PMI

  • Il salario minimo ed il contesto italiano

    Da oltre un ventennio il pensiero economico dominante, espressione della nomenclatura nazionale, internazionale ed accademica, ha basato tutta la propria strategia di sviluppo sul principio della concorrenza considerata come l’unica artefice del benessere per i consumatori del mercato globale.

    Un vantaggio che risulterebbe essere espressione della maggior competitività, e di conseguenza produttività, che le imprese sarebbero costrette ad esprimere nell’affrontare appunto la concorrenza di e da ogni latitudine. Un principio concettualmente corretto ma che presenta la grande limitazione applicativa nel non tenere in alcuna considerazione il fattore “ambientale e normativo specifico nazionale” nel quale questa concorrenza si trovi ad esprimersi.

    La assoluta impossibilità di riformare la Pubblica Amministrazione italiana, infatti, rende il sistema paese assolutamente anticompetitivo nei confronti delle imprese italiane che operano nel mercato globale. Questo immobilismo normativo della PA di fatto trasforma ogni aumento della produttività interna alle aziende in una semplice diminuzione del Clup (costo del lavoro per unità di prodotto).

    Questa teoria economica, quindi, manifestazione di un approccio superficialmente generalista e massimalista alle diverse realtà economiche (espressioni dei diversi contesti nazionali) trova ora una ulteriore espressione nella volontà di introdurre il salario minimo. Ennesima conferma di come tali iniziative normative siano frutto di approcci ideologici ed economici come della mancanza di un minino di conoscenza delle specificità del mondo globale (principio della concorrenza) ed ultimamente anche dei soli asset industriali italiani (salario minimo).

    Il settore industriale italiano è rappresentato per oltre il 95% da PMI le quali trovano il proprio successo nel grande livello qualitativo e specificità delle proprie lavorazioni, rientrando perciò nelle filiere tanto nazionali quanto internazionali nonostante paghino i costi aggiuntivi dell’inefficienza  della pubblica amministrazione e del sistema infrastrutturale. Questo successo che pone le nostre PMI come sintesi felice di know-how industriale e professionale al vertice mondiale è costretto a scontare  il costo aggiuntivo della pubblica amministrazione italiana che da sempre rema contro il  settore industriale a causa della posizione ideologica espressione della pubblica amministrazione stessa. In più, all’interno di un mercato globale emerge evidente come oltre al problema della concorrenza dei paesi a basso costo di manodopera si aggiunga quello della estrema facilità del  trasferimento tecnologico in una economia digitale assolutamente senza più barriere (https://www.ilpattosociale.it/2018/11/15/il-valore-della-filiera-by-ducati/).

    Tornando alla proposta del salario minimo, questo rappresenterebbe un aggravio di costi per queste aziende che rientrano per proprio ed esclusivo merito all’interno di queste filiere ad alto valore aggiunto sia nazionali che internazionali. Viceversa altre economie, come quella tedesca, nelle quali le grandi aziende rappresentano l’asse portante del settore industriale risulta evidente come il  salario minimo possa venire applicato e soprattutto compensato attraverso una compressione dei costi pagati alle aziende contoterziste che partecipano alla filiera del prodotto finito e contemporaneamente anche attraverso la ricerca di sinergie interne all’azienda stessa.

    In altre parole il salario minimo viene applicato in Germania ed assorbito grazie ad una riduzione dei costi che vengono trasferiti sul sistema complesso delle aziende a monte della filiera. Anche perché va ricordato che tutti i prodotti risultano complessi nel senso che rappresentano la sintesi di molteplici know-how industriali e professionali che intervengono nelle diverse fasi di lavorazione del prodotto stesso.

    Il maggior aggravio di costi può essere sopportato solo a valle della filiera (l’azienda mandante e titolare del prodotto finito che lo pone sul mercato) perché altrimenti qualora venisse applicato alle diverse PMI determinerebbe un effetto moltiplicatore per ogni singola fase del processo produttivo a monte del prodotto finito. Ritornando quindi all’asset tipico industriale italiano emerge evidente come questo fattore moltiplicatore dei costi interni (il salario minimo appunto) porterebbe le nostre PMI al di fuori di mercato fortemente concorrenziale e di conseguenza delle filiere. Un ragionamento talmente semplice che parte dalla conoscenza degli asset industriali evidentemente sconosciuti alle menti elaboratrici di questa iniziativa normativa. Una volontà politica espressione della assoluta incompetenza che riesce a trasformare un’idea concettualmente corretta ma in un contesto diverso (come in Germania) in un fattore anticompetitivo drammatico per l’intero asset industriale italiano. Ancora oggi si cerca di individuare nell’Unione Europea il nemico che impedirebbe la nostra crescita economica, quando, invece, siamo noi italiani con la nostra ignoranza i peggiori nemici di noi stessi.

  • Lombardia: finanziamenti per ricerca e sviluppo alle PMI

    La Lombardia è da sempre in prima linea quando si parla di finanziamenti per l’innovazione e l’internazionalizzazione delle Pmi. In questi giorni si stanno discutendo due provvedimenti che puntano a promuovere l’attività delle imprese piccole e medie: queste valgono complessivamente 37 milioni.

    Il primo, atteso a breve in pubblicazione, è il nuovo bando Frim Fesr 2020 «Ricerca e Sviluppo», gestito da Finlombarda, che vale 30 milioni: finanzia ricerca e innovazione delle Pmi e dei liberi professionisti. A disposizione ci sono risorse regionali, statali e del Por Fesr 2014-2020 per i progetti collegati alle aree di specializzazione della «Strategia regionale di specializzazione intelligente per la ricerca e l’innovazione-S3» (settore aerospaziale, agroalimentare, industrie creative) e alle tematiche delle «smart cities» (infrastrutture, costruzioni intelligenti, sicurezza). I finanziamenti sono a medio-lungo termine, di durata da tre a sette anni (di cui massimo due di preammortamento) con tasso fisso nominale dello 0,5% e importo tra 100mila euro e un milione. È finanziabile fino al 100% degli investimenti di almeno 100mila euro in attività di ricerca industriale, sviluppo sperimentale e innovazione, realizzati entro 18 mesi (più sei di possibile proroga) dal decreto di concessione. Sono ammissibili nel finanziamento spese per tecnici e ricercatori, costi di ammortamento o canoni per l’acquisto in leasing di impianti e attrezzature nuovi o usati, i costi della ricerca contrattuale, delle competenze tecniche e dei brevetti, la consulenza per l’attività di ricerca, i materiali necessari alla realizzazione del progetto, le spese generali forfettarie, i costi per il deposito e la convalida dei brevetti durante il periodo di realizzazione del progetto. Sarà possibile presentare domanda online dal 6 giugno fino a esaurimento delle risorse.

    Si apre invece il 22 maggio lo sportello della «linea internazionalizzazione» di Regione Lombardia, gestita da Finlombarda, che finanzia i progetti integrati di internazionalizzazione e sviluppo internazionale delle Pmi lombarde attive da almeno due anni. Lo stanziamento iniziale è di 7 milioni a valere su risorse del Por Fesr 2014-2020 con il cofinanziamento regionale e statale. Sono previsti finanziamenti di medio-lungo termine a tasso zero, di importo compreso tra 50 e 500mila euro e durata da tre a sei anni (di cui massimo due di preammortamento). I finanziamenti coprono fino all’80% degli investimenti in programmi di internazionalizzazione, che siano realizzati entro 18 mesi dalla concessione dell’agevolazione e di importo minimo di 62.500 euro. Sono finanziabili le spese sostenute per la partecipazione a fiere internazionali, per la promozione dei prodotti in showroom o spazi espositivi temporanei all’estero, per servizi di consulenza, per l’ottenimento di certificazioni estere e per il personale impiegato nel progetto di internazionalizzazione. Le imprese potranno fare domanda online, fino a esaurimento delle risorse.

    Resterà aperto fino al 17 giugno, invece, il bando Fashiontech della Regione Lombardia per la sostenibilità delle piccole e medie imprese del settore moda. In base al bando, aperto il 30 aprile, sarà possibile presentare progetti “di ricerca e sviluppo finalizzati all’innovazione del settore Tessile, moda e accessorio, secondo il principio della sostenibilità, dal punto di vista ambientale, economico e sociale”. Il budget del bando è di 10 milioni di euro. Possono partecipare al partenariato pmi, grandi imprese, organismi di ricerca pubblici e privati o Università. Le imprese devono avere sede operativa attiva in Lombardia alla data della prima richiesta di contributo. Vengono comunque solo riconosciute le spese sostenute presso la sede in Lombardia.

  • Quattro imprese italiane su cinque pronte all’industria 4.0

    Il dato è confortante: ben il 78% delle aziende italiane ha avviato processi di trasformazione digitale, improntati verso l’Industria 4.0.

    In realtà la ricerca realizzata da Bcg e Ipsos tra le imprese fornisce un quadro caratterizzato da luci e ombre, presentando più di una criticità nel viaggio verso Industria 4.0. Tra le 170 aziende coinvolte (oltre 20 settori di appartenenza, con una prevalenza di realtà del Nord Italia) in termini di conoscenza il problema non esiste più: il 100% delle imprese conosce l’argomento.

    A distanza di oltre due anni dal varo dei maxi-incentivi fiscali disponibili per i beni “connessi”, il 22% del campione non ha avviato alcun progetto digitale e al momento non pianifica nulla sul tema. Il 78% delle aziende ha invece progetti in corso o comunque già pianificati, anche se le applicazioni in corso sono circoscritte ai primi step: ad esempio l’avvio di un primo progetto pilota in produzione o la connessione delle le prime macchine. Solo un quarto delle imprese (24%) si è invece già spinto oltre, avviando o completando la connessione con clienti e fornitori o addirittura arrivando a connettere l’intera catena del valore. In media i dati dicono quindi che solo il 19% delle imprese (il 24% del 78%) ha messo in pista progetti profondi e radicati, in grado di modificare in modo evidente i risultati ottenuti.

    Così, non sorprende più di tanto osservare che nel 54% dei casi le imprese non si sentano in grado di poter fare un bilancio sull’effetto incrementale di questi cambiamenti in termini di maggiori ricavi, mentre solo il 25% del campione segnala un saldo positivo. In generale solo il 14% delle aziende con progetti a bassa complessità dichiara di aver sperimentato un aumento di ricavi, percentuale che balza invece al 60% tra le imprese che hanno progetti di elevata maturità.

    Altro nodo chiave è quello delle competenze, con il 98% delle imprese a segnalare la necessità di un miglioramento in questo ambito. Nuove professionalità che in generale non avranno un riflesso significativo sui numeri della forza lavoro interna: ci si aspetta infatti un saldo negativo del 2% per impiegati dei livelli più bassi e operai, -1% tra gli impiegati di livello superiore, un aumento dell’1% tra i manager. Tra chi ha già avviato un progetto Industria 4.0, solo il 26% ha previsto team dedicati, nonostante nel 67% dei casi le aziende ammettono di attendersi un’elevata complessità nell’implementazione di questi progetti.

    La maggior parte delle aziende quindi considerano quello di Industria 4.0 un passaggio da gestire, almeno in un primo momento, soprattutto con risorse informatiche specializzate, dunque non sistemiche.

    “Nella fabbrica intelligente – spiega Jacopo Brunelli, partner e managing director di BCG, responsabile operations per Italia, Grecia, Turchia e Israele – saranno più fluide le competenze ricercate e verrà richiesta la capacità di andare oltre le tradizionali abilità tecniche del proprio ruolo. Inoltre, se lo scenario di una sostituzione completa della forza lavoro da parte dei robot sembra scongiurato perché gli automi saranno impiegati sempre più spesso per interagire con gli umani, prevediamo la ricerca di nuove figure professionali con specifiche competenze che coprano aree differenti”.

    Per Andrea Alemanno, senior client officer di Ipsos, “bisogna pensare alle possibilità che offre Industria 4.0; è una ‘rivoluzione copernicana’ che va ben oltre l’ottimizzazione dell’attuale, e consente di affrontare nuove sfide, e di guardare alla supply chain, alla gestione dei clienti e della produzione in modo diverso e costantemente evolutivo”.

    “A due anni e mezzo dalla partenza del piano industria 4.0 – commenta il vice presidente di Confindustria per la politica industriale Giulio Pedrollo – possiamo dire che ha funzionato e che le imprese hanno colto l’opportunità di innovare e di crescere. Una sfida importante e imprescindibile adesso è quella dell’adeguata formazione delle risorse umane già impiegate e soprattutto della creazione di nuovi profili che siano in grado di dispiegare al meglio le potenzialità di Industria 4.0”.

  • La via della seta e l’imbarazzante strategia governativa

    La proposta del governo di Pechino di aderire a questa opera infrastrutturale, ma soprattutto la valutazione del suo impatto economico, dimostra il livello di preparazione culturale ed economica tanto del governo italiano in carica quanto dell’Unione europea. Entrambi i soggetti politici infatti dimostrano un “infantilismo economico” assolutamente imbarazzante. Il Presidente del Consiglio assieme agli esponenti dei 5 Stelle si dimostrano convinti che questa infrastruttura permetterà alle nostre merci di avere un accesso diretto al mercato cinese e, di conseguenza, si trasformerebbe in un veicolo di sviluppo delle esportazioni italiane. Sembra incredibile come questi non risultino in grado di comprendere come il nostro asset industriale ed imprenditoriale sia la declinazione di mercato concorrenziale ed al tempo stesso di strutture politiche democratiche.

    Attraverso l’adesione a questo progetto, viceversa, tutti gli asset economici ed industriali italiani si troveranno  in competizione con altrettante aziende, direttamente o meno, supportate da politiche anche di fiscalità di vantaggio di un regime autoritario nel quale la programmazione viene effettuata solo ed esclusivamente dal comitato politico.

    In altre parole, grazie alla scelta di questo governo, si aprirà la porta principale all’invasione dei prodotti cinesi (molti dei quali già delocalizzati in aree a minore costo della manodopera), espressioni di quadri normativi inesistenti rispetto a quelli italiani. Uno scenario assolutamente disastroso, in particolar modo nel settore dei  beni intermedi, che metteranno in serie difficoltà le nostre PMI appartenenti alle filiere nazionali e soprattutto internazionali. A tal proposito si ricorda come infatti alle PMI vada riconosciuto il merito di aver mantenuto in equilibrio export-oriented la nostra economia come unica espressione di crescita economica. Questa  incapacità di analisi politica, tuttavia, che va interamente attribuita al Presidente del Consiglio e al partito di maggioranza relativa trova una sponda anche all’interno dell’Unione Europea.

    Innanzitutto la Germania rimane su una posizione molto negativa rispetto alla via della seta (pur essendo l’interscambio con la Cina di oltre 200 miliardi). Addirittura, poi, il governo tedesco assieme all’associazione della Confindustria tedesca stanno creando un fondo che potrà venire utilizzato per opporsi alle scalate ostili da parte di capitali cinesi nei confronti di aziende tedesche ritenute strategiche.

    In Italia,  invece, l’intera classe politica ed anche Confindustriale plaudono alla vendita di un’azienda ad un colosso all’estero, intesa come dimostrazione della appetibilità del nostro settore manifatturiero.

    Va altresì ricordato ovviamente come in Germania l’associazione degli industriali si associ ed elabori un’azione di difesa delle aziende considerate strategiche .

    La nostra associazione di categoria confindustriale invece si diletta in modo altrettanto infantile nelle previsioni di crescita o di reddito di cittadinanza dimostrando anch’essa un declino culturale imbarazzante.

    Inoltre, ad aprire il mercato attraverso le opere infrastrutturali alla potenza cinese, va ricordato come la stessa Unione Europea operi contro le forme di aggregazione di colossi europei che possano competere nel mercato mondiale.

    La decisione della commissione antitrust contraria alla fusione tra Alstom e Siemens dimostra essenzialmente la visione domestica e non mondiale delle dinamiche economiche del mercato alla  quale invece si risponde proprio con la creazione di colossi europei (https://www.ilpattosociale.it/2019/02/11/lunione-europea-espressione-del-ritardo-culturale/). E’ imbarazzante in questo senso la assoluta incapacità della burocrazia europea di comprendere come i termini e le dinamiche siano mondiali e all’interno di queste i colossi europei possono competere solo ed esclusivamente attraverso le associazioni o la fusione di imprese.

    In altre parole la via della seta dimostra ancora una volta il declino culturale della classe politica italiana ora al governo quanto dell’Unione Europea incapace di comprendere come le regole del mercato devono necessariamente partire da una analisi e da una successiva elaborazione di un quadro normativo comune. Questo sarebbe infatti  la base per rendere la concorrenza espressione dell’aumento della produttività e della ricerca tecnologica invece di un approccio speculativo ad un minore costo della manodopera. Tutto questo conferma, ancora una volta, come il declino della nostra società sia legato ad una incapacità culturale della classe politica e dirigente tanto italiana e quanto europea.

  • Flussi internazionali di investimento: i numeri ignorati o peggio sconosciuti

    Mentre la politica si azzanna sulla possibilità e soprattutto sui reali effetti di politiche “pseudo espansive” e rigorosamente a debito come il reddito cittadinanza e quota 100 per le pensioni, i reali numeri che andrebbero invece valutati (se conosciuti), ma assolutamente ignorati, dalla politica sono ben altri.

    Il nostro Paese è oggetto di flussi internazionali di investimenti (FDI) pari a circa 17,1 bilioni di dollari (un bilione di dollari equivale a un milione di milioni di dollari). Viceversa il Messico è maggiormente attrattivo con i suoi 27,9 milioni, mentre la Germania ci doppia con 34.7 bilions$. La stessa Francia attira flussi finanziari ed investimenti dall’estero per 49.8 bilioni di dollari, solo per restare nell’ambito europeo. Un ammontare pari al triplo di quello italiano.

    Cifre che dimostrano già come l’Italia sia uscita da anni del circolo virtuoso degli investimenti internazionali, come confermato dal grafico, proposto da www.unctad.org, divisione che si occupa di flussi finanziari e commerciali e sviluppo appartenente all’Organizzazione delle Nazioni Unite (Onu). Questi dati risultano irrisori se confrontati con realtà economiche superiori, come dimostrano i flussi e gli investimenti in Cina che ammontano a 136,3 bilioni, ma annichiliscono di fronte alla quota di investimenti destinata agli Stati Uniti d’America che arriva a 275,4 bilioni di dollari.

    Tornando all’ambito europeo tuttavia va ricordato come la Germania, anno dopo anno, cresca ad un tasso superiore del PIL rispetto all’Italia anche grazie all’articolata sintesi delle attività industriali unite e supportate da investimenti esteri.

    Un aspetto poi molto importante, che va oltre la semplice componente finanziaria, risulta dalla semplice considerazione che attraverso tali trasferimenti ed investimenti venga contemporaneamente trasferito ed ampliato proprio dagli stessi  investitori anche il know-how innovativo in settori nevralgici il cui sviluppo necessità di forti investimenti. In altre parole, lo Stato oggetto di tali investimenti ottiene un doppio beneficio finanziario ma anche di innovazione tecnologica. In Italia invece, anno dopo anno, si continua a non affrontare il problema della assoluta improduttività della pubblica amministrazione, una macchina giudiziaria ormai degna di un paese del terzo mondo, e contemporaneamente si è continuato a provare regolamenti farraginosi che limitano l’impresa privata.

    In più tale scenario disarmante è attribuibile anche a provvedimenti legislativi espressione di un’incompetenza di base, come l’Investiment Compact il quale assicura la “non retroattività fiscale” (parametro fondamentale per valutare  un investimento nel medio lungo termine) solo per operazioni superiori ai 500 milioni di euro. Escludendo, quindi, di fatto ogni investimento nelle PMI.

    Sempre come espressione di tale incapacità ecco che la fiscalità di vantaggio non venga utilizzata per attrarre appunto investitori ma semplici titolari esteri di redditi milionari ai quali viene assicurata una cedolare fissa sui propri redditi di €100.000, la quale, nelle sue molteplici applicazioni, si trasforma in un’aliquota del 10% per una persona con un reddito di un milione e viceversa dell’1% per titolari di redditi di 10 milioni.

    Tutto questo  mentre le dotte menti nostrane continuano ad aggiornarsi sul reddito di cittadinanza (il cui impatto assicurano sarà di un confortante  + 0,18 % sul Pil!!), come su quota 100, tralasciando così qualsiasi analisi strategica in ambito internazionale.

    I dati forniti dall’ONU sono disarmanti quanto il fatto che vengano ignorati o peggio risultino sconosciuti alla nostra classe politica.

  • Sostenibilità efficienza energetica e sistemi industriali

    Da molto tempo, forse da troppo, uno dei concetti fondamentali per cercare di distinguersi e di offrire una visione positiva e “modernista” quanto autoreferenziale da parte di economisti e politici risulta legata alla proposizione del concetto di eco-sostenibilità come via dello sviluppo economico, quasi in contrapposizione all’immobilismo e alla mancanza di sensibilità dell’altra “parte del mondo industriale”.

    La sostenibilità ambientale rappresenta da sempre, e  non da oggi, un fattore economico tanto  importante da diventare anche un elemento competitivo semplicemente perché la sua corretta applicazione si trasforma in un passaggio importante in quanto permette una ottimizzazione del  consumo di energia per la articolata produzione. Una visione “vetero-economica” che però molte  aziende hanno già compreso, magari senza un’elaborazione concettuale da offrire al mondo della comunicazione.

    In questo senso infatti, al fine di comprendere l’attualità del concetto di eco sostenibilità, andrebbe analizzata con un occhio maggiormente obiettivo la situazione attuale del sistema industriale italiano e il  proprio posizionamento nella articolata realtà economica ed industriale europea.

    L’Italia, va ricordato, rappresenta la seconda economia manifatturiera e soprattutto i settori metalmeccanico e tessile-abbigliamento sono  i primi due settori per le esportazioni con degli attivi commerciali record per la bilancia commerciale e mantengono le preminenza rispetto ad altri settori, anche per quanto riguarda l’occupazione.

    Nella visione “eco-modernista” che contraddistingue i nuovi sostenitori di una rinnovata ricerca della sostenibilità il grafico in foto dimostra come questo concetto venga applicato CON OTTIMI RISULTATI e  con grande successo dal sistema industriale italiano in rapporto soprattutto all’Europa ed ai principali competitor. Una  semplice analisi dei dati  evidenzia senza possibilità di interpretazioni diverse l’efficienza energetica raggiunta IN QUESTO MOMENTO STORICO dal sistema industriale italiano: un risultato notevole se rapportato alle dimensioni delle nostre imprese industriali che sono perlopiù PMI (95%) e che scontino quindi una crescente e maggiore difficoltà di accesso al credito, anche a causa di una inferiore rappresentatività all’interno del sistema politico nazionale. Comunque, senza ombra di dubbio, questi risultati dimostrano come il concetto di sostenibilità sia ampiamente applicato nel nostro sistema industriale.

    I grafici, infatti, dimostrano come, per quanto riguarda il consumo energetico/per milione di unità di prodotto, tolta la Gran Bretagna (10,6) che rappresenta un’economia fortemente influenzata dalla componente finanziaria, il nostro sistema industriale necessiti di sole 14,2 tonnellate di oil/per milione di prodotto. Una quantità inferiore rispetto alla Francia (14,9), alla Spagna (15,7) ma soprattutto ben al di sotto di quanto necessiti al sistema industriale tedesco (prima economia manifatturiera europea) con 17 milioni di tonnellate, sempre per milione di prodotto, il quale dimostra come le dimensioni delle industrie non assicurino il vantaggio di usufruire di una qualche  economie di scala.

    Questo dato, da solo, annienta e ridicolizza tutti i modelli economici proposti dal mondo variegato della politica ed accademico per i quali la sola grande industria internazionale (alla quale il nostro tessuto industriale caratterizzato al 95% da Pmi dovrebbe ispirarsi) rappresenti la dimensione necessaria non solo in rapporto al mercato globale ma anche per quanto riguarda il reperimento di  investimenti anche finalizzati alla ottimizzazione energetica e quindi all’obiettivo della eco-sostenibilità.

    Questi dati annichiliscono anni di discorsi e di vision economiche inutili e prive di ogni supporto  economico e risultano assolutamente sconnesse con la realtà oggettiva quanto i loro sostenitori.

    In più, sotto il profilo della efficienza energetica, il sistema industriale italiano basato sulle PMI presenta un consumo energetico medio per milioni di prodotti di circa -2,6 milioni inferiore anche  rispetto alla media europea (16,8) e di 2,8 rispetto alla prima economia manifatturiera, cioè la Germania (17).

    Tenendo poi in considerazione i dati  relativi alle emissioni, ecco come la Francia, che da tempo ha puntato sull’energia nucleare, presenti un più basso tasso di emissioni per milione di prodotto (85,5 tonnellate di Co2/milione di prodotto), mentre l’Italia registra delle emissioni comunque inferiori rispetto alla Spagna (127,4) ed alla Germania stessa (136,7), ma anche alla media europea (130,5).

    Anche in questa analisi emerge evidente come il concetto di sostenibilità rappresenti per chi lo propone ora NUOVO OBIETTIVO invece che rappresentare un semplice bigliettino da visita autoreferenziale in considerazione dei dati qui riportati che dimostrano i traguardi già raggiunti dal sistema industriale italiano e in buona sostanza dalle Pmi.

    Paradossale andando avanti, poi, se si intendesse passare al grafico relativo alla produzione di rifiuti. Mettendo sempre in rapporto la produzione di rifiuti/per milioni di prodotto nella classifica che comprende le maggiori realtà industriali ed economiche europee, l’Italia, ed il suo articolato sistema industriale, risulta la nazione più virtuosa. Il nostro Paese, infatti, con 43,2 tonnellate/milione di prodotto, si dimostra molto più ecosostenibile rispetto ai dati molto più alti della Spagna (54,7), della stessa Gran Bretagna (64) e della Germania, da sempre il nostro competitor manifatturiero (67,6). Il sistema industriale italiano in più, anche  rispetto alla media europea, presenta una produzione di rifiuti inferiore della metà (Italia 43,2/89,3 Ue), un rapporto che conferma ancora una volta la assoluta centralità delle dinamiche di investimento relative alla sostenibilità del sistema industriale italiano di cui questi dati ne offrono la conferma.

    Questi grafici offrono la fotografia del nostro sistema industriale il quale probabilmente dovrebbe essere più consapevole delle proprie caratteristiche e prerogative, come degli ottimi risultati, già raggiunti in tema di eco-sostenibilità.

    Una consapevolezza che dovrebbe trasformarsi in iniziative propositive al fine di ottenere da una parte una maggiore tutela normativa (legge Made in Italy), con una forte pressione politica nella Unione Europea, titolare della competenza normativa, dall’altra dovrebbe contemporaneamente esprimere una nuova capacità comunicativa nelle forme come nei contenuti, con l’obiettivo di rendere noti e facilmente verificabili i propri plus di sostenibilità ad un consumatore sempre più  sensibile a queste tematiche legate al valore complessivo di un prodotto  reale, espressione della filiera produttiva italiana.

    La conoscenza di questi dati, tra l’altro, dovrebbe convincere e rafforzare le politiche di fiscalità di vantaggio relative al “reshoring produttivo”, una tematica abbandonata ormai anche delle stesse categorie dei rappresentanti industriali, troppo spesso distratte dalle dinamiche politiche e sempre meno attente alle reali aspettative del mercato, espressione complessiva della nuova sensibilità dei consumatori. Inoltre la consapevolezza del valore espresso da questi grafici dovrebbero indurre da soli, se opportunamente comunicati, un valore aggiunto e soprattutto CONTEMPORANEO per l’intera filiera del made in Italy, da troppo tempo diventata semplice cassa di risonanza della creatività senza nessun collegamento a valori indentificativi e condivisibili dagli stessi consumatori.

    Non comprenderlo e soprattutto non attuare le politiche necessarie di comunicazione, inserendo tali nuovi fattori eco-sostenibili già raggiunti come espressione attuale del valore complessivo ed articolato della filiera, rappresenterebbe il più grosso errore culturale di questo Paese e soprattutto delle diverse associazione di categoria che dovrebbero porsi il problema della perdita di valore delle politiche di comunicazioni complessive assolutamente ancorate a modelli degli anni ottanta.

    Un sistema industriale italiano criticato e persino dileggiato per la sua dimensione dalle grandi menti accademiche, ma che ora con questi dati dimostra ancora una volta come possa invece  rappresentare, anche in rapporto alla quantità di materiale necessario/per milione di prodotto,  il sistema industriale con il più alto grado di sostenibilità integrata all’interno dell’Europa.

    Un  sistema con simili Plus meriterebbe  una diversa considerazione da parte della classe politica ma anche un azzeramento della credibilità mediatica dei cosiddetti economisti che hanno sempre puntato sulle aziende di grande dimensioni come l’espressione vincente all’interno di un mercato globale.

    La sommatoria virtuale di fattori come le esportazioni, unita all’occupazione ed ora anche alla sostenibilità complessiva, di fatto azzerano la credibilità di tali modelli economici degli ultimi trent’anni, riportando al centro dello sviluppo del nostro Paese l’intero sistema industriale italiano, espressione di un sentimento ed attenzione alla eco-sostenibilità certamente poco valutata e considerata probabilmente dalle stesse associazioni di categoria. La consapevolezza richiede un immediato salto culturale dell’intero settore industriale per non vanificare il valore dei traguardi raggiunti forse “a propria insaputa”.

  • Le piccole e medie imprese italiane contano di crescere, ma meno delle concorrenti europee

    La maggior parte delle piccole e medie imprese italiane che hanno ambizioni internazionali si aspetta di crescere nel prossimo anno, una su tre conta di creare nuovi posti di lavoro e il 46% pensa di aumentare la propria quota di mercato. Sono i risultati contenuti nelle ‘Prospettive di crescita per le pmi 2018-19’ (Sme growth outlook) pubblicate dallo Entreprise Europe network (Een), la rete creata dalla Commissione europea 10 anni fa che oggi riunisce circa 600 organizzazioni a supporto dell’imprenditorialità in oltre 60 Paesi.

    I dati di Een si basano su un sondaggio condotto fra le pmi europee. Il 63% di queste si attende una crescita degli affari nei prossimi 12 mesi, un dato in leggero calo rispetto allo scorso anno, quando gli imprenditori ottimisti erano il 65%. Cresce invece dal 32% al 33% il tasso di chi crede di riuscire a creare nuovi posti di lavoro, mentre resta invariata al 54% la fetta di chi si aspetta di espandere la propria fetta di mercato.

    In Italia i dati sono sotto la media Ue in tutte e tre le categorie: il 55% si attende una crescita degli affari, il 29% pensa di creare nuovo lavoro e il 46% crede in un aumento della quota di mercato.

    Nel 2017 il network europeo ha permesso a 2.177 pmi italiane di ricevere servizi di consulenza, a 13.374 di partecipare a sessioni informative o di formazione, e a 409 di beneficiare di pacchetti di supporto all’impresa.

  • Quale nord est

    Quando negli anni ‘90 una delegazione della associazione degli industriali del Giappone arrivò in visita nella zona che da Spresiano porta a Bassano (per chi non fosse della zona, tra le province di Treviso e Vicenza, là dove si sta realizzando ora la Pedemontana) gli industriali giapponesi, meravigliati dalla densità di imprese per chilometro quadrato (una delle più alte al mondo) chiesero innocentemente dove fosse l’autostrada. Gli imprenditori ed i rappresentanti degli industriali, soprattutto PMI, allargarono le braccia sconfortati.

    Da allora molti, forse troppi anni sono passati assieme ad una crisi del 2008 che ha decimato e comunque portato allo stremo la resistenza delle stesse imprese di quel territorio che dovrebbero venire ora servite dalla Pedemontana, che rappresenta probabilmente il nuovo Mose dell’Alto Veneto, se non altro per le incompetenze conclamate che ne hanno contraddistinto l’iter fino ad oggi.

    Nonostante il continuo gap infrastrutturale le aziende del nord est, da sempre sotto rappresentate dalle grandi associazioni come Confindustria, ed assolutamente ignorate e persino derise dalla politica nel loro complesso, riescono non solo a gareggiare con successo nello scenario del mercato globale ma si dimostrano, ancora una volta, il traino per l’intera economia italiana. Questi risultati poi vengono ottenuti nonostante la crisi devastante del sistema bancario locale, individuabile nel sostanziale default della Banca Popolare di Vicenza e di Veneto Banca. Nonostante questo quadro generale sconfortante, basti ricordare come a fronte di cali della produzione industriale nazionale  ma soprattutto a fronte di una importante flessione dell’ Export del -7,4%, il sistema industriale dell’impresa del nord est segna un +2,3%: una differenza di quasi dieci (10) punti percentuali di trend.

    Tuttavia rispetto ad altre zone italiane, ma soprattutto rispetto alle macroaree nazionali maggiormente in competizione individuabili in Germania, Francia e nel mondo intero all’interno di un mercato globalizzato, il Nordest continua a pagare un deficit infrastrutturale ormai divenuto insostenibile in quanto si traduce in un aggravio di costi che influiscono terribilmente nella competitività del sistema economico e soprattutto industriale. Se da una parte il passante ha tolto l’imbuto della tangenziale di Mestre, ora il collo di bottiglia infrastrutturale viene rappresentato dall’autostrada verso Trieste e verso Udine, quindi verso l’Austria e i mercati dell’est, importantissima come direttiva anche in un’ottica di politica di sviluppo del porto di Venezia che vada oltre la semplice vocazione turistica.

    Sempre in un’ottica Europea, non può passare inosservata, e soprattutto sottostimata come impatto economico, la volontà da parte dell’Austria di ridurre il traffico di TIR, specialmente di attraversamento. In questo contesto quindi è fondamentale la possibilità di utilizzare un altro vettore quale potrebbe essere l’alta velocità, non solo nella direzione di Trieste, quindi dei paesi dell’area ex Jugoslavia, ma soprattutto in direzione Udine, e quindi dell’Austria, come verso i mercati del Nord Europa.

    La folle decisione di annullare l’investimento dell’alta velocità tra Venezia e Trieste, che avrebbe dovuto invece rappresentare il primo tratto verso una rete infrastrutturale ad alta velocità molto più articolata e che comprendesse quindi anche lo sbocco verso il nord e l’Austria, allacciandosi al centro logistico del porto di Venezia, rappresenta l’ultima follia di una classe politica assolutamente disconnessa dal contesto territoriale, soprattutto in ambito economico, quale risulta la compagine governativa attuale. Sembra incredibile come proprio ora che alla guida del Paese siede un partito che si dichiara espressione delle necessità di una specifica zona come il Nordest, e del Veneto nello specifico, non riesca a comprendere l’entità di un errore colossale nel non finanziare tale opera, sempre in un’ottica di sviluppo delle imprese economiche del Nord est. A questa disgraziata strategia si aggiunge anche un effetto paradossale che delinea il livello della cultura locale.

    E’ nata infatti una polemica innescata dall’ex presidente della Regione in Friuli Venezia Giulia la quale ha attribuito al governo Renzi la decisione di non finanziare l’alta velocità tra Venezia e Trieste. Quindi la disputa politica tra maggioranza al governo ed opposizione non verte sulla attribuzione del merito di chi abbia realizzato una determinata struttura infrastrutturale ma su chi l’abbia bloccata determinando e mantenendo il gap infrastrutturale preesistente. Questo è un inequivocabile, quanto terribile ed  insensato esempio del declino culturale di questa classe politica che non da oggi ma da oltre vent’anni ammorba il nostro Paese.

    Tornando alla l’importanza di infrastrutture che supportino il tessuto economico del nord est certamente un’analisi e soprattutto una gestione più accurata rispetto anche all’ultima questione legata alla Pedemontana dovrebbe risultare fondamentale per assicurare i costi ma soprattutto i benefici di tale opera. Il suo annullamento (al di là di chi debba attribuirsi il merito) invece dimostra ancora una volta come si possa tradire il proprio territorio per delle semplici e volgari convenienze politiche. Peraltro non tenendo in alcuna considerazione gli effetti per l’intero sistema economico del nord Italia con il semplice mantenimento di un gap infrastrutturale nel Nordest.

    Le visioni compressive intese come la capacità di delineare scenari strategici e a questi far seguire le opportune scelte di investimento non rientrano nel bagaglio culturale di questo governo come dei precedenti degli ultimi vent’anni.

  • Gli istituti bancari abbandonano i distretti industriali massima espressione contemporanea del Made in Italy

    Il sistema dei distretti industriali rappresenta la formula vincente per l’unione tra capitale industriale ed umano la cui visione è proiettata ai mercati internazionali (market oriented), e quindi premiano la felice sintesi di know how industriale e umano rendendo il prodotto finale espressione della sintesi culturale attuale del nostro Paese. Questi asset industriali complessi ed articolati, per rimanere in linea con le sfide della globalizzazione, ovviamente necessitano del supporto di una pubblica amministrazione efficiente e veloce ma soprattutto di un sistema creditizio che fornisca gli strumenti finanziari necessari a supportare gli investimenti con il fine di mantenere il livello “premium” dei prodotti espressione degli stessi distretti.

    Da una recente ricerca della First Cisl (sindacato dei lavoratori del sistema bancario e finanziario) emerge come dalla esplosione della crisi del 2008 mediamente i distretti industriali paghino una diminuzione degli sportelli bancari operanti nel territorio del 20%, con una parallela diminuzione del credito del 18% a fronte, viceversa, di un aumento dei depositi del 32%.

    In termini generali questi dati dimostrano come il sistema bancario stia sostanzialmente tradendo la propria funzione istituzionale in quanto a fronte di un aumento del depositi non solo non  corrisponda un aumento dei finanziamenti agli operatori del distretto ma addirittura si debba registrare una diminuzione degli affidamenti. Questa politica del sistema bancario è così l’ulteriore conferma della criticità nel suo complesso in quanto, parallelamente alla crescita dei depositi, viene avviata una politica di dismissioni immobiliari che testimonia come la crisi strutturale dell’intero sistema sia molto lontana dalla propria soluzione.

    Tornando ai numeri, espressione di questa politica di abbandono nel distretto dell’occhialeria di Belluno in testa alla classifica per redditività assieme al distretto del Prosecco di Conegliano-Valdobbiadene e del prosciutto di Parma, si registrano per il primo una calo del -25% delle filiali bancarie mentre per il secondo del -34% ed il terzo del -16%. Parallelamente si riscontrano diminuzioni dei finanziamenti al sistema industriale distrettuale del -13% in riferimento al distretto di Parma ma che arrivano a picchi del -42% a Longarone (vera culla dell’occhialeria bellunese) del -33%  a Pieve di Cadore (sempre provincia di Belluno distretto dell’occhialeria) fino a -31% nel distretto del prosecco di Valdobbiadene.

    Nei distretti del Tessile Abbigliamento di Prato e Carpi le chiusure di filiali arrivano al -29 % e -20% rispettivamente, mentre per i distretti dell’oro come Vicenza, anche a causa della implosione  della Popolare di Vicenza, si registra un calo di filiali del -25% mentre i prestiti segnano un preoccupante -29%. Risultati, del resto, simili all’altro distretto orafo di Arezzo, colpito dalla crisi di banca Etruria con calo delle filiali del -19% e degli affidamenti del -24%.

    Infine il distretto conciario del vicentino evidenza una calo delle filiali del -26% e dei finanziamenti del -23%.

    Quindi ribadendo la funzione centrale del sistema bancario, espressione di un sistema creditizio da sempre istituzionalmente finalizzato al sostegno del  sistema economico e produttivo, quale futuro si potrà mai avviare se il sistema creditizio abbandona il settore industriale ed in particolare le eccellenze dei distretti dell’occhialeria, del tessile abbigliamento e dell’agroalimentare.

    E’ evidente come il sistema bancario italiano sia ormai scollegato completamente dalla realtà oggettiva di un sistema economico industriale perennemente in competizione nel mercato globale.

    Da sempre il tessuto connettivo dell’impresa nel suo articolato complesso viene rappresentato dal sistema creditizio il quale agevola le operazioni di investimento e sconta crediti a medio e lungo termine. Sembra incredibile come di fronte ad una situazione del genere, che vede i principali istituti bancari italiani impegnati in operazioni di dismissione immobiliare confermative di una crisi di sistema, nessuna attenzione maggiore venga dimostrata da parte delle autorità politiche ed economiche.

    Parallelamente alla valutazione della crisi bancaria si dovrebbe affiancare un sistema normativo  statale che potesse supportare le filiere produttive italiane, le uniche che possano assicurare occupazione e retribuzione di medio ad alto livello. Il mancato supporto del sistema bancario alle eccellenze dei distretti industriali dimostra la necessità di affrontare il tema del sostegno creditizio  alla crescita proprio alla luce dei dati emersi dalla ricerca presentata. Un approccio che risulti  espressione di un’impostazione innovativa esattamente come quando si passò dal sistema bancario pubblico a quello privato, con il fine quindi di delineare il nuovo perimetro operativo di un sistema creditizio ideato e realizzato per le reali esigenze del mondo industriale ed imprenditoriale dei distretti.

    Non esiste futuro industriale ed economico per una nazione senza un adeguato sistema bancario sintonizzato con le reali esigenze, nello specifico dei distretti industriali italiani, massima  espressione contemporanea del Made in Italy.

  • The One and Only Way to Development

    A due anni dalla sua elezione, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump, con la chiusura del negoziato bilaterale con Messico e Canada, ottiene l’appoggio (inaspettato solo due anni fa) anche dei sindacati per i risultati ottenuti. Va ricordato infatti come la strategia economica dell’amministrazione statunitense  inizialmente si manifestò con una politica di riduzione del carico fiscale per le aziende al fine di incentivare gli investimenti industriali (ma anche quelli in servizi)  all’intero dei confini statunitensi. Gli effetti di questa politica fiscale si manifestarono attraverso aumenti successivi dell’occupazione (effetto degli investimenti delle aziende stesse) fino a conseguire il risultato, al momento attuale, di un tasso di disoccupazione del 3.7%. Considerato al 5% il livello di disoccupazione frizionale (espressioni fisiologica di chi cambia lavoro ed entra nel mondo per la prima volta dal lavoro) questo dato del 3.7% significa piena occupazione.

    Tale incentivazione fiscale ha trovato il pieno appoggio delle aziende le quali infatti risposero attraverso investimenti finalizzati al “reshoring produttivo” da paesi a basso costo di manodopera.

    Lo stesso compianto Marchionne riportò la produzione dei Pick Up Dodge dal Messico negli Stati Uniti mentre molte altre aziende come Wal Mart o JP Morgan e la stessa Apple hanno redistribuito il “vantaggio fiscale” attraverso bonus retributivi per tutti i dipendenti, oppure hanno attivato investimenti che produrranno nuove occasioni di occupazione di medio ed alto contenuto professionale e retributivo.

    Il risultato economico complessivo vede oggi il Pil Usa al +4,2%, nonostante la stretta sui tassi della Fed assorbita dal sistema economico statunitense senza troppi problemi. Ovviamente al di qua dell’oceano Atlantico non si è compresa la valenza economica e soprattutto la dinamica occupazionale, quindi di sviluppo, di tale politica di incentivazione fiscale la quale addirittura se applicata all’intero degli Stati dell’Unione viene intesa come una forma di concorrenza sleale quasi che il principio della concorrenza sul quale si basa il mercato globale non valesse per i singoli Stati, una realtà invece ben chiara all’amministrazione statunitense.

    Allo stesso modo in Europa venne accolta la decisione di rompere il Nafta ed avviare degli accordi bilaterali sempre dalla amministrazione Trump, già sotto accusa, sempre nella “illuminata” Europa, per la politica dei dazi che avrebbe, secondo la nomenclatura europea, affossato il “libero mercato” introducendo una deriva protezionistica. La chiusura definitiva delle trattative con il Canada invece dimostra la visione strategica, economica e di sviluppo che da sempre sottende le scelte, anche controcorrente, della amministrazione americana.

    Innanzitutto nell’accordo tra Stati Uniti e Canada vengono eliminati i dazi del 300%, che gravavano sui prodotti lattiero caseari made in Usa, dimostrando che la difesa ad oltranza dello status quo di certo non rappresenta la tutela del “libero mercato”. In tal senso infatti la dichiarazione del Primo Ministro Trudeau, il quale ha confermato un piano finanziario di sostegno agli allevatori della filiera lattiero casearia canadese, dimostra di fatto l’inesistenza del libero mercato, scelta legittima ma non proprio in linea con le visioni europee. Successivamente, per i prodotti complessi industriali l’accordo prevede ed  impone particolari requisiti perché i veicoli importati negli Usa da Canada e Messico possano essere considerati ‘duty-free’. Questi infatti  devono contenere il 75% di componenti prodotti nei tre Paesi, con un salario dei lavoratori che deve risultare minimo di 16 dollari l’ora.

    Di fatto questa scelta rinnova il concetto di concorrenza (vero mantra dei sostenitori del libero mercato senza regole) tra i vari prodotti espressione dei diversi sistemi economici nazionali.

    Partendo da questi parametri infatti la concorrenza viene spostata sul contenuto tecnico qualitativo ed innovativo, come di immagine, espressione culturale di una filiera produttiva complessa.

    L’indicazione di una soglia minima di retribuzione infatti pone le produzioni dei paesi evoluti (che si manifestano anche attraverso oneri contributivi a tutela degli occupati che in tali aziende operano) parzialmente al riparo da quei prodotti espressione di delocalizzazioni estreme in sistemi industriali privi di ogni tutela per i lavoratori come per i manufatti e quindi di dumping. Mentre nel nostro Paese, come in tutta Europa, si individuano le risposta all’invasione di prodotti espressione di dumping sociale, economico e normativo (sia in termini di sicurezza per i prodotti che per la manodopera) attraverso il concetto infantile legato al semplice aumento della produttività che da sola non può certo sostenere le nostre filiere produttive gravate da oneri contributivi impossibili da compensare con un aumento della produttività.

    La dinamica e l’evoluzione delle trattative relative alla definizione dell’accordo commerciale tra Stati Uniti e Canada dimostrano finalmente la focalizzazione dell’attenzione sulla tutela delle filiere produttive, espressione di un approccio pragmatico e non ideologico all’economia reale che tanto  negli ultimi decenni invece aveva offuscato le strategie economiche dei vari governi occidentali ed in particolare italiano ed europeo.

    L’aver individuato una soglia minima di retribuzione (16$) per ottenere il sistema “duty free” rappresenta una intelligente inversione di approccio alla gestione della concorrenza dei paesi che basano la propria forza esclusivamente sul dumping economico e normativo relativo alla tutela delle produzioni dei prodotti come degli occupati.

    Si apre finalmente una nuova visione attraverso queste scelte di politiche economiche e fiscali che sottendono tale accordo tra Stati Uniti e Canada, da sempre sostenute da chi scrive.

    La tutela delle filiere e la concorrenza possono e devono coesistere in un sistema economico/politico aperto ma, al tempo stesso, che presenti un minimo comune denominatore accettato ed applicato da chiunque operi nel libero mercato. Quindi solo così la concorrenza si può spostare e focalizzare sul contenuto complesso del prodotto e non sulla compressione e, in taluni casi, sull’annullamento dei fattori che concorrono a determinare  il costo del lavoro.

    Tutto il restante mondo economico al di fuori di questi parametri riconosciuti nell’accordo tra Stati Uniti e Canada diventa o, peggio, rimane pura speculazione di sistemi economici basati sul basso costo della manodopera e soprattutto del suo sfruttamento. Quella indicata dall’amministrazione statunitense quindi rimane l’unica via per assicurare un mercato libero basato sulla libera concorrenza in grado di porre il principio della concorrenza imperniato per il confronto tra i diversi  prodotti come  per i servizi sulla base di parametri, quali contenuto innovativo, tecnologico, qualitativo e di immagine. In altre parole si apre una finestra sulla possibilità di redigere un nuovo protocollo che permetta, una volta applicato, la libera concorrenza. Questo accordo di fatto apre una nuova fase sulle politiche per adeguare i protocolli a tutela delle filiere nazionali. La via indicata dall’amministrazione Trump dimostra esattamente quale sia l’unica e la sola via per lo sviluppo.

    The One and Only Way to Development, appunto…

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