Pil

  • Jepp, Maserati, innovazione di processo e prodotto

    Non ho mai conosciuto Marchionne, tanto che non so neppure la sua marca di sigarette preferite. Quindi, rispetto a questo proliferare di aneddoti relativi alla vita professionale dell’amministratore di FcA, io non ho nulla da aggiungere se non le mie più sentite condoglianze alla famiglia.

    Tuttavia, dall’esito delle diverse tipologie di innovazione nella gestione di FcA, che di fatto hanno salvato il gruppo che perdeva 5,4 milioni al giorno al momento del suo arrivo, si possono trarre delle interessanti conclusioni.

    Oltre il 70% dei profitti dell’intero gruppo vengono dal marchio Jeep che rappresenta un must del mondo del fuoristrada. Il successo di tale marchio nasce dall’abbassamento della soglia di accesso economico al mondo Jeep (vera icona dai tempi della Seconda guerra mondiale) attraverso l’innovazione di prodotto come di processo che hanno permesso il mantenimento dell’attività produttiva in Italia ed ovviamente mantenuto ed aumentato il livello occupazionale, creando così una gamma di prodotti con un primo modello di Entry Level che ha allargato la base dei consumatori quindi delle vendite e aumentato conseguentemente il fatturato.

    Viceversa, la gestione del mondo Macerati, pur subendo le medesime innovazioni di processo come di prodotto, non ha ottenuto i risultati sperati. Va ricordato innanzitutto comunque come attraverso Maserati il gruppo FcA abbia salvato ed acquisito lo stabilimento della Bertone dando un’occupazione a quasi 900 persone che altrimenti avrebbero ingrossato i numeri della disoccupazione.

    Tuttavia da quasi un anno buona parte dei dipendenti degli stabilimenti Maserati di Torino, e da qualche mese anche a Modena, risultano in cassa integrazione a causa del non raggiungimento dei target di vendita fissati da FcA per le diverse autovetture, nonostante la nascita del SUV del marchio del Tridente.

    La considerazione che emerge in maniera abbastanza evidente è come l’innovazione di processo risulti sicuramente importante ma non risolutiva se non viene accoppiata ad una altrettanto forte innovazione di prodotto che incontri i favori della clientela. Un concetto talmente generale ma valido per ogni settore  quindi applicabile sia mercato delle automobili come dei maglioni od degli occhiali.

    Risulta quasi superfluo ricordare come negli ultimi anni tutto il mondo degli economisti e dei politici abbia investito tutta la propria attenzione sull’innovazione di processo come se questa rappresentasse la soluzione di ogni problema (industria 4.0). Il processo e la sua innovazione rappresentano la disposizione e la capacità attraverso le quali si propone un’azienda rispetto al mercato globale al cui interno non esistono più le stagionalità ma si vende e si produce dodici mesi all’anno. In altre parole, innovazione di processo pone le basi fondamentali per passare successivamente all’innovazione di prodotto. Come dimostrano le PMI italiane che non sono state in grado finanziariamente di innovare nei processi ma sono molto forti nella innovazione di prodotto e stanno ottenendo degli ottimi risultati soprattutto nell’export, anche se in flessione nel primo semestre 2018.

    Il mondo alle PMI dimostra come una forte innovazione di prodotto, con grande difficoltà a causa delle tempistiche sempre più strette tra produzione e distribuzione, riesca tuttavia a sopperire anche alla mancanza di una forte innovazione di processo. Viceversa l’innovazione di processo non seguita da un’adeguata rielaborazione e connessione del prodotto alle reali aspettative del mercato, quindi del consumatore, non ottiene alcun risultato economicamente positivo, dimostrando ancora una volta come le strategie economiche degli ultimi anni proposte nel mondo economico nazionale si siano rivelate assolutamente parziali e prive di visione complessiva dei mercato globale. Queste strategie risultano intrise da una idea di massificazione di prodotto tipica della ideologia economica tanto cara al mondo degli economisti e docenti.

    Rinnovo le mie condoglianze alla Famiglia Marchionne.

  • Il tempo delle favole è terminato

    Sembra incredibile come gli argomenti relativi alle polemiche politiche non prendano in alcuna considerazione la terza riduzione di previsioni di crescita del 2018 per l’Italia. Mentre gli Stati Uniti segnano per l’ultimo trimestre una crescita del +4,1% e l’Unione europea del +2,3%, in Italia la previsione di crescita si ferma a un +1,1% (il terzo ribasso in tre settimane dal +1,4 del governo Gentiloni, Padoan  e Calenda)

    Ed ancora oggi si continuano a considerare economicamente valide e vantaggiose le politiche economiche proposte dai governi Renzi e Gentiloni, come ora quelle proposte dal governo Di Maio-Salvini.

    Politiche economiche espressioni, come sempre, di interventi straordinari e mai di strategie economiche di crescita e comunque ispirate da professionalità economiche ormai superate come Padoan o Calenda ed ora dai sovranisti che puntano tutto sulla svalutazione come fattore competitivo per favorire le  esportazioni.

    Quanto invece la semplice politica statunitense (“semplice” per modo di dire) ha visto l’abbassamento della Corporate tax (la tassazione sugli utili di impresa) che ha portato ad una riallocazione delle produzione all’interno del perimetro statunitense e di conseguenza a nuovi posti di lavoro, e questo inevitabilmente ha  aumentato la domanda interna, come la crescita del 4,1% conferma. In questo senso basti ricordare la riallocazione produttiva dei Pick Up Dodge voluta dal compianto Sergio Marchionne che cosi creò migliaia di posti di lavoro negli Stati Uniti.

    In altre parole, la riduzione della tassazione ha di nuovo reso competitiva la produzione all’interno degli Stati Uniti anche in rapporto ai servizi della pubblica amministrazione rispetto e paesi a basso costo di manodopera. Viceversa in Italia si è voluto finanziare l’industria 4.0, di fatto escludendo, con questo tipo di innovazione tecnologica, tutte le PMI per evidente difficoltà di reperimento delle risorse finanziarie che a tutt’oggi non ha portato nessun beneficio né per quanto riguarda le esportazioni (in forte frenata nel primo semestre 2018) che per quanto riguarda la maggior competitività e il sistema industriale stesso. Le esportazioni continuano a crescere ad un tasso dallo 0 ,4% annuale ma il PIL cresce del 1,1%, due decimali inferiori all’aumento dell’inflazione.

    Contemporaneamente, e sostanzialmente, la ricetta proposta dei luminari economisti delle migliori università italiane era allora, e rimane anche adesso, quella di dover aumentare la produttività per far fronte alla competizione di paesi a basso costo di manodopera, espressioni di dumping fiscale normativo e sanitario.

    L’ennesimo calo del PIL, ora a quota 1,1% rispetto alle previsioni di 1,4%, dimostra sostanzialmente come tale la semplicistica visione naufraghi clamorosamente nel mare del mercato globale.

    A questo va aggiunto, perché sarebbe ora e tempo di cominciare a fare chiarezza sulle prospettive delle scelte operate, che si è puntato molto sul turismo che rappresenta una risorsa economica di basso livello a bassa concentrazione di manodopera e fortemente dequalificata professionalmente che quindi incide molto poco nella creazione di valore aggiunto rispetto ad un sistema industriale.

    Tornando quindi al chiaro esempio della crescita statunitense va ricordato che buona parte infatti della crescita del PIL risulta legata ad un aumento della domanda interna, frutto di una sensazione di positività da parte di consumatori in relazione alla propria posizione professionale soprattutto in prospettiva e ad una maggiore disponibilità economica…

    Da noi invece si parla di Gig Economy, sharing Economy e app Economy espressione di una mediocrità intellettuale applicata all’economia che ci destina ad un declino inesorabile…

  • “Pensioni: chi paga cosa”, la commedia goldoniana

    I numeri impietosi relativi agli investimenti culturali, quindi alle quote di Pil destinate all’istruzione ed alla formazione, vedono l’Italia ben al di sotto della media europea con uno scarso 4% di PIL destinato al settore culturale. Si pensi che la Germania destina  il doppio mentre  l’Unione Europea mediamente il 4,9%, preceduti anche dalla Danimarca al 7% e dal Belgio, con il 6,4% del proprio Pil.

    Ovviamente questi numeri italiani miserabili non possono essere attribuibili all’attuale governo ma alla classe politica nella sua interezza che ha gestito l’istruzione negli ultimi trent’anni. Paradossale poi come gli effetti di questa mancanza di investimenti culturali per il nostro Paese non risultino nemmeno così evidenti in quanto l’abbassamento del livello culturale coinvolge inevitabilmente anche gli osservatori “culturali”.

    Rimane Tuttavia lo sconcerto per tali numeri e per un Paese non più espressione dell’eccellenza della cultura occidentale ma semplicemente luogo di custodia dei reperti storici che tutto il mondo ci invidia e che rappresentano un fattore distonico con l’attuale livello culturale generale italiano.  Un Paese, il nostro, neppure in grado di indignarsi di fronte ad un ministro che per tutta la propria carriera politica ha affermato di possedere una laurea ed una volta sbugiardata ha mantenuto il privilegio di gestire il ministero, ovviamente dell’Istruzione.

    Questo decadimento culturale, di cui il declino economico ne risulta soltanto una delle più manifeste e tangibili forme, coinvolge anche il mondo dell’università in modo imbarazzante.  L’esempio più classico si manifesta attraverso  un teatrino goldoniano relativo alla polemica sulle pensioni il cui titolo dell’opera potrebbe recitare “Pensioni: chi paga cosa”, in relazione cioè al peso  della popolazione extracomunitaria nel pagamento delle pensioni italiane.

    Il presidente dell’INPS, esimio economista della Bocconi afferma che “gli immigrati pagano le pensioni agli italiani”. Considerati i trend di crescita della popolazione extracomunitaria in un Paese culturalmente evoluto, da un docente della Bocconi si pretenderebbe quanto meno l’utilizzo del verbo declinato al futuro, cioè “pagheranno” le pensioni probabilmente nel 2035/2040.

    Attualmente infatti circa l’8,8% del PIL risultata attribuibile alla popolazione extracomunitaria per un valore di circa 127 miliardi. Se poi si avesse l’ardire di incrociare questi dati con il numero di occupati extracomunitari emergerebbe che rappresentano l’11% della forza lavoro. Una classica relazione causa effetto imporrebbe la semplice considerazione relativa al livello retributivo risultante di livello decisamente medio basso anche dei contributi. Nonostante ciò, vengono versati sempre da quell’11% degli occupati contributi previdenziali per 11 miliardi su un totale di 219 relativi alla spesa previdenziale, mentre la spesa complessiva dell’INPS risulta di 411 miliardi.

    Quindi, a fronte di 18 milioni di pensioni erogate dall’Inps in relazione alla quota PIL attribuibile al pagamento delle stesse, attraverso i contributi delle popolazioni extracomunitarie risultano “pagate” di queste circa 650.000: poco più del 3.6% del totale.

    Un numero certamente notevole in quanto cresciuto in un modo molto veloce (altro fattore quello della velocità della crescita che non viene mai preso in considerazione in relazione all’aumento della popolazione extracomunitaria) ma che rappresenta comunque una quota minima relativa alla spesa generale come al numero di pensioni erogate. Risulta evidente quindi che la posizione dell’attuale presidente dell’Inps sia rigorosamente ideologica. Senza nulla togliere all’importanza del contributo della cittadinanza extracomunitaria, tuttavia in considerazione dei numeri presentati al momento attuale, sembra incredibile il mancato utilizzo del verbo “pagheranno” in relazione alla crescita futura e quindi ragionando in prospettiva assolutamente preferibile al termine “pagano” usato dal presidente dell’INPS come gli stessi numeri smentiscono chiaramente.

    Utilizzando il verbo “pagare” all’indicativo presente emerge evidente la posizione ideologica del presidente Boeri (per altro assolutamente legittima) ma conseguentemente priva di ogni supporto tecnico e numerico, e quindi economico.

    Anche una delle massime espressioni della cultura universitaria dimostra in modo inequivocabile come alla competenza sia subentrata l’ideologia, altra espressione del declino culturale. Da un presidente dell’INPS, come da un docente di economia della Bocconi, ci si sarebbe aspettati o meglio si dovrebbe pretendere  un’analisi molto più approfondita, che coinvolga anche quel fenomeno di emigrazione di diplomati e laureati italiani all’estero che arreca danni allo Stato per 23 miliardi di risorse investite (92.000 per un diploma e 30.000 per ogni anno universitario di risorse pubbliche) e 11 miliardi di perdita di Pil.

    Invece di confrontarsi sui numeri ma soprattutto sulle prospettive ed sugli andamenti demografici ed economici, tenendo sempre nella massima considerazione la velocità di sviluppo di tali fattori, soprattutto della popolazione e della sua importanza anche a livello contributivo, ci si confronta su posizioni ideologiche che tolgono qualsiasi tipo di spessore culturale a chi le manifesta.

    A fronte di investimenti culturali sotto la media europea sono inevitabili questi risultati ampiamente al di sotto della decenza culturale.

  • Pil warning

    Per le aziende quotate che risultano soggette ad una disciplina molto rigida in relazione alle comunicazioni ai propri soci spesso si assiste alla dichiarazione di “profit warning” nel caso in cui il management aziendale  intenda avvertire i proprio azionisti che per l’anno in corso gli utili risulteranno in discesa se non azzerati.

    Immancabilmente, invece, in Italia, come ogni anno da parte di istituti quali Istat e Centro Studi Confindustria, tra giugno e settembre vengono rivisti i dati della crescita economica rispetto a quelli inseriti nella legge finanziaria varata l’anno precedente dal governo. Parlando quindi dello Stato italiano, composto non da azionisti ma da cittadini, la riduzione della crescita si manifesta, di conseguenza, non con una diminuzione del “dividendo azionario” ma attraverso un progressivo aumento inevitabile della pressione fiscale o una riduzione della spesa corrente al fine di mantenere l’equilibrio finanziario. Quindi, come ogni anno da oltre un ventennio, si assiste al “Pil warning”.

    Nel primo caso, cioè per le aziende quotate, l’effetto del warning risulta quello di una riduzione della redditività delle quote azionarie. Nel secondo, e ci riferiamo allo Stato italiano, viceversa l’effetto si manifesta attraverso la necessità di una manovra finanziaria aggiuntiva per mantenere l’equilibrio economico-finanziario garantito da entrate fiscali che invece, proprio a causa del PIL Warning, risulteranno sicuramente inferiori progressivamente alla minore crescita. Senza tale manovra aggiuntiva salterebbero le coperture finanziarie per i capitolati di spesa del bilancio dell’anno in corso.

    Mentre nel primo caso il Warning si traduce in una riduzione dei margini azionari, e quindi della disponibilità economica, nel secondo si traduce in un aumento ulteriore della pressione fiscale o una malaugurata riduzione della spesa pubblica che negli ultimi anni quasi sempre si è trasformata in una riduzione dei trasferimenti agli enti locali. Quest’ultimi poi la trasformano in una riduzione dei servizi sanitari e di altro genere alla cittadinanza.

    La Frenata del PIL stimato ora al +1,3%, unito al forte calo dell’export oltre Ue ( -2,7%), inevitabilmente si trasformeranno in una manovra correttiva. Quindi, come ampiamente anticipato, tutti i dati entusiastici raccontati e favoleggiati dagli ultimi due ex governi Renzi e Gentiloni e dalle rispettive maggioranze si sciolgono in soli tre mesi come neve al sole. Si renderà necessaria inevitabilmente una ulteriore manovra correttiva legata alla decrescita del PIL al di sotto delle previsioni governative (di circa 9 miliardi), in aggiunta a quella già conclamata e scaturita

    dall’aumento dei tassi di interessi e di conseguenza dei costi al servizio del debito pubblico (altri 5/9 miliardi). Ovviamente a questi andranno aggiunti anche i 14 miliardi necessari per bloccare l’effetto delle clausole di garanzia relative all’aumento dell’Iva. Ancora una volta tutti i centri studi, in particolare di Confindustria, durante l’emanazione e la elaborazione della legge finanziaria o Def  per l’anno 2018 hanno fornito un supporto poco professionale alla politica governativa, specialmente in relazione alle prospettive di crescita del PIL. Poi, come sempre, da anni tali elaborazioni vengono successivamente smentite tra giugno e settembre.

    La compagine politica di maggioranza e di governo di cui questa risulta l’espressione possono avere il desiderio di offrire scenari economici di sviluppo positivi quando si trovano al governo e questo si può anche comprendere. In questo senso basti ricordare un ex ministro dell’Economia che affermò che in 4 anni avrebbe portato la quota export sul PIL dall’attuale 28,7% ad oltre il 50%. Un’affermazione priva di qualsiasi supporto ma soprattutto competenza economica e di conoscenza del mercato.

    A riprova si ricorda che della primavera del 2015, in cui la quota Export era il 28,5% sul PIL (periodo di uscita di questa entusiastica intervista al Corriere della Sera), nonostante il clima sempre più concorrenziale e competitivo le aziende italiane sono riuscite ad aumentare complessivamente la quota Export su PIL all’attuale 29,7, quindi con una crescita importante di oltre lo 0,4 % l’anno. Un risultato determinato solo ed esclusivamente dalle capacità delle imprese italiane di presidiare i mercati esteri e non certo dalla capacità o dal supporto del governo per il quale, dopo aver stanziato 34 milioni per la lotta all’italian sounding, di questa priorità non resta alcuna traccia.

    Non può essere comprensibile e tanto meno giustificabile da parte di certi studi non mantenere delle posizioni terze per evitare le continue smentite a sei mesi dalle proprie previsioni economiche.

    Tutto questo poi in un contesto nel quale i titolari dei dicasteri economici affermavano che la ripresa economica sarebbe avvenuta attraverso la forte esplosione dell’export, il cui calo del 2,7% (maggio 2018/2017 extra Ue) dimostra ancora una volta la loro assoluta “eccentricità” nelle previsioni economiche. Una responsabilità che ovviamente cadrà sul governo in carica il quale invece di affrontare queste problematiche terribili favoleggia di flat Tax, reddito cittadinanza e amenità varie invece di affrontare la terribile eredità lasciata dai governi Renzi e Gentiloni.

    Ovviamente, tornando al parallelo tra azienda e Stato italiano, a fronte di un profit warning molto spesso gli azionisti rispondono attraverso il ritiro della delega e della fiducia al management e, in taluni casi, chiedendone anche la messa sotto accusa. Viceversa, nella gestione della complessa economia italiana la responsabilità rimane un parametro sconosciuto all’intera classe politica, in particolar modo se “tecnica”.

    La decadenza economica del nostro Paese, ieri come oggi, nasce da una classe politica e dirigente che si dimostra sorda e cieca rispetto all’impatto dei fattori economici da loro determinati.

  • Modelli economici in scala 1:10

    Nella diatriba politico economica in cui i sostenitori dell’attuale asset istituzionale ed economico all’interno dell’Unione Europea sono contrapposti alla compagine politica che vede nell’uscita dall’euro, e magari della stessa Unione, la soluzione ai problemi di sviluppo economico  entrambi gli schieramenti portano, a supporto delle proprie tesi, alcuni esempi di Nazioni (quindi di un sistema complesso di economia, istituzioni e popolazione) che confermerebbero le proprie posizioni, soprattutto in ambito economico.

    Il Portogallo rappresenta l’esempio adoperato da chi considera la possibilità di invertire il trend negativo avviato dal 2011 in poi per il nostro Paese ricorrendo soprattutto alla rimodulazione della spesa pubblica.

    Da più parti infatti si legge come il Portogallo, per uscire dalla crisi, abbia utilizzato concetti come “i progressi sono stati frutto anche dei provvedimenti presi dai governi precedenti che oltre ad iniziare l’austerity hanno reso più flessibile il mercato del lavoro (contratti a termine, orari elastici, malleabilità salariale, licenziamenti)” uniti a “un forte aumento dell’export, senza bisogno di agire sul cambio e con robuste iniezioni di liberalizzazioni e deregolamentazione del mercato di energia, telecomunicazioni, trasporti, poste e professioni, avendo altresì perfezionato la normativa antitrust”.

    Certamente il Portogallo ha saputo sfruttare al meglio i finanziamenti europei per migliorare l’offerta formativa (mentre in Italia si varava la buona scuola) e questo ha permesso alla nazione lusitana di aumentare il livello culturale generale.

    Tornando però alla ricetta economica c’è da chiedersi se questa analisi comparativa tra l’economia portoghese e quella italiana possa definirsi corretta.

    Innanzitutto andrebbe fornito  il giusto peso al fattore demografico: durante il periodo della crisi circa 500.000 portoghesi hanno lasciato il proprio paese in cerca di migliori opportunità professionali all’estero.  Considerando che la popolazione del paese risulta di poco superiore ai 10 milioni in pochi anni è mancato il 5% della popolazione (come se in Italia emigrassero in pochi anni tre milioni di cittadini). Questa emigrazione economica di persone che già erano ai margini del ciclo economico (quindi pesavano sulla spesa pubblica attraverso prestazioni e servizi sociali)  ha portato ad  una inevitabile  riduzione sostanziale della spesa pubblica, frutto quindi della minore utenza e non di scelte politiche (confermata dalla sostanziale tenuta della pressione fiscale).

    In altre parole, nessuna delle cosiddette liberalizzazioni o aperture al mercato ha avuto la capacità di incidere sul volume della spesa pubblica quanto l’emigrazione del 5% della popolazione portoghese. Una emigrazione che aveva prodotto nel 2016 un calo dei consumi del -8,2% e che successivamente ha virato in positivo al +2.2%, soprattutto grazie alla ripresa del turismo (quindi sempre un fattore esogeno al sistema portoghese) e che già nelle previsioni dei prossimi anni prevede un ulteriore rallentamento della crescita.

    La parte avversa invece ha sposato come modello economico di sviluppo l’Ungheria. Una nazione che ha il terzultimo stipendio medio europeo (648 euro davanti solo a Romania e Bulgaria), poco più di 1/3 di quello italiano che è di 1.560 euro. Può sembrare veramente paradossale che una parte politica di una nazione prenda a modello una economia con un valore di Pil  15 volte inferiore alla propria.

    Quindi  quello che unisce le due diverse analisi, che giungono a soluzioni ovviamente opposte, è la scelta dei modelli di riferimento assolutamente non compatibili in scala 1:10.

    Il Portogallo  ha una popolazione di poco superiore ai dieci milioni di abitanti, esattamente quanto la Lombardia. Quindi ogni scelta di politica economica del governo portoghese può eventualmente proporsi con una valenza regionale in quanto i sessanta milioni di cittadini italiani definiscono una società decisamente più articolata e complessa e che quindi necessita di politiche economiche e fiscali più articolate.

    La stessa Ungheria presenta una popolazione di poco inferiore ai dieci milioni (9 milioni ed 800.000, quindi vicina ai circa 9 milioni e 900.000 del Veneto), quindi anche in questo caso la complessità italiana rende l’esempio scelto assolutamente non compatibile.

    Se poi si inserisse il parametro del Pil in entrambi i modelli scelti a sostegno delle opposte tesi economiche il quadro diventerebbe addirittura ridicolo.

    Il PIl del Portogallo risulta di 204 mld (in crescita del 2,7 nel 2017) mentre quello dell’Ungheria risulta di circa 112 Mld di euro, con un tasso di crescita superiore alla media europea (4% rispetto al 2% della media europea ed all’1.4% italiano). Il primo risulta otto volte inferiore a quello italiano mentre quello ungherese risulta 1/15 di quello italiano. All’interno di una analisi comparata dovrebbero caso mai essere queste due nazioni a scegliere noi come modello economico da seguire o eventualmente da evitare.

    Emerge evidente come la scelta dei modelli politici ed economici dei due diversi schieramenti risulti arbitraria (cioè non basata su modelli omologhi e compatibili anche utilizzando il solo parametro di grandezza) e motivata da argomentazioni ideologiche e non certo economiche.

    In fondo queste scelte dimostrano la imbarazzante mancanza di conoscenza dei parametri di base per analisi comparate espresse da entrambi gli schieramenti i quali, con le loro scelte, sposano (in modo assolutamente inconsapevole considerato lo spessore nella analisi comparate) la tesi dell’On. Andreotti.

    Questi, soprattutto attraverso la propria politica estera, mirava a far diventare il nostro Paese come il primo dell’area mediterranea invece di guardare ai modelli europei o di oltre oceano. Per lo meno la politica e la strategia dell’ex leader della prima Repubblica risultavano una scelta consapevole.

    Viceversa il medesimo obiettivo viene inconsapevolmente  (per deficit culturale) perseguito da entrambi gli schieramenti politici che convinti di proporre con la scelta dei propri modelli economici di riferimento  indirizzano il nostro Paese verso un declino economico nell’immediato ma sono espressione di un articolato declino culturale cominciato e coltivato da oltre trent’anni.

  • I tre campanelli e la sirena di allarme

    Sembra incredibile come all’interno di  uno scenario politico italiano caratterizzato, anche dopo le elezioni, da un continuo susseguirsi di insulti ed incertezze relative alle politiche di sviluppo e fiscali, come da mancanze di visioni complessive sia da parte della maggioranza che della opposizione, i campanelli le e sirene d’allarme passino giornalmente praticamente inosservati.

    I primi due dei tre campanelli riguardano due dati relativi alla produzione industriale. Nel primo trimestre del 2018, solo grazie al balzo del mese di marzo, la produzione industriale ha registrato una crescita del +0,0%! Una tendenza preoccupante confermata poi dal dato di aprile che registra invece un – 0,1%, sempre della medesima produzione industriale nazionale.

    Nell’assordante coro delle mille voci politiche questi due dati sarebbero dovuti diventare centrali nel dibattito ed avrebbero dovuto stimolare un confronto tra le diverse tesi per invertire questo trend molto pericoloso. Questi andamenti infatti risultano particolarmente gravi soprattutto se confrontati con quelli della vicina Spagna la quale nel mese di aprile segna un +1,9% di aumento della produzione industriale, il che dimostra e conferma il sorpasso avvenuto circa un mese fa per quanto riguarda il PIL nazionale spagnolo rispetto al nostro come per il reddito pro capite. Viceversa le due compagini politiche continuano a vomitarsi insulti dimostrando un livello di educazione assolutamente incompatibile con gli incarichi istituzionali che queste persone rivestono.

    Si aggiunge poi un terzo e veramente preoccupante indicatore (il terzo campanello) economico che dimostra come tutte le tesi relative alla crescita economica stabilizzata proposte dagli ultimi governi, da Monti in poi, risultino assolutamente prive di ogni fondamento economico se non addirittura menzognere. Nel mese di aprile infatti i consumi risultano in discesa del – 4,6%, una diminuzione che non si registrava da cinque anni. Questo dato dimostra il sentiment, cioè la disponibilità dei consumatori ad assumersi impegni finanziari per acquisire beni di consumo attraverso il credito e parallelamente la mancanza di una speranza di miglioramento della propria situazione economica che determina una conseguente diminuzione dei consumi stessi. Se poi questi dati relativi al calo dei consumi venissero confrontati con le trionfalistiche dichiarazioni del sistema bancario che invece afferma di assistere ad aumento del credito (+7,8%) al consumo è evidente come questo incremento (sempre in relazione al calo  dei consumi del – 4,6%) venga utilizzato  semplicemente per “finanziare” il pagamento di  tasse e bollette.

    Questi tre campanelli da soli dovrebbero imporre un comportamento ed un atteggiamento da parte della compagine governativa come dell’opposizione assolutamente più maturi e responsabili che invece non si registra dall’inizio della campagna elettorale. Inoltre questi indicatori nazionali, uniti all’inconsistenza delle ultime politiche economiche dal 2011 ad oggi, come alla assoluta mancanza di visione strategica dell’attuale compagine governativa, hanno portato il tasso dei nostri titoli di debito pubblico ad essere superiori a quelli della Grecia. In altre parole da venerdì 8 giugno 2018 l’Italia viene considerata più a rischio della Grecia e questo risultato non può venire attribuito semplicemente alla finanza speculativa ma è frutto di una responsabilità diffusa (ed ecco la sirena di allarme).

    In altre parole, mentre si ragiona di sovranismo o, peggio, di ritorno alla lira, unito a concetti infantili (e privi di ogni connotazione economica) come “padroni a casa nostra”, chi  dovrebbe finanziare  il nostro debito ci considera più inaffidabili della stessa Grecia. Ovviamente questo risultato non può essere imputabile solo ed esclusivamente all’incompetenza come all’inconsistenza dell’attuale governo sotto il profilo economico ma all’intera compagine politica che negli ultimi vent’anni ha distrutto la politica economica e strategica del nostro Paese, a cominciare dal settore industriale. Quello che risulta incredibile di questi dati è il confronto, per esempio, con l’economia spagnola a noi una volta molto simile come modello economico e di sviluppo. Invece di avviare un serio confronto economico e politico, tutto  passa sotto silenzio, probabilmente anche a causa dell’incapacità di leggere da parte degli attuali responsabili economici del governo come dell’opposizione le dinamiche come le conseguenze che risultano essere espressione di questi dati.

    Non va dimenticato infatti come la Spagna, che contava una disoccupazione al 21% dopo la crisi del 2008/2009, sia riuscita, attingendo alle finanze pubbliche, a invertire questo trend e a stabilizzare la propria crescita al doppio di quella italiana già da tre anni a questa parte. Questo è successo semplicemente perché il rapporto tra debito e PIL risultava, precedentemente alla crisi finanziaria del 2008/2009, al 50% mentre ora si attesta al 90%.

    Grazie quindi alla correttezza dei conti pubblici attribuibile all’ottima gestione governativa degli ultimi vent’anni il governo in carica (che ha lasciato il passo a una nuova compagine governativa la settimana scorsa) hapotuto attingere a risorse finanziarie grazie ad un equilibrio finanziario complessivo nazionale. Viceversa noi abbiamo utilizzato negli ultimi vent’anni la leva della spesa pubblica per finanziare fattori improduttivi, dimostrando ancora una volta come i conti pubblici in regola rappresentino una garanzia per affrontare momenti di difficoltà legati a crisi economiche, magari internazionali.

    Sempre incredibile, come in Italia si continui a parlare di flat tax come di una strategia innovativa con il fine di ricreare una domanda interna, o, peggio ancora, si continui a discutere inutilmente di una possibile uscita dall’euro per riportare l’Italia agli anni Ottanta, un periodo ormai inavvicinabile in quanto il mercato di allora è cambiato radicalmente. Credere di tornare agli anni ’80 solo adottando la valuta di allora rappresenta l’infantilità come l’inconsistenza economica di questa teoria.

    Il silenzio con il quale sono ignorati e probabilmente anche incompresi nella loro gravità questi tre campanelli d’allarme italiani assieme alla sirena relativa al declassamento dei nostri titoli del debito pubblico rispetto alla Grecia rivela il livello culturale come del  senso dello Stato tanto della maggioranza quanto dell’opposizione.

  • La contraffazione ci costa 100 miliardi l’anno

    Se ne parla troppo poco negli ultimi anni, ma l’impatto della contraffazione e della pirateria sull’economia e sulla creazione di occupazione in Italia e nell’intera Unione europea rimane fortissimo. Una nuova ricerca ha rilevato che ogni anno si perdono 8,6 miliardi in Italia a causa della contraffazione e il conto sale a 60 miliardi di euro se si guarda all’intera Europa. Se si contano le mancate vendite, il danno arriva a sfiorare i 100 miliardi di euro l’anno.

    La crisi e gli acquisti su Internet hanno moltiplicato le vendite di prodotti contraffatti, che in Europa valgono il 5% del valore delle importazioni. Il dato emerge da un’indagine appena pubblicata dalla Euipo, l’agenzia dell’Unione Europea per la proprietà intellettuale. Ad essere maggiormente danneggiate sono, ovviamente, le imprese più innovative e più produttive. In Italia i settori più colpiti sono abbigliamento, farmaci, tecnologia, cosmetici e pelletteria.

    Il danno del mancato guadagno si riflette anche sui posti di lavoro persi: in Europa si calcola siano almeno 434.701, mentre in Italia ammontano a 52.705, una quota importante. Rispetto alla media europea, il nostro Paese infatti soffre più di altri per i danni alla proprietà intellettuale: la Euipo calcola infatti che si perdano ogni anno 116 euro per abitante Ue, ma in Italia la perdita sale a 142 euro.

    Oltre al danno economico resta il pericolo dei possibili danni alla salute: “Visto che in testa ai prodotti contraffatti ci sono farmaci e cosmetici e, per la Ue ma non per l’Italia, anche vini e alcolici – osserva Andrea Di Carlo, vicedirettore dell’Osservatorio europeo sulle violazioni dei diritti di proprietà intellettuale – i rischi per la salute e la sicurezza sono molto alti”.

    La contraffazione colpisce le aziende che si distinguono per l’innovazione: si tratta delle imprese che registrano più brevetti, e che da sole rappresentano il 42% del Pil Ue, 5700 miliardi di euro, e che impiegano il 28% dell’occupazione globale (con una ricaduta del 10% in via indiretta su settori che non sono ad alta intensità sotto il profilo dei diritti di proprietà intellettuale). Queste industrie generano inoltre un avanzo commerciale di circa 96 miliardi di euro con il resto del mondo, e versano ai propri lavoratori salari più alti del 46% rispetto alla media. Ecco perché la contraffazione colpisce doppiamente l’economia europea.

    Questo reato molto grave però, spesso non viene colpito o penalizzato in modo esaustivo: le sanzioni non sono particolarmente pesanti, né in Italia né in generale nella Ue. “Il codice penale viene applicato solo se entra in ballo la criminalità organizzata – dice Di Carlo – oppure se i danni sono ingenti. Altrimenti, solo sanzioni lievi. Giusto la Svezia le ha inasprite un anno fa, ancora è presto per valutare gli effetti di questa decisione”.

    L’Euipo conduce quest’indagine solo da alcuni anni, ma confrontando i dati attuali con quelli dell’Ocse emerge come la contraffazione sia in forte crescita. Questo avviene sostanzialmente per due ragioni. La prima è sicuramente la crisi, che ha spinto i consumatori ad acquistare prodotti con i prezzi più bassi senza interessarsi particolarmente sull’origine di questi prodotti. La seconda è la diffusione delle vendite on line: “Questo è un dato che emerge anche dalle indagini condotte dalle Dogane – spiega Di Carlo – c’è un forte aumento dei sequestri singoli, di prodotti acquistati per posta o per corriere. Inoltre acquistare on line permette di agire in via riservata, evitando l’eventuale riprovazione sociale che potrebbe suscitare l’acquisto di un prodotto contraffatto”.

    A differenza di quello che si pensa, non tutto il mondo della contraffazione ha luogo in Cina. Dalla Turchia, ad esempio, arriva molta pelletteria e cosmetica. Molti prodotti non originali vengono anche prodotti all’interno della stessa Unione Europea, e magari etichettati e imballati come se arrivassero da Paesi extra Ue. Ecco perché la lotta alla contraffazione va combattuta in modo sempre più vigile e rigoroso

  • Sarebbe responsabile la Germania dei nostri mali economici?

    La crisi politica e istituzionale che sta attraversando l’Italia ha posto in primo piano l’accusa alla Germania di essere responsabile dei mali economici del resto d’Europa. La sua politica d’austerità non favorirebbe la crescita e porterebbe benefici soltanto al settore finanziario. Da qui le affermazioni accusatorie di Salvini e Di Maio: E’ la Germania a non volere il cambiamento che noi vogliamo effettuare per l’Europa – sottintendendo che la rigidità tedesca sui bilanci viene imposta perché conviene all’economia tedesca, senza tener conto delle esigenze degli altri Paesi.

    Su questo argomento si è pronunciato recentemente l’Istituto economico Molinari di Parigi che già nel titolo del suo intervento si chiede se “l’egoismo economico della Germania sarebbe responsabile dei problemi incontrati da certi Paesi europei, dalla Francia in particolare”,  per rispondere subito che si tratta di un mito che si deve decifrare

    E’ infatti una credenza diffusa che il rigore finanziario sarebbe esclusivamente tedesco, al contrario di quanto accade nel resto d’Europa. La cancelliera tedesca al potere da 13 anni sarebbe le degna ereditiera dei suoi predecessori ordo-liberali, difensori del principio dell’ortodossia finanziaria. La sua ricerca sfrenata dell’equilibrio di bilancio renderebbe complessi i dati, quando si tratta in particolare di sviluppare la costruzione europea. Questo modo di vedere rientra nel mito, che va chiarito e decifrato

    Non esiste, innanzitutto, nessuna differenza teorica tra il corpus teorico tedesco e quello francese o italiano, in termini di spesa pubblica, siamo tutti adepti della teoria degli stabilizzatori automatici. I periodi di crisi devono permettere ai deficit anti-ciclici di svilupparsi, per favorire la ripresa economica. Inversamente, i periodi di calma sono messi a profitto per riequilibrare i conti. Da qui l’integrazione di un margine di manovra del 3% dei deficit pubblici nei criteri di Maastricht. Da qui, anche, l’integrazione nel trattato di una soglia di debito pubblico del 60% del PIL da non superare. Il debito, ipotecando i nostri margini di manovra e quelli delle generazioni future, è sempre considerato che deve restare sotto controllo. Queste regole comuni non cadono dal cielo. Non sono state imposte da nessuno e sono sempre state difese, anche se talvolta non praticate, dalla più alta amministrazione, oltre che da eccelsi economisti.

    In secondo luogo, questo impegno comune è rispettato da una proporzione non indifferente di Paesi dell’Unione europea. C’è evidentemente la Germania che in 20 anni ha conosciuto 7 anni di eccedenze pubbliche. Ma complessivamente il suo debito è sotto controllo e oggi ammonta allo stesso livello di prima dell’ultima crisi economica. Situazione radicalmente diversa in Francia e in Italia. In Francia per i deficit annuali e in Italia per il debito pubblico che ha continuato ad aumentare. Non sono mancati poi politici e specialisti che invitavano la Germania a disfarsi di un feticismo perpetuo per le eccedenze, come se la Germania fosse la sola in Europa a praticare questa politica di rigore.

    La realtà, invece, è ben diversa. Le ultime cifre mostrano che 12 altri Paesi arrivano a equilibrare i loro conti pubblici. Eccedenze notevoli si registrano, per esempio, in Svezia (+1,3%), nei Paesi Bassi (+1,1%) o in Danimarca (+!%). Passar sotto silenzio questa tendenza non aiuta certamente a fare la necessaria pedagogia sull’importanza del ritorno all’equilibrio di bilancio. I politici sono ambigui quando predicano la riduzione delle spese, senza farla mai, e nello stesso tempo il ritorno all’equilibrio dei conti.

    Il terzo aspetto consiste nell’opportunità di non veicolare visioni economiche disgreganti e senza fondamento. Invitare la Germania a disfarsi delle sue eccedenze di bilancio e commerciali, per il motivo che esse sarebbero fatte a spese di altri Paesi, è un amalgama senza fondamento. Se le eccedenze commerciali degli uni sono i deficit commerciali di altri è una logica che non si applica alle finanze pubbliche. Non c’è nessuna ragione che le eccedenze pubbliche degli uni impediscano agli altri di equilibrare i loro conti. Questo sofisma, contro-produttivo rispetto al lavoro di pedagogia da fare, è anche inutile e disgregante rispetto a un Paese, la Germania, da cui noi anche dipendiamo per gli scambi commerciali interconnessi e per quelli legati al debito pubblico. I tedeschi detengono 24,06 miliardi  di titoli di Stato italiani, la Francia 44,27, il Regno Unito 12,05 e il piccolo Belgio 20,24, all’Italia ne rimangono 188,76. Anche noi approfittiamo dunque della ricchezza e del risparmio dei nostri vicini. Ed è normale che si interessino alle nostre vicende interne, suscettibili di poter provocare disastri finanziari. Anche loro ne subirebbero le conseguenze. Considerare i tedeschi degli aguzzini che ci impongono ristrettezze per trarne un esclusivo vantaggio ci sembra una visione parziale delle cose, per non dire che prendersela con la Germania perché noi non siamo capaci o non vogliamo fare ciò che sarebbe necessario per il bene del nostro Paese, ci sembra una scappatoia dialettica un po’ misera, troppo facile e avulsa da ogni senso di responsabilità. Le eccedenze tedesche non spiegano i nostri deficit pubblici. Il mito della Germania responsabile dei nostri mali va sfatato con convinzione, se non vogliamo farci del male con le nostre stesse mani.

    Abbiamo dunque bisogno della fiducia e della comprensione degli acquirenti dei nostri titoli di Stato. Se la situazione non si migliorerà significativamente confermeremmo che la qualità del nostro debito si è deteriorata, con il rischio di sperimentare quanto è accaduto alla Grecia. Anche per questo ci sembra che le grida lanciate da Di Maio e Salvini contro il Presidente della Repubblica, colpevole di tener conto delle conseguenze che l’aumento del debito provocherebbero presso la Germania e presso gli altri detentori del nostro debito, siano frutto di irresponsabilità, se non di malafede o ignoranza. La favola di La Fontaine sulla cicala e la formica – conclude l’analisi dell’Istituto Molinari – descrive un rischio che non dovrebbe essere trascurato. Dipende solo dalla nostra intelligenza collettiva che resti soltanto una allegoria.

  • Pil ed inflazione: chi paga il differenziale

    Sembra incredibile come ancora oggi troppi esponenti, diretta espressione della linea politica economica dei partiti, continuino imperterriti a parlare di crescita economica italiana unita al raggiungimento degli obiettivi prefissati dagli ultimi governi successivi al 2013 (quindi dal governo Monti), quando i dati consuntivi, soprattutto i numeri negativi uniti alle prospettive di crescita, delineano un quadro assolutamente diverso. Uno scenario talmente fosco da assumere le tinte di una vera e propria recessione.

    I dati relativi alla crescita economica per il 2018 parlano di una crescita del PIL pari a 1,5 % (a tal proposito si ricorda che, come sempre da oltre vent’anni,a settembre si assiste ad un ritocco decimale al ribasso). Assolombarda prevede invece la crescita dell’inflazione, sempre per l’anno 2018, pari al 1,7%. Il differenziale, cioè lo 0,2%, indica chiaramente ed inequivocabilmente la decrescita reale del potere d’acquisto dei cittadini, quindi da una vera e propria recessione del valore nominale nella capacità di acquisto, espressione forse impropria ma reale di una recessione economica. Il tutto frutto di una crescita inferiore persino al tasso di inflazione, quindi essa stessa espressione di una domanda interna e conseguentemente di una frenata anche dell’export.

    La risultante dell’incrocio di questi dati delinea una situazione paradossale se confrontata con le  teorie economiche che negli ultimi anni hanno assunto la centralità della discussione economica e politica italiana.

    Il risultato di tale aumento dell’inflazione superiore al PIL viene determinato dall’importazione dell’inflazione stessa attraverso l’aumento delle materie prime, in particolare i prodotti petroliferi, come delle tariffe pubbliche, soprattutto quelle legate ai servizi offerti dalle aziende partecipate e dagli enti locali, espressione della mancanza di concorrenza ed ancora oggi di rendite di posizione. Come non ricordare la posizione favorevole all’aumento dell’IVA dei ministri Padoan e Calenda i quali si illudevano, attraverso l’impostazione dell’IVA, di ottenere l’obiettivo di ridurre il peso del debito pubblico.

    Un’opinione questa condivisa anche dal presidente della BCE Draghi il quale, nonostante la politica monetaria fortemente espansiva, non riuscì a ottenere un sostanziale aumento dell’inflazione, addirittura dirottando  la speranza nell’aumento del prezzo del greggio e dimostrando, ancora una volta, come tanto i politici italiani quanto i presidenti europei non si siano mai posti il problema di chi avrebbe pagato differenziale tra un aumento del PIL inferiore al tasso di inflazione.

    Dall’altra parte di questa contesa politica ed economica ci sono i sostenitori dell’inflazione legata magari  ad una moneta debole la quale darebbe impulso all’esportazione rendendo competitivi i prodotti italiani. In questo senso ecco allora i sostenitori del ritorno alla liretta, visionari ma soprattutto pericolosi in quanto l’inflazione provoca una sostanziale perdita del potere d’acquisto dei cittadini a reddito fisso e, di conseguenza, la nuova competitività andrebbe tutta a carico dei cittadini stessi. Agli smemorati sostenitori di questa dottrina si ricorda come negli anni ‘70 venne introdotta la scala mobile la quale a sua volta generò  nuova inflazione tanto da dover essere abolita all’inizio degli anni ‘80 per fermare la spirale inflattiva che in pratica impoveriva il ceto medio. Senza dimenticare la problematica relativa al Fiscal Drag, cioè all’aumento del prelievo fiscale allegato all’aumento dei valori nominali delle retribuzioni.

    Per quanto riguarda invece le previsioni del 2019, il grafico nella foto riporta come la nostra decrescita economica risulterà ancora maggiore in quanto il PIL crescerà solo del +1.2% (quindi con un – 0,3% di crescita economica) al quale contemporaneamente seguirà un aumento dell’inflazione pari al +1,4%.

    Il terribile combinato di frenata della crescita del PIL, unito comunque ad una infrazione che risulta superiore dello 0,2% al PIL stesso, determinerà ancora, una volta, una perdita del potere d’acquisto dei cittadini, quindi una ulteriore flessione della domanda interna che rappresenta una delle motivazioni per la quale non si riesce a trovare una crescita stabile dell’economia del nostro Paese.

    Un quadro a dir poco allarmante per non dire disastroso che evidentemente non riesce a suscitare alcuna reazione nel mondo politico come in quello economico, entrambi rivolti verso teorie  e strategie economiche  espressione di un asset economico ormai superato dal mercato globale. Si guarda al passato per non dimostrare l’incapacità di comprendere il presente e di delineare uno scenario futuro.

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