ricerca tecnologica si pone l’obiettivo ambizioso di abbassare progressivamente il costo di estrazione di un barile che se per l’Arabia Saudita risulta di un dollaro al barile negli Stati Uniti per lo shale oil è passato da 74 a 52, mentre si stabilizza ora a 40 dollari per arrivare ad un range che viaggi tra i 24/30 dollari a barile.

    In più la doppia rivoluzione si manifesta attraverso la possibilità non solo di togliere il monopolio della produzione di petrolio, e della  politica dei prezzi all’Opec, ma soprattutto attraverso la possibilità di una politica calmieratrice di prezzi che possa assicurare una stabilità e così favorire gli investimenti a medio lungo termine ed evitare qualsiasi shock energetico che dopo quello finanziario crederebbe un’altra tensione turbolenta sui mercati mondiali. In questo senso l’obiettivo di $60 a barile rappresenterebbe il compromesso perfetto per assicurare sviluppo economico  costante all’economia statunitense ed occidentale ed evitare shock energetici.

    In altre parole per la prima volta nell’economia occidentale, definita capitalistica e “iperliberista” dai critici del presidente Trump, un soggetto economico come lo stato americano invece di perseguire il massimo guadagno possibile, nello specifico non opponendosi alla crescita della quotazione del greggio per la piena soddisfazione dei propri produttori, preferisce optare per un valore intermedio che assicuri marginalità alle proprie aziende estrattrici di petrolio shale oil ma non risulti  penalizzante per l’economia americana. A questa rivoluzione di economia politica segue quella dei produttori i quali rinunciano nell’immediato a massimizzare i propri profitti e quindi ad ottenere il massimo del Roe (return of investiment) per appoggiare una politica dell’amministrazione statunitense che mira ad uno sviluppo complessivo del sistema economico americano con un’ottica strategica.

    In altre parole, alla visione speculativa di derivazione finanziaria gli industriali statunitensi dell’estrazione di petrolio appoggiando la politica dell’amministrazione dimostrano il proprio pieno appoggio alla politica di sviluppo a medio e lungo temine rinunciando ora a marginalità sicuramente allettanti. Due aspetti di questa rivoluzione che coinvolgono l’attuale presidente degli Stati UNiti Trump insieme ad una classe imprenditoriale di grande capacità strategica. Del resto già dopo la diminuzione delle aliquote fiscali sui profitti aziendali gli imprenditori statunitensi avevano dimostrato un certo spessore distribuendo anche ai dipendenti, direttamente attraverso bonus (1.780 dollari a dipendente per Wall Mart ed anche di più per  Fca) o attraverso reshoring produttivo, sempre Fca ha riportato la produzione di Pick Up in Usa. In questo modo parte dei benefici, distribuiti anche ai dipendenti delle aziende, è stata ottenuta appunto con la riduzione fiscale.

    Questa rivoluzione energetica (lo shale oil) e strategica (la volontà di calmierare la quotazione del greggio) viene ancora sottostimata e probabilmente non compresa nel resto del mondo. E invece assume il valore e la valenza della caduta del Muro di Berlino in quanto dimostra come una visione complessiva dell’amministrazione statunitense permetta e dimostri il valore strategico che viene attribuito e considerato superiore a quello del massimo guadagno speculativo nell’immediato.

    Siamo davanti alla rivoluzione di un’economia avanzata come quella statunitense  nella quale per la prima volta la visione strategica prevale su quella speculativa. I risultati di questa rivoluzione cominciata con le amministrazioni precedenti trovano la loro massima espressione attraverso l’utilizzo dell’indipendenza energetica non a fini speculativi ma per assicurare un valore compatibile con lo sviluppo economico complessivo.

    Mentre in Italia e in Europa la discussione galleggia tra i modelli di sviluppo caratterizzati dal  minore o maggiore utilizzo dei principi keynesiani uniti ad una maggiore o minore importanza dei contratti a tempo determinato, il resto del  mondo evolve per fortuna riuscendo anche ad indicare delle soluzioni diverse.

    Gli Stati Uniti ancora una volta hanno assunto una nuova centralità per quanto riguarda la politica energetica e attraverso di essa stanno adottando una nuova strategia decisamente rivoluzionaria proponendo un nuovo modello nel ruolo della pubblica amministrazione e nello sviluppo economico a medio e lungo termine.

  • I grandi d’Europa chiedono agli Usa una deroga per commerciare con l’Iran

    «I ministri delle finanze e degli esteri di Germania, Francia e Gran Bretagna hanno inviato una richiesta, sottoscritta anche dall’alto rappresentante Federica Mogherini, alle controparti statunitensi, Steve Mnuchin, segretario al tesoro, e Mike Pompeo, segretario di Stato, nel tentativo di ottenere un’esenzione dalle nuove sanzioni all’Iran reintrodotte unilateralmente dall’amministrazione Trump e che entreranno in vigore il prossimo novembre», scrive Paolo Balmas su Transatlantico, rivista a cura di Andrew Spannaus.

    Ecco, nel dettaglio, il reportage: «La richiesta proveniente dall’Unione Europea riguarda, in particolare, i settori energetico, finanziario e farmaceutico. L’obiettivo è di evitare la rottura dei contratti firmati dalle proprie imprese con l’Iran a partire dal 2016. La richiesta si fonda sulla convinzione che il Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA) è il migliore strumento per assicurare che l’Iran non persegua il suo programma di armamento nucleare. Nella richiesta europea, si legge che in qualità di alleati ci si aspetta che gli Stati Uniti non agiranno in modo da ledere gli interessi strategici europei.

    La richiesta è stata inviata dopo che l’Unione Europea aveva avviato, circa due settimane prima, il “blocking statute”, una procedura che difende i cittadini e le imprese europee che potrebbero essere colpite dalle sanzioni di secondo livello (secondary sanctions), in questo caso imposte dagli Usa contro chi commercia con l’Iran. In tal modo, l’UE sta cercando anche di permettere alla Banca europea d’investimento (Bei) di continuare con le attività in Iran e, in generale, di assicurare i pagamenti per le importazioni di greggio iraniano da parte delle banche europee. Malgrado l’impegno delle istituzioni, le imprese europee hanno già dichiarato di volersi ritirare dall’Iran. Il rischio di subire le sanzioni, di avere accesso limitato al mercato statunitense e, soprattutto, di essere colpite sul fronte finanziario, hanno determinato una lunga serie di decisioni in aperta opposizione con i tentativi dell’amministrazione europea. Ciò dimostra quanto gli Stati Uniti abbiano un potere contrattuale incontrastabile, che oggi agisce principalmente attraverso una leva finanziaria. La stessa Bei non ha preso di buon grado la volontà delle istituzioni europee, secondo quanto riporta Reuters, per il fatto che circa un terzo delle sue attività sono denominate in dollari e aumentare l’esposizione in Iran la metterebbe di fronte a potenziali ritorsioni.

    Fra le grandi imprese che sono pronte a ritirarsi dall’Iran vi sono, fra le altre, la Total, la Maersk, la Shell. Ma lo spettro delle sanzioni danneggia, oltre l’Iran e le imprese straniere che vi stanno investendo ormai da due anni, anche quelle imprese europee coinvolte in progetti con controparti iraniane all’estero. Un esempio è la British Potroleum che ha annunciato di voler bloccare le attività nel Mare del Nord che ha intrapreso insieme alla Iranian Oil Company. Il contrasto che è sorto fra il tentativo dei governi di mantenere in vita il JCPOA e le imprese che non vogliono entrare in conflitto con gli Stati Uniti, non riguarda solo l’UE. Anche l’India e la Russia, che sostengono il patto sul nucleare iraniano, vedono le proprie imprese pronte a stracciare i contratti firmati con Teheran. La russa Lukoil ha già confermato di volersi ritirare da tutte le attività aperte in Iran, mentre l’indiana Reliance Industries, ha deciso di bloccare tutte le importazioni di greggio iraniano. Il vuoto che lasceranno queste imprese, almeno per quanto riguarda la Total e la Shell, sarà colmato dalle imprese di Stato cinesi. Infatti, Pechino non ha alcuna intenzione di rinunciare all’Iran, tanto meno al suo petrolio.

    L’abbandono del JCPOA da parte dell’amministrazione Trump ha avuto due principali ripercussioni. La prima è stata la fuga delle imprese dall’Iran, eccezion fatta per quelle cinesi. Anche le imprese sudcoreane e giapponesi impegnate nella realizzazione di nuovi impianti di raffinazione si sono ritirate, o sono sul punto di farlo. Si tratta forse di uno dei danni più gravi all’economia iraniana, in quanto i progetti seguiti dalla Daelim, dalla Hyundai e dalla Chiyoda Corporation, avrebbero aumentato le capacità di raffinazione del 22% e la produzione di materiali di base per l’industria petrolchimica del 57%. Gli investimenti delle imprese coreane e giapponesi superano in totale i 5 miliardi di dollari. Non è un caso che il governo Abe, fortemente colpito anche dai dazi sull’acciaio, abbia utilizzato per la prima volta parole così dure contro Washington. La seconda ripercussione, invece, consiste nell’aver lasciato il campo libero alle imprese cinesi e nell’aver spinto l’Iran ancora di più nell’orbita della Shanghai Cooperation Organization (SCO), l’organizzazione che unisce fra le altre Russia, Cina e India sul piano dello sviluppo e della sicurezza in Asia.

    Pechino ha sottolineato l’importanza della presenza iraniana nel prossimo summit della SCO, che si terrà fra il 9 e 10 giugno 2018 a Qingdao, in Cina. Il governo cinese ha ricordato che le consultazioni con la controparte iraniana avverranno con l’esplicito intento di mantenere in vita il JCPOA, ma anche di ampliare la cooperazione su un piano bilaterale. L’avvicinamento dell’Iran alla SCO, che dopotutto era già inevitabile, è strettamente legato alle crisi mediorientali, dalla Siria, alla Palestina e allo Yemen, in cui Teheran è direttamente coinvolta, e al rapporto di quest’ultima con Mosca. Il Cremlino si sta impegnando per mediare gli attriti fra Israele e Iran, in relazione alle forze iraniane che operano nei pressi del confine siro-israeliano. L’isolamento di Teheran attraverso le sanzioni non può che avere ripercussioni negative a livello regionale. La risposta iraniana consiste nel riprendere le attività di arricchimento dell’uranio, soluzione che potrebbe innescare confronti ben più preoccupanti.

    La manovra dell’amministrazione Trump è volta certamente a esercitare una pressione estrema per ottenere un maggior controllo e una maggiore presenza in Iran. Se le trattative in stile Trump stanno in parte funzionando con la Cina e la Corea del Nord, non è detto che avranno successo con l’Iran, paese contro il quale i noti storici nemici (Israele e Arabia Saudita) sono disposti a rischiare un conflitto. Un secondo obiettivo di Washington consiste nel rallentare lo sviluppo della produzione e dell’export iraniano di idrocarburi. Le sanzioni segnano la messa fuori gioco di un potenziale avversario nella riorganizzazione del mercato globale del greggio e del gas. Dalla fine del 2015, gli Usa sono divenuti esportatori di greggio, dopo il divieto durato decenni di vendere il proprio petrolio all’estero. Le crisi in Venezuela, in Libia, in Nigeria, e i ritardi in Brasile e in altri paesi, ora in Iran, hanno agevolato la politica commerciale Usa in questo settore, volta inoltre a riequilibrare la propria bilancia commerciale.

    In ogni caso, a perdere insieme all’Iran sarà l’Unione Europea, i cui paesi sono quelli attualmente più coinvolti nel futuro dell’economia iraniana. L’UE ne esce nuovamente indebolita, di fronte alle esigenze delle singole imprese e dei governi che non vogliono rischiare ripercussioni più gravi dagli Stati Uniti. Le recenti vicende politiche di alcuni paesi, come ad esempio l’Italia, in cui sono giunti al governo partiti populisti, si inseriscono in questo delicato contesto internazionale. Il nuovo governo Conte dovrà affrontare il G7 [articolo pubblicato l’8 giugno, n.d.r], che si accavalla nel giorno del 9 giugno al summit SCO, e mantenere una posizione ambigua fra Bruxelles e Washington, in quanto appoggerà la politica dei dazi, ma tenterà di difendere le proprie imprese coinvolte in Iran (l’Italia è il principale partner europeo di Teheran). Inoltre, sosterrà una posizione di apertura alla Russia. Se da un lato Roma potrebbe avere la forza di divenire uno degli strumenti per assicurare il riavvicinamento di Mosca a Bruxelles, sembra lontana l’ipotesi di una posizione di netto contrasto a Washington, o di costruttiva mediazione, sulla questione iraniana. Sotto la minaccia delle secondary sanctions, i paesi europei, che stanno di fatto contribuendo a un processo di pace in Medio Oriente attraverso lo sviluppo di un’economia emergente, quella iraniana, di 80 milioni di persone, rischiano di deragliare insieme al tentativo di regolare le situazioni più delicate della politica internazionale attraverso la diplomazia. Tentativo al quale sono stati dati meno di tre anni di possibilità».

  • Qatar’s economy thriving despite Saudi-led blockade

    Qatar boasted a 2.2 percent increase in GDP last year

    The economy of the oil-rich Gulf nation Qatar continues to flourish despite a Saudi-led blockade against the country, according to Saud Bin Abdullah Al-Attiyah, Executive Director for Economic Policies and Research for the Qatari Ministry of Economy and Commerce.

    “It shocks the whole world that our economy is strong and that we are benefiting from the blockade,” said Al-Attiyah.

    In 2017, Qatar boasted a 2.2 % growth in GDP that included more than $57 billion in exports, and a stock market reached a cap of $130 billion, while national flag carrier Qatar Airways added more than 25 new destinations for 2017-2018, and the number of ships visiting Qatari ports increased as new shipping and trade routes were established.

    Al-Attiyah said there were two or three days of initial shock when the blockade was announced, but that the government was eventually able to cope with the

    “Companies usually go bankrupt in blockaded countries,” said Al-Attiyah. “But Qatar has respected their contracts, has continued to respect free trade, and is confident of our economy.”

    The Qatari diplomatic crisis started when Saudi Arabia, Egypt, Bahrain, and the United Arab Emirates abruptly cut off diplomatic relations and sever transportation links with Doha after Riyadh accused the Qataris of supporting terrorism and for siding with Saudi Arabia’s arch-rival, Iran.

    “Sanctions and embargoes are effective only when the whole world adheres to them,” Ted Bromund, a senior fellow at the conservative US think-tank the Heritage Foundation, said at an iFreeTrade panel in Brussels on Tuesday, “Regional sanctions are bound by their nature to be entirely ineffective,” said Bromund.

    The Heritage Foundation’s index of Economic Freedom ranked Qatar 29th – with a score of 72.6, rating the tiny Gulf peninsular nation as ‘Mostly Free’ – on its list of countries who are judged by their adherence to the rule of law, size of government, and market open freedoms,

    Daniele Capezzone, a member of the Italian Parliament, said he thinks blockades don’t work in the long run.

    “These measures usually strengthen governments instead of weakening them,” said Daniele Capezzone, a member of the Italian Parliament, who echoed the sentiments articulated by Bromund.

  • US Independence

    Da anni ormai, come per il fenomeno fisico della deriva dei continenti, le sponde dell’ Oceano Atlantico  i due sistemi politico /economici europeo e statunitense sembrano allontanarsi, sempre meno sintonizzati ed in linea con obbiettivi e strategie per raggiungerli.

    Trovo incredibile lo stupore unito spesso al disappunto con il quale vengono giornalmente commentate e criticate le scelte strategiche non solo in ambito economico  di Trump, come nell’ultimo episodio dell’annuncio del trasferimento dell’Ambasciata Americana da Tel Aviv a Gerusalemme in quanto  riconosciuta capitale dello Stato di Israele. Un riconoscimento che venne  approvato  dal congresso americano nel 1995 durante l’amministrazione Clinton per altro. La tempistica scelta dall’attuale presidente sicuramente può anche risultare opinabile ma contemporaneamente rende evidente come gli Stati Uniti, e non il solo presidente Trump, si muovano in un modo assolutamente indipendente da accordi internazionali e soprattutto senza preoccuparsi degli effetti che possano verificarsi negli scenari complessi e articolati che caratterizzano la politica estera nei diversi continenti.

    La incapacità di comprendere le nuove dinamiche economiche e politiche degli Stati Uniti emerse evidente già durante la campagna elettorale per le presidenziali statunitensi ed in particolare successivamente all’elezione dell’attuale Presidente Trump. Ad elezione avvenuta infatti venne chiesto al premio Nobel per l’economia Paul Krugman quando e come si sarebbero ripresi i mercati a seguito della possibile elezione di Donald Trump.

    Il premio Nobel rispose “La mia risposta è mai“.

    Successivamente a questa arguta risposta, espressione di approfondite analisi delle dinamiche dell’economia americana del premio “Nobel per l’economia”, si ricorda a puro titolo di cronaca come dall’elezione di Donald Trump Wall Street abbia inanellato una serie senza fine di record fino a sfondare quota 26.000 punti e solo ora per un possibile rialzo dei tassi sembra fermarsi l’ascesa. Una ripresa del mercato finanziario successivo e contemporaneo a quello dell’economia industriale e reale la quale è ulteriormente supportata anche dalla promozione della riforma fiscale statunitense di quest’ultimo periodo che comporta, come elemento caratterizzante, la riduzione della Corporate Tax dall’attuale aliquota del 35% fino al 21%.

    Una riduzione che ha spinto i colossi dell’economia statunitense a varare piani sviluppo dell’occupazione all’interno dei confini Usa, come JP Morgan con un  piano di investimenti da 20 miliardi o Apple con l’assunzione di ventimila nuovi addetti o Wal Mart ed FcA che investono e distribuiscono bonus (e non rimborsi fiscali come il Governo Renzi).

    Questa decisione infatti assolutamente innovativa (per certi versi addirittura rivoluzionaria in relazione alle politiche economiche europee ed italiane degli ultimi vent’anni che si sono basate solo esclusivamente sulla leva monetaria e finanziaria) di ridurre la Corporate Tax nasce dalla ricerca del doppio obiettivo di ridare fiato alla redditività delle imprese e di conseguenza degli investimenti. In più la riduzione della Corporate tax aumenta la redditività delle azioni e di conseguenza il Roe e permette di combattere la delocalizzazione fiscale delle multinazionali americane.

    Questa decisione strategica ed operativa di fatto ha ancora una volta spiazzato anche il mondo politico ed economico europeo. Un mondo, quello europeo, che sta dimostrando una forte contrarietà rispetto a questa politica fiscale statunitense risulta francamente imbarazzante e banale nelle proprie giustificazioni.

    Uno stupore che si unisce poi all’incredulità quando il ceto politico europeo ha manifestato l’ardire di definire tale riduzione delle tasse come un attacco all’economia europea. Un’affermazione talmente improvvida e fuori luogo considerando che buona parte delle sedi fiscali delle multinazionali americane risulta essere  in Irlanda dove le aliquote Corporate si dimostrano molto più basse. In aggiunta si consideri anche la semplice scelta dalla FCA di trasferire la sede fiscale a Londra e quella legale in Olanda.

    Tornando quindi alle ridicole affermazioni dei ministri economici europei logica conseguenza di tale posizione dovrebbe essere quella di investire in una necessaria riforma fiscale per l’intero sistema economico e politico europeo con l’obiettivo specifico e dichiarato di uniformare le aliquote dei singoli paesi. Si é scelta invece la strada della critica  e di accusare gli Stati Uniti i quali operano come un sistema economico legato solo da vincoli commerciali e non politici con l’Europa. Senza dimenticare che se il principio della libera concorrenza viene considerato valido con l’obiettivo di migliorare la produttività dei sistemi industriali nazionali nel contesto di un mondo globale allora questo principio in quanto tale risulta assolutamente applicabile anche alle pubbliche amministrazioni attivandone e promuovendo il miglioramento della produttività in funzione di vari sistemi economici nazionali . Un principio infatti risulta valido indipendentemente dal contesto nel quale venga applicato.

    Molti intendono ed interpretano questo nuovo isolazionismo (quando invece molto spesso si tratta di un iperattivismo politico ed economico decontestualizzato dal momento storico) come risultante solo ed esclusivamente della personalità fuori dagli schemi  anche sotto il profilo mediatico del nuovo presidente Trump.

    Si pensi a quante volte le uscite sicuramente non troppo ponderante del presidente degli Stati Uniti suscitino la ilarità e forti critiche per un banale Tweet.

    Già nel 2013 personalmente scrissi su www.capiredavverolacrisi.com come il futuro prossimo della politica degli Stati Uniti sarebbe stato assolutamente caratterizzato da una ritrovata  libertà da ogni vincolo energetico che ne aveva condizionato le principali dinamiche dal momenti della  perdita dell’indipendenza energetica negli anni 70.

    Già infatti all’inizio di questo decennio risultava evidente la capacità degli Stati Uniti di raggiungere l’indipendenza energetica assoluta entro 2018/20 riuscendo a portare la tecnologia shale oil alla propria  potenzialità ideale.

    A questo si aggiunga che queste nuove capacità estrattive legate ed al tempo stesso espressione della costante e continua innovazione tecnologica nelle tecniche di estrazione dello Shale Oil hanno permesso infatti di abbassare il punto di break even point del petrolio Usa in pochi anni da $78 ai 50 attuali ma con l’obiettivo di raggiungere in un paio d’anni i 34 dollari.  A tal proposito per offrire un termine di paragone si ricorda come il tasso di estrazione del petrolio saudita risulta pari a 1 dollaro.

    Questa nuova tecnologia estrattiva pone gli Stati Uniti come uno dei principali produttori di petrolio al mondo (ovviamente non si tiene in considerazione l’Opec come sintesi di tutti i paesi produttori e Medio Oriente) ed unita ad una scelta di politica economica estera e strategica che li vede alleati con la stessa  Arabia Saudita, che rappresenta la nazione al mondo con le più alte e maggiori riserve petrolifere (18%), rende ancora più indipendente la politica, in particolare estera, americana in quanto libera da ogni vincolo energetico. Agli occhi più attenti infatti già con l’amministrazione Obama si poteva intravedere un inizio di dismissione del ruolo di polizia internazionale che gli Stati Uniti avevano svolto fino ad allora.

    La conferma di questa solida Alleanza con l’Arabia Saudita poi trova una evidente conferma dall’investimento di 9,3 miliardi di dollari da parte della dirigenza Saudita nell’allestimento del più grande impianto di shale Oil del Texas. Se poi si aggiunge la possibilità di utilizzare le nuove petroliere da 2 milioni di barili  il tutto non farà che rafforzare l’alleanza come la posizione di preminenza degli Stati Uniti e la loro forte Indipendenza nelle politiche fiscali commerciali ed estere nei confronti degli alleati stessi.

    La sintesi di questa evoluzione tecnologica e gli accordi internazionali dimostrano essenzialmente come, al di là della personalità del presidente gli Stati Uniti, le politiche e le strategie statunitensi risultino svincolate da ogni possibile ricatto energetico e quindi siano politicamente indipendenti da ogni condizionamento dei paesi arabi produttori petrolio che hanno condizionato tutta le politiche estere Usa e come invece attualmente continuano a condizionare le sole politiche estere europee.

    Queste superficiali  analisi del mondo europeo  che trasudano di  una ingiustificata arroganza legata ad una ipotetica “supremazia intellettuale” nel definire la politica degli Stati Uniti come una perversione del nuovo presidente e che individuano nella personalità di Trump la ragione di queste scelte decisamente atipiche ed al di fuori degli schemi dimostrano in modo  inequivocabile la insufficiente capacità di analisi economica e politica che investe la classe dirigente nella sua completezza Europea .

    Emerge evidente ora come l’indipendenza energetica abbia reso gli Stati Uniti sicuramente la più importante forza economica e politica anche rispetto alla stessa Cina la quale invece dipende ancora oggi dalla produzione di petrolio dei paesi arabi. Ed in questo senso infatti le autorità politiche cinesi stanno cercando di acquisirla attraverso investimenti in Africa al fine di raggiungere una possibile o quantomeno probabile indipendenza energetica contemporaneamente a quelle per l’approvvigionamento delle preziose materie prime utilizzabili per i prodotti High Tech. Questa indipendenza risulta talmente importante e successivamente rafforzata dall’alleanza con la prima  potenza energetica come l’Arabia Saudita la quale rappresenta ancora oggi la prima nazione per quanto riguarda le riserve di petrolio.

    Ridicolizzare ad ogni analisi la politica statunitense appiattendosi sulla personalità del nuovo presidente degli Stati Uniti dimostra essenzialmente di non avere ancora oggi compreso le dinamiche economiche e nel caso specifico soprattutto quelle energetiche che hanno condizionato nel passato la politica estera di tutti i paesi e che vedono ora gli Stati Uniti finalmente indipendenti .

    PS: Dati produzione 2016:

    Usa                         14.827.000 barili /giorno
    Arabia Saudita       12.240.000
    Russia                     11.240.000
    Cina                          4.874.000
    Canada                     4.568.000
    Iraq                           4.448.000
    Iran                           4.138.000
    Emirati Arabi Uniti  3.765.000
    Kuwait                      2.018.000

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