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  • Entro il 2050 a rischio la metà dei terreni coltivati a caffè

    Una delle caratteristiche del caffè è che cresce solo nella cosiddetta fascia tropicale, soggetta a piovosità media e a specifiche temperature. Al variare di queste condizioni la produzione soffre. Con le temperature genericamente più calde, alcune coltivazioni vengono trasferite a quote più alte dove si possono trovare le condizioni originarie. E secondo uno studio condotto nel 2015 dalla Columbia University, entro il 2050 fino al 50% delle terre attualmente coltivabili a caffè non saranno più utilizzabili.

    Oggi oltre l’80% delle emissioni di carbonio nella catena di valore del caffè provengono dall’agricoltura, e non c’è letteralmente più spazio per aumentare i suoli coltivati: già la metà dei terreni abitabili sono utilizzati in agricoltura e non si può disboscare più. Dal canto suo, il caffè è confinato in una piccola area globale: 2 milioni di ettari. Dunque, per Andrea Illy, industriale del caffè, occorre «migliorare le pratiche agronomiche rigenerative» e «aumentare la biodiversità, creando cultivar particolarmente resistenti ai cambiamenti climatici, dalle alluvioni al caldo eccessivo». Da tempo impegnato nel promuovere la sostenibilità, Illy divide la poltrona di presidente della Regenerative Society Foundation con Jeffrey Sachs, e non si stanca di ripetere che «parte della soluzione è l’agricoltura rigenerativa: arricchire il suolo di carbonio organico nutre il microbiota del suolo, migliorando la capacità di fissare i minerali, produrre difese naturali e trattenere l’acqua». Ma questo significa investire nella ricerca, avere un approccio di risk management per mobilitare la finanza internazionale, una collaborazione pubblico-privata e trasparenza nell’utilizzo dei big data per valutare i rischi.

    Senza voler essere allarmisti, oggi uno studio di Edoardo Puglisi dell’Università Cattolica di Piacenza, ha dimostrato che le micro e nanoplastiche che si depositano sui terreni agricoli potrebbero ridurre la fertilità di questi. La loro presenza, infatti, influenza l’azione dei microrganismi che aiutano le piante ad assorbire i nutrienti fondamentali. «Come plastiche abbiamo studiato il polietilene e due bioplastiche, polibutirrato e bioplastiche a base di amido», specifica lo scienziato, sottolineando che si tratti di materiali che erroneamente i consumatori disperdono nell’ambiente ingannati dal fatto che sono compostabili.

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