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  • Pitti Uomo, la realtà dei numeri supera la poesia

    Mentre tutto il mondo economico e politico è avvinto dalla discussione sugli effetti della Flat Tax o di un  eventuale quanto disastroso ritorno alla Lira, il mondo reale continua la propria  dura attività  nel mercato globale senza alcun aiuto da parte del medesimo sistema politico.

    I dati emersi dall’ultimo Pitti Uomo a Firenze risultano infatti assolutamente esplicativi ed indicativi delle caratteristiche peculiari dell’asset industriale come motore di sviluppo dell’economia italiana. Nel 2017 il settore abbigliamento ha registrato un aumento del fatturato del 3,4% crescendo quindi oltre il doppio  della media italiana (pil +1,4%). A questo, dato già di per sé importante, se ne deve aggiungere un secondo relativo all’aumento del valore della produzione italiana che registra un +1,7% confortato da un calo dell’import dello 0,8%. Questi due ultimi dati sono particolarmente confortanti in quanto sottolineano come il “reshoring produttivo” dimostri il proprio valore sotto il profilo del fatturato come  dell’occupazione. Un  argomento purtroppo  completamente dimenticato  dalla classe dirigente e politica italiana, come dimostra l’assoluta mancanza di una politica di fiscalità di vantaggio finalizzata alla riallocazione delle produzioni italiane all’interno del perimetro nazionale, una  strategia economica e  fiscale utilizzata da Paesi come Gran Bretagna, Francia,  Svizzera, Austria, Slovenia, Croazia, Repubblica Ceca, Repubblica Slovacca e all’interno del perimetro degli Stati Uniti d’America.

    Nonostante tale colpevole e forse dolosa mancanza di attenzione verso questo principale fattore come il reshoring produttivo, volano di una ripresa economica stabile da parte di tutta la classe politica ed accademica distratta da elucubrazioni economiche rappresentate dalla sharing e gig Economy, il settore abbigliamento grazie a questi numeri, corredati anche da un aumento dell’export del 5,2%, si pone all’attenzione come un modello di sviluppo. Si pensi che sommando i dati relativi alla crescita del fatturato(+3,4%) con l’aumento  del valore della produzione italiana sul fatturato totale(+1,7%) si arriva ad un incremento del 5,1% complessivo. Una addizione forse contabilmente non corretta ma che indica la via dello sviluppo economico nazionale ricordando il valore del fattore moltiplicatore legato e scaturito da un nuovo posto di lavoro nel settore dell’Industria (1 nuovo lavoratore industria sviluppa 2,7 nel settore logistico e manutenzione).

    In considerazione poi del fatto che oltre l’80% delle aziende presenti al Pitti abbia un fatturato inferiore ai 50 milioni dimostra  ancora una volta come queste Pmi (che nel complesso italiano rappresentano il 95% delle imprese industriali italiane) siano il vero  bacino che possa assicurare uno sviluppo stabile con un buon livello di occupazione anche sotto il profilo retributivo. Un asset industriale dimenticato ancora una volta dal sistema bancario che aumenta la disponibilità dei crediti per le grandi imprese mentre continua a diminuire l’accesso al credito per le PMI (in più da sempre sottocapitalizzate) che unito all’assoluto disinteresse dalla classe politica ed accademica per il “reshorig produttivo” ci indica chiaramente e senza possibilità di giustificazione il quadro della considerazione che questo sistema industriale riceve.

    Un altro fattore molto importante che emerge dall’ultimo Pitti riguarda un aspetto purtroppo dimenticato delle variegate strategie economiche di sviluppo, tutte incentrate sulla innovazione di processo (leggi industria 4.0) le quali hanno ottenuto anche notevoli agevolazioni fiscali. Le aziende presenti a Pitti e che crescono oltre due volte il PIL nazionale dimostrano invece come risulti  fondamentale l’innovazione di prodotto unita alla modifica delle tempistiche organizzative, condizionate dalle aspettative di un mercato sempre più veloce ma che il sistema tessile/abbigliamento dimostra di avere già comprese ed istituzionalizzate nella organizzazione dell’impresa stessa.

    Ancora una volta il sistema tessile abbigliamento dimostra il ritardo culturale di una classe politica e dirigente che non intende offrire nessun tipo di attenzione a questo settore considerato ancora Old Economy. Un atteggiamento talmente miope che li porta quasi a snobbarle, anche solo in relazione alle dimensioni dell’azienda media tipica di questo settore. Ovviamente pur essendo quindi il tessile/abbigliamento molto più avanti e addirittura per molti aspetti in anticipo rispetto agli innumerevoli modelli economici di sviluppo proposti attraverso i media anche questo settore risente di crisi aziendali importanti anche sotto il profilo occupazionale come per esempio la vicenda Cantarelli. Una storica azienda, espressione di una cultura manifatturiera unica, che ha pagato una gestione commissariale assolutamente inappropriata e professionalmente ingiustificabile la quale non ha nemmeno saputo utilizzare gli ammortizzatori sociali (cassa integrazione per esempio a rotazione) per riportare ad un minimo  equilibrio finanziario anche solo temporaneo l’azienda aretina.

    In questo senso si ricorda come Leonardo, considerata il fiore all’occhiello dell’industria ad alta tecnologia, abbia potuto usufruire per mantenere il proprio equilibrio finanziario di 1.200 prepensionamenti, di fatto scaricando sui conti pubblici le proprie diseconomie strutturali.

    Il commissario designato dal ministero per la gestione di Cantarelli ha invece accompagnato con la propria incapacità all’inevitabile fallimento di un punto di riferimento dell’abbigliamento formale mondiale con la complicità e probabilmente anche a causa della  miopia, o quantomeno della  superficialità, degli enti locali e soprattutto dei sindacati.

    Tornando al quadro generale, i numeri della crescita del 2017 dimostrano come il tempo delle poesie (termine utilizzato in antitesi al valore dei numeri) risulti assolutamente superato dalla realtà che l’ultimo Pitti Uomo di Firenze, nella sua variegata innovazione di prodotto, ha dimostrato. Un’innovazione di prodotto che presenta dei margini di miglioramento incredibili se posta in relazione ad una successiva innovazione di processo. In questo senso però risulta fondamentale ricordare come la seconda, cioè l’innovazione di processo, non presenti alcun senso se non successiva o quantomeno contemporaneo ad una precedente innovazione vincente di prodotto. Pitti Uomo, attraverso le proprie PMI, ha dimostrato esattamente questo. L’innovazione parte dal prodotto. Sempre.

  • GDPR: la nuova privacy

    Il 25 maggio entreranno in vigore le nuove norme sulla privacy così come previste dal Regolamento UE 2016/679 emanato il 27 aprile 2016.

    Pur non essendo materia di diretta pertinenza di un professionista specializzato in materie societarie e fiscali, ho deciso di scrivere questo breve intervento dopo essermi reso conto dell’assoluta disinformazione che, a un mese circa dall’introduzione, ancora è diffusa tra le Piccole e Medie Imprese italiane.

    L’acronimo misterioso GDPR significa General Data Protection Regulation e già dallo stesso capiamo la portata della normativa e il suo ampio ambito di applicazione: Regolamento generale per la protezione dei Dati.

    La normativa è quindi destinata a tutti, nessuno escluso, ad eccezione di coloro che trattano i dati in qualità di privati cittadini. Nessun adempimento dovrà quindi essere effettuato da coloro che gestiscono la propria agenda privata, il proprio account privato sui social network, ecc. Dovranno, invece, porsi il problema e mettersi in compliance tutti i soggetti esercenti attività di impresa, arte o professione, dal piccolo artigiano alla grande azienda, dal medico alla grande clinica per comprendere notai, avvocati, commercialisti, architetti, ecc.

    Il nuovo approccio è globale e integrato, nel senso che abbraccia tutti i vari ambiti del trattamento dei dati e si basa sui rischi reali ed effettivi insiti nella gestione dei dati durante la propria attività imprenditoriale, professionale o artistica.

    Per questo motivo non ci saranno ricette preconfezionate e tutti dovranno affrontare una preliminare fase di mappatura dei propri processi e dei dati di cui vengono in possesso.

    L’approccio, come detto, dovrà basarsi sul rischio: più il rischio sarà alto e maggiori dovranno essere le misure per scongiurare l’uso fraudolento dei dati. Il dato viene distinto in “sensibile” e “comune”. I dati sensibili sono quelli che, notoriamente, possono essere utilizzati per discriminare gli individui appunto in base a determinate caratteristiche (abitudini sessuali, origini, opinioni politiche, ecc). E’ intuitivo come, l’approccio basato sul rischio, non possa prescindere dalla corretta individuazione del tipo di dato trattato.

    Ancora, i dati “anonimi” avranno un rischio inferiore rispetto ai dati “personali” che potranno essere “anonimizzati” per ridurre il rischio di trattamento. Un ulteriore modo, previsto dallo stesso regolamento, per ridurre i rischi è quello di cifrare gli archivi di dati in modo da rendere più difficoltoso il loro utilizzo in caso di attacco o di “data branch”. Una volta mappati i dati e i relativi trattamenti si potranno individuare idonee misure di sicurezza calibrate all’effettivo grado di rischio.

    In effetti, la normativa non prevede delle misure minime, cosa che ci può lasciare un po’ disorientati nell’applicazione pratica, ma lascia libere le imprese di dotarsi di idonee misure di sicurezza calibrate sul rischio individuato. All’interno del GDPR vengono consigliate alcune soluzioni per ridurre i rischi quali, come abbiamo già detto, la cifratura dei dati. Ben visti saranno quindi l’utilizzo di archivi cifrati, di firwall, di antivirus, di password di protezione, ecc.

    Un altro aspetto importante sarà quello delle policy e dei processi aziendali che dovranno individuare i soggetti preposti al trattamento dei dati che dovranno essere dotati di appositi incarichi e deleghe nonché di adeguata formazione. L’informativa al trattamento dei dati e il relativo consenso, cavallo di battaglia della vecchia normativa, non spariranno ma dovranno essere sicuramente adeguate. Dovrà essere specificato, ad esempio, il tipo di trattamento effettuato e il tempo per il quale il dato verrà “storicizzato”.

    Tutto ciò cosa implica? Che non si potrà far riferimento a dei minimi preconfezionati, ma bisognerà svolgere la fase di mappatura dei dati, di ricognizione dei rischi, di modalità di trattamento e di identificazione delle misure di sicurezza adottate lasciando traccia dei processi logici e tecnici seguiti in modo da riuscire a sostenere la bontà del proprio operato in caso di controlli delle autorità competenti o, peggio, in caso di eventi dannosi cagionati a terzi e conseguenti richieste di risarcimenti danno.

    E sì, perché i rischi patrimoniali non possono essere sottovalutati: si va da sanzioni che possono arrivare fino a 20 milioni di euro (avete capito bene….) a richieste danni da cifre astronomiche in caso di uso fraudolento di dati o di sottrazione degli stessi.

    Poco meno di un mese di tempo per adeguarsi: il tempo non è molto ma probabilmente sufficiente per la maggior parte delle PMI che potranno avvalersi del supporto di specifici consulenti e di programmi informatici che aiuteranno nel raggiungere la compliance alla normativa, che, come abbiamo visto, non si riduce alla redazione di banali documenti preconfezionati ma deve prevedere un’analisi di mappatura dei trattamenti dei dati, dei rischi e di individuazione delle misure di sicurezza ritagliate su ogni specifica realtà.

  • Le favole italiane e quelle estere

    Ancora oggi le forze politiche si illudono, e allo stesso tempo illudono i propri elettori, che quanto  promesso in campagna elettorale verrà realizzato nel breve e nel medio termine come il

    reddito di cittadinanza o di inclusione e la  Flat Tax. Tutti stupendi termini assolutamente privi di ogni copertura finanziaria per chiunque conosca l’andamento della spesa pubblica italiana e soprattutto la corsa del debito che cresce a 4463 euro/secondo, quindi circa 11 miliardi al mese, 130 all’anno, ad una velocità esattamente doppia rispetto a quella del 2014 che era di 2210/secondo.

    Il raddoppio di questa velocità è determinato dalla assoluta mancanza di controllo della spesa stessa e da una serie di azioni dei governi che hanno aumentato la spesa pubblica (finanziata a debito) per coprire le varie politiche relative al Jobs Act e agli 80 euro: una vera forma di politica vetero feudale. Viceversa, si cominciano a delineare le direttive degli organi internazionali relativamente alla strategia per rimettere sotto controllo la finanza pubblica italiana.

    Circa un paio d’anni fa passò assolutamente inosservata e inascoltata un’intervista dell’attuale presidente del Fondo Monetario Internazionale Christine Lagarde la quale indicava in una patrimoniale da circa 4/500 miliardi basata essenzialmente su un prelievo del 20% sui conti correnti depositati presso le varie banche oppure attraverso una patrimoniale pesantissima la via per poter riportare sotto controllo il rapporto tra debito e Pil attorno ad un più accettabile 110-115%.

    Proprio pochi giorni fa Vitor Gaspar, direttore del dipartimento fiscale del Fmi, ha delineato in una manovra più articolata che si basi sulla riduzione del cuneo fiscale, contemporaneo all’aumento dell’IVA, da sommare ad una “patrimoniale sugli immobili” (proposta attraverso l’aggiornamento dei rendimenti catastali e di conseguenza di un aumento della pressione fiscale sugli immobili) la via per riportare sotto controllo la finanza italiane e soprattutto il debito pubblico in rapporto ad un Pil che cresce la metà di quello spagnolo, tanto per fare un esempio.

    Va ricordato tuttavia che il cuneo fiscale, cioè la differenza tra il reddito percepito dai lavoratori e  quanto invece pagato dall’azienda, quindi la sua riduzione appunto, non abbia alcun effetto  sul reddito disponibile dei lavoratori, quando invece si potrebbe utilizzare adattandolo alla realtà italiana: come esempio la riduzione delle imposte sugli utili d’impresa come la manovra di Trump  che ha innescato una corsa ai premi per i propri dipendenti  e  nuovi piani di investimento da parte delle aziende statunitensi proprio a causa dell’aumento dei dividendi per le aziende statunitensi.

    Entrambe queste strategie italiane e le due del Fondo Monetario Internazionale partono entrambe  dalla leva fiscale utilizzata per riequilibrare una spesa incontrollata. Queste presentano dei limiti evidenti e macroscopici. Il primo è che si continua a riversare risorse finanziarie all’interno di un serbatoio contenente la spesa pubblica senza intervenire sull’erogazione della stessa. Un secondo limite, forse ancor più grave di queste strategie, è relativo all’incapacità di affrontare  la questione principale relativa al rapporto debito PIL, individuabile nella crescita economica e quindi del PIL.

    Viceversa basterebbe una minima analisi approfondita  per comprendere come la nostra economia non possa svilupparsi solo attraverso gli incentivi fiscali, come ampiamente dimostrato solo venerdì scorso con la classifica del livello occupazionale delle nazioni europee che ci vede ultimi davanti solo alla Grecia.

    A fronte infatti di un aumento negli ultimi anni della spesa e parallelamente del debito anche per la copertura finanziaria degli stessi incentivi fiscali, a febbraio la produzione industriale  risulta in flessione ribadendo l’inutilità di queste manovre che non assicurano nessun effetto sull’economia reale come i dati sempre in flessione all’andamento dei consumi dimostrano. Un aumento dei consumi parallelamente ad una conseguente inflazione da crescita della domanda ma inferiore al 2% rappresenta infatti l’unico parametro attraverso il quale i cittadini dimostrano una maggiore o, meglio, la percezione di una migliore situazione economica e soprattutto un atteggiamento positivo relativamente al proprio futuro. Un aumento del PIL non confermato da un aumento di consumi risulta essenzialmente legato a fattori fiscali e viene pagato proprio dai cittadini i quali vedono ridurre il proprio potere economico in relazione all’aumento del livello dei prezzi. Nello specifico italiano poi si è aggiunto l’effetto del ricorso a contratti a tempo determinato che rappresentano circa il 91% .

    Un dato che comunque premia ancora una volta la valenza del  sistema industriale in quanto i contratti a tempo indeterminato in questo settore rappresentano il 23% del totale. Considerando la media nazionale vicina al 9% logica conseguenza vuole che il settore servizi, punto di riferimento della nomenclatura economica e governativa degli ultimi trent’anni, non utilizzi sostanzialmente mai un contratto a tempo indeterminato.

    Tornando all’attuale situazione, paradossalmente la produzione industriale torna ad essere negativa nel mese di febbraio come l’inflazione curva sotto il punto percentuale. In pratica si stanno ricreando le condizioni per una deflazione legata essenzialmente alla minore disponibilità economica dei cittadini (quindi una terribile deflazione da domanda)  che non diventano più consumatori ma semplicemente produttori di beni per i quali nessuno può poi essere a sua volta un consumatore. In altre parole, dal 2012 sono passati sei anni assolutamente inutili sotto il profilo della crescita economica in quanto il debito risulta aumentato di oltre 330 miliardi rispetto al novembre 2011 che segnò l’arrivo del governo Monti individuabile come l’inizio di  questa disastrosa spirale.

    Tornando quindi alle ricette diametralmente opposte dei politici italiani che vorrebbero formare un governo  rispetto a quelle del Fondo Monetario che continua a penalizzare la domanda interna, entrambe per rimettere sotto controllo il debito e la spesa pubblica ed offrire uno scenario di sviluppo economico all’Italia, rappresentano la sublimazione di approcci culturalmente insufficienti  alla necessità di trovare e di individuare le strategie di crescita economica del nostro Paese.

    In tal senso va ricordato infatti che un sistema economico non può essere solo rappresentato dai produttori di beni e servizi (l’offerta) ma anche di consumatori (la domanda) ai quali va restituita una parte della ricchezza prodotta diminuendo  la pressione fiscale esercitata in un modo indegno anche dagli enti locali che rappresentano essi stessi una figura non secondaria della disastrosa gestione delle finanze pubbliche, nonostante la supposta vicinanza rispetto al territorio che possono vantare rispetto allo stato centrale.

    Pur essendo così lontane queste due ricette, entrambe figlie della fantasia e di un approccio all’economia degno del Monopoli, si assomigliano per il carattere assolutamente fantasioso e per il disprezzo delle persone che dovrebbero subire le conseguenze. La favola italiana dimostra essenzialmente il valore della fantasia, quella del Fondo Monetario invece risulta una tragedia shakespeariana che coinvolge gli spettatori e cittadini.

    Sembra incredibile come ancora oggi si continuino a sprecare risorse finanziarie dal 2012, a partire  dal governo Monti fino all’attuale governo Gentiloni e anche con il prossimo governo in via di definizione. Purtroppo nulla risulta assolutamente cambiato nelle logiche della determinazione e della individuazione delle priorità da finanziare anche  rispetto ai rami secchi da tagliare nella spesa pubblica.

    Le favole infatti proposte dagli opposti schieramenti politici dimostrano essenzialmente la più assoluta irresponsabilità di una classe politica talmente miope da far diventare le favole del Fondo Monetario Internazionale le uniche realizzabili sul campo. La controprova oggettiva ed indiscutibile viene rappresentata dal triste  sorpasso della Spagna sul nostro Paese in relazione al Pil ed al reddito pro-capite. Un sorpasso che meriterebbe un’analisi molto più approfondita  relativa al fallimento di una classe politica dirigente di  Confindustria degli ultimi venticinque anni come delle associazioni di categoria e della classe accademica certificata da questo triste ed innegabile disastro. Un’analisi che non viene neppure approcciata non per pudore o altro ma semplicemente per incapacità nella individuazione delle ragioni stesse che l’hanno causata.

  • Il sorpasso

    Una strategia economica suicida che non ha mai posto al centro della ripresa economica lo sviluppo dell’economia industriale ha conseguito, purtroppo,come inevitabile risultato il sorpasso della  Spagna nel calcolo del Pil e del reddito pro capite. In questo senso infatti andava interpretato il differenziare di spread tra l’Italia e la Spagna (ormai consolidato da molte stagioni) il quale invece in Italia dai dotti economisti, sia liberisti che conservatori o massimalisti, veniva interpretato come una mossa speculativa della perfida Finanza. Come non ricordare la contesa mediatica che vedeva anni addietro il primo ministro Prodi guerreggiare con Zapatero quando il secondo affermava di aver superato il PIL italiano. A distanza di una ventina d’anni purtroppo l’inefficienza come i limiti culturali di una classe politica incompetente unita ad una politica fiscale suicida senza una minima visione strategica espressa da tutti i governi degli ultimi vent’anni hanno portato a questo terribile risultato.

    Un “traguardo” attribuibile ad  un ceto politico che ha sempre favorito le clientele, i gruppi elettorali e di appoggio penalizzando professionalità, competenze esterne ed interne alla pubblica amministrazione. Ancora oggi infatti si continua a intravedere dal recupero dell’evasione fiscale la leva per riportare in equilibrio i conti finanziari e soprattutto del debito pubblico quando invece tutti gli studi economici individuano nella inefficienza della pubblica amministrazione la ragione principale del nostro declino.

    Una logica economica e soprattutto fiscale che ha sempre individuato prima nel commercio indipendente, successivamente nelle PMI, delle fonti di semplice evasione fiscale e non fornitori di percentuali importanti del PIL e quindi di ricchezza ed occupazione. Da allora ad oggi il mondo è radicalmente cambiato come la classe politica che ha governato la Spagna. Questa stessa considerazione non si può esprimere certamente per quanto riguarda l’Italia.

    Basterebbe questo triste risultato perché la classe dirigente, a cominciare Confindustria, assieme a tutti i partiti politici e le associazioni di categoria, compresi i sindacati, e non ultimo il mondo accademico che ha sempre dimostrato la propria miopia nell’elaborazione di queste strategie economiche che hanno ottenuto questo disastroso risultato, a dover  indurre, come atto di una rinnovata presa di coscienza nazionale, a rassegnare le proprie dimissioni per manifesta indegnità  ed incompetenza. In un paese che perde posizioni di importanza economica questo rappresenterebbe il primo argomento relativamente alle consultazioni ed ai programmi di un governo nascente.

    Viceversa il mondo politico unito al sistema mediatico si preoccupano dei veti incrociati, espressione di personalità politiche che esprimono in questo modo la propria incapacità nell’elaborazione di visioni complessive.

  • La design economy eccellenza italiana

    Ormai è abbastanza noto: il design è un vero e proprio marchio di fabbrica del made in Italy; una eccellenza che contribuisce all’attrattività dei nostri prodotti a livello globale. Basti pensare che grazie al design, il made in Italy è oggi il terzo marchio più conosciuto al mondo (dopo Coca Cola e Visa).  La “design economy” si conferma una delle più solide strategie anticrisi: delle oltre 179.000 imprese europee di design, una su sei è italiana.

    Questo settore conta 29mila aziende in tutto il Paese, 48mila addetti e un fatturato di circa 4,3 miliardi di euro. Inoltre le imprese italiane attive nel settore design si concentrano proprio nelle aree in cui è più alta la presenza delle filiere di eccellenza del made in Italy. Questo scenario incoraggiante è confermato dai dati raccolti nel secondo rapporto Design Economy realizzato dalla Fondazione Symbola (che dal 2017 ha avviato un osservatorio sul settore) con il rapporto ‘Design economy’, presentato alla Triennale di Milano da Ermete Realacci e Domenico Sturabotti, rispettivamente presidente e direttore di Fondazione Symbola, Stefano Boeri, presidente della Triennale, e Stefano Bordone, vicepresidente di FederlegnoArredo.

    Come spiega il report “Design economy”, il nostro Paese mantiene un ruolo di leadership nel design. A cominciare dal numero di imprese attive: 29 mila, più delle circa 26 mila tedesche e francesi, delle oltre 21mila inglesi, delle 5mila spagnole. Con 4,3 miliardi di euro di fatturato del design, pari allo 0,3% del Pil, l’Italia è seconda tra le grandi economie europee dopo il Regno Unito (7,8 miliardi), davanti a Germania (3,8), Francia (2,1) e Spagna (1,1).

    Dati in evidente crescita soprattutto negli ultimi cinque anni: +1,5% per occupazione e +3,6% per fatturato.

    Anche per quanto riguarda l’innovazione non stiamo certo a guardare, visto che l’Italia si colloca seconda per numerosità di brevetti di design, eccellendo in ben 22 delle 32 categorie aggregate previste nella classificazione ufficiale Locarno. La ricerca prende in esame le imprese italiane che producono beni e servizi di design: dall’arredo alla moda, dall’architettura alla comunicazione, fino agli ambienti digitali.

    Una conferma della frammentazione del tessuto industriale che, sebbene sia spesso vista come una delle cause della scarsa competitività dell’economia italiana, in questo caso rappresenta una forza e un valore aggiunto.

    “Le imprese italiane, piccole e piccolissime, hanno una flessibilità e una propensione al rischio che le rende uniche nel panorama internazionale – osserva Stefano Bordone, vicepresidente di FederlegnoArredo – e perciò attrattive anche per i designer e i progettisti di tutto il mondo”. “Il Report dimostra la forte compenetrazione tra design e processo produttivo, e tra design e innovazione” fa notare Realacci. “Il design non è legato solo all’estetica ma anche alla capacità di risolvere problemi complicati. È strategico per sviluppare una nuova generazione di prodotti che rispondano, oltre al criterio della bellezza, anche a quelli della tecnologia e della sostenibilità ambientale, nel segno dell’economia circolare”.

    I dati fotografano quindi un sistema estremamente competitivo che, a differenza di altri settori, riesce anche a essere estremamente attrattivo per i migliori talenti. Ne sono testimonianza i tanti designer internazionali che lavorano per i marchi del made in Italy, ma anche la presenza radicata e diffusa su tutto il territorio nazionale di istituti di formazione che attraggono studenti da tutto il mondo. Dalle 59 realtà (tra scuole, università e accademie) che rilasciano titoli di studio in discipline del design, nel 2016 sono usciti 7.094 nuovi designer diplomati, in aumento del 9% rispetto al 2014. Non stupisce che la maggior parte di questi istituti si trovi a Milano, una delle città europee con la più alta concentrazione di scuole di design al mondo. Milano è del resto anche la città italiana con il maggior numero di aziende del design (l’11,6% del totale nazionale), seguita da Torino e Roma, e di addetti (il 16,4%).

  • Italian sounding: cui prodest

    Cos’è l’Italian sounding, ma soprattutto, in rapporto alla sua peculiarità, a chi e per quale motivo porta dei vantaggi economici questa pratica economica fraudolenta anche per il solo utilizzo concettuale a fini miseramente propagandistici?

    Nel 2015 il governo Renzi  affermò di aver inserito a bilancio 34 milioni per la lotta alla contraffazione dei prodotti italiani definiti appunto “italian sounding” che portano un danno economico per le aziende italiane di oltre 54 miliardi di euro. In questo contesto infatti va considerato come ogni dieci prodotti venduti all’estero che presentano nomi italiani sei risultino assolutamente realizzati al di fuori dell’Italia. Da allora, cioè dall’anno della dichiarazione del ministro, tuttavia non un’azione risulta intrapresa dal governo italiano a tutela dei prodotti italiani in qualche mercato estero. Anche perché va ricordato che l’ottimo governo Monti, con il pregiato ministro Passera, aveva precedentemente smantellato ogni struttura di controllo presente sui mercati internazionali. Mancando il monitoraggio ovviamente risulta difficile avviare qualsiasi azione  finalizzata alla tutela dei prodotti italiani clonati in modo miserevole da aziende e catene di distribuzione internazionali.

    Nel  contesto italiano e della mera e superflua dialettica politica governativa ecco come il concetto di italian sounding venga trasformato dal governo Renzi semplicemente in un’idea, o meglio un’icona, che successivamente viene riportata “sic et simpliciter” priva di ogni sviluppo reale dal sistema mediatico. Ulteriore prova di questa assoluta negligenza governativa deriva dal fatto che le uniche azioni per la tutela dei prodotti di aziende italiane le abbiano intraprese Zegna, Kartell e Ferrero le quali hanno dovuto attingere alle proprie risorse interne per tutelare i propri interessi e diritti.

    L’Italian sounding tuttavia risulta anche quel fenomeno odioso di imitazione, se non addirittura clonazione spesso grossolana, dello stile di vita italiano che viene venduto nei mercati internazionali dell’agroalimentare, del tessile-abbigliamento, fino  all’arredamento giustificati nella scelta fraudolenta dal valore culturale che ogni prodotto italiano esprime quale risultato finale di una filiera complessa, quindi come sintesi di know how industriale, storia e professionalità: la massima espressione del Way of Life unico al mondo che solo il Made in Italy esprime.

    Esiste poi una terza forma di  italian sounding, peraltro legittima, come quella delle aziende estere che hanno rilevato le nostre PMI italiane amate in ogni parte del mondo. Successivamente all’acquisizione, il prodotto viene completamente svuotato di ogni contenuto valoriale culturale con il fine di trasformarlo successivamente in un Brand vuoto nel quale inserire ciò che viene considerato dall’azienda stessa più idoneo a soddisfare le proprie esigenze di vendita.

    In questo senso infatti va inquadrata l’operazione della Nestlé di chiudere il centro di ricerca relativo ai preparati ed ai sughi situato a Villa Fratti di Sansepolcro in provincia di Arezzo. La nuova sede  per la ricerca di preparati e sughi che verranno venduti con il marchio italiano Buitoni (quindi ancora oggi una delle massime espressioni nel settore dell’agroalimentare  industriale) verrà collocata nella città di Solon nello Stato dell’Ohio, Stati Uniti. Tutti i mercati mondiali quindi potranno acquistare dei prodotti sintesi della creatività e della competenza statunitensi che verranno proposti con un brand espressione invece della cultura italiana.

    Una scelta certo legittima di un’azienda la quale ovviamente deve cercare marginalità e soprattutto strategie in rapporto alle opportunità offerte e ricercate anche attraverso le acquisizioni. Tuttavia come non ricordare l’entusiasmo da parte della classe politica e di quegli imprenditori trasformatisi in piazzisti che definirono questa campagna vendita da parte delle multinazionali estere in relazione alla nostre PMI. Una stagione iniziata tra la fine degli anni ‘80 e ‘90 e che ha avuto un fortissimo incremento degli ultimi 10 anni avendo visto moltissimi marchi dell’agroalimentare italiano passare in mano straniera. Allora come oggi questa campagna acquisti veniva e viene definita da parte degli economisti e dei politici italiani come una campagna di forte internazionalizzazione che avrebbe assicurato ed dovrebbe consentire anche oggi un futuro di sviluppo alle stesse aziende italiane. Affermazioni grossolane e superficiali, allora come oggi, che dimostrano come la storia economica italiana ed internazionale non abbia ancora insegnato nulla. Come non ricordare una classe politica ed imprenditoriale la quale invece di affrontare le difficoltà di una gestione di queste aziende abbia preferito supportare la loro vendita  alle multinazionali spacciandola spudoratamente come una grande risorsa per il territorio italiano e per l’economia  italiana in generale.

    Nel prossimo futuro quindi il mondo conoscerà una nuova forma di Italian sounding, peraltro assolutamente legittima, che vedrà un marchio italiano associato ai prodotti di ispirazione statunitense. Francamente quest’ultima rispetto alle altre due forme di Italian sounding che coinvolgono operatori industriali disonesti e compagini governative inette e probabilmente anche poco competenti rappresenta quella meno insopportabile.

  • I PIR: conoscerli per investire in modo consapevole

    Approdati sulla scena italiana con la legge di bilancio per il 2017, i PIR possono rappresentare una valida alternativa per i piccoli risparmiatori italiani. A più di un anno dal loro varo, ai più sono ancora sconosciuti in tutto o in parte comportando potenziali distorsioni nel loro utilizzo. Cercheremo, con questo breve intervento, di colmare tale lacuna tratteggiandone i caratteri salienti, evidenziandone le opportunità e i rischi.

    Innanzitutto, sebbene per il nostro Paese rappresentino una novità, lo stesso non può dirsi in termini assoluti avendo noi mutuato l’istituto da Paesi stranieri quali la Francia e il Regno Unito dove strumenti analoghi hanno visto la luce parecchi anni or sono. I Piani Individuali di Risparmio, da cui l’acronimo PIR, dovrebbero consentire di veicolare una parte del risparmio delle famiglie verso le aziende a media capitalizzazione operanti in Italia con un duplice obiettivo: incentivare il risparmio e garantire risorse finanziarie alle PMI italiane, notoriamente sottocapitalizzate e dipendenti dal sistema bancario, che sono state particolarmente sferzate dagli anni di crisi e dal protrarsi dei fenomeni di credit crunch che hanno caratterizzato l’ultimo lustro.

    I PIR sono quindi un “contenitore” che raccoglie al suo interno investimenti in strumenti finanziari qualificati. Il contenitore può assumere svariate configurazioni: OICR, fondo comune, assicurazione…; gli strumenti finanziari raccolti al loro interno vengono definiti “qualificati” se rispettano determinati parametri. A questo punto l’algoritmo è completo e discendono importanti agevolazioni fiscali: detassazione dei redditi di capitale e dei redditi diversi di natura finanziaria.

    I soggetti beneficiari della disciplina di favore sono le persone fisiche residenti nel territorio dello Stato italiano che detengono le partecipazioni nel PIR non in regime di impresa (detto in altri termini: i risparmiatori italiani).

    Quanto agli aspetti oggettivi, il PIR per essere “conformi” alla normativa e garantire i benefici fiscali deve rispettare i seguenti parametri:

    1. L’importo che il risparmiatore destina al PIR non può eccedere i 30.000 euro annui fino alla somma complessiva di euro 150.000;
    2. L’investimento deve essere mantenuto per almeno 5 anni. E’ possibile disinvestire durante l’holding period purchè si proceda a reinvestire in uno strumento qualificato entro i successivi 90 giorni;
    3. Il patrimonio complessivamente investito dal PIR per almeno 2/3 dell’anno deve rispettare i seguenti vincoli di destinazione:
      1. Almeno il 49% in strumenti finanziari qualificati (equity o debt) di imprese residenti in Italia o in stati membri UE o in Stati SEE con stabili organizzazioni italiane;
      2. Almeno il 21% in strumenti qualificati di imprese italiane non negoziate nel FTSE MIB (o indici esteri equivalenti) o di imprese estere (UE o SEE) con stabili organizzazioni in Italia;
      3. Il restante 30% può essere investito anche in strumenti non qualificati di imprese estere (UE o SEE) anche senza stabile organizzazione in Italia.
    4. Le somme o i valori destinati nel piano non possono essere investiti per una quota superiore al 10% del totale in strumenti finanziari di uno stesso emittente o stipulati con la stessa controparte o con altra società appartenente al medesimo gruppo emittente.

    Da un punto di vista squisitamente pratico, il risparmiatore, per investire in PIR dovrà rivolgersi ad un intermediario abilitato (banche, assicurazioni, OICR) che possa garantire l’applicazione del regime fiscale del risparmio amministrato. Tipicamente le somme saranno segregate e investite nel rispetto dei vincoli illustrati. A questo punto, essendo il PIR conforme, consentirà, alla maturazione del quinquennio, di conseguire l’esenzione dalle imposte sui redditi di capitale o sui redditi diversi realizzati (l’eventuale decesso del risparmiatore durante l’holding period non comporta la tassazione dei redditi maturati sino alla data di apertura della successione).

    Non di poco conto sono quindi le agevolazioni concesse considerando che l’imposta sostitutiva su questo tipo di redditi è del 26%. Se ciò è vero, per valutare attentamente la reddittività con strumenti alternativi, occorre contrapporre i rendimenti (netti per definizione essendo esclusi da imposte) ai costi complessivi di gestione che possono raggiungere soglie significative (i valori medi sono: commissione di gestione 1.5%, commissione di ingresso del 2.5% – fonte sole 24 ore 12 febbraio 2018) per non parlare delle commissioni di performance che, laddove previste, si attestano in un range compreso tra il 10% e il 20%.

    Un altro aspetto che il risparmiatore deve attentamente ponderare è il circoscritto perimetro di investimento del PIR che comporta un’elevata concentrazione del rischio in una circoscritta area geografica. A tale proposito, per una corretta diversificazione del rischio del proprio portafoglio, sarà opportuno affiancare altri strumenti finanziari in grado di bilanciare opportunamente l’esposizione.

    Si segnala ancora come non sia imposto dalla legge nessun obbligo di disclosure alle aziende target con riferimento ai propri programmi di investimento. Lacuna, questa, che sarà necessariamente colmata dal mercato che, efficientemente, privilegerà gli investimenti nelle realtà sane, maggiormente competitive, che garantiscano visibilità sui propri programmi di investimento, sui propri budget e sui relativi scostamenti con i risultati conseguiti. In pratica sarà verosimile che i gestori dei PIR analizzeranno con attenzione le prospettive delle varie aziende privilegiando gli investimenti in quelle con maggiori rendimenti attesi.

    Anche le aziende di medie dimensioni dovranno quindi aggiornarsi per poter beneficiare dei capitali esterni che i PIR potranno apportare realizzando, in maniera compiuta e definitiva, quel salto di qualità “manageriale” che, ancora oggi, in alcune realtà del nostro Paese manca.

    Per concludere: bene i PIR che consentono di convogliare risorse alle PMI, opportunità per i risparmiatori che possono beneficiare di risparmi di imposta, ma non si lascino, questi ultimi, abbagliare e confrontino i rendimenti attesi con i costi e soprattutto non dimentichino il rischio, più o meno elevato, insito in questi strumenti finanziari.

  • Profumo di monopolio

    Ed alla fine, com’era inevitabile, Amazon comincia ad aumentare le quote dell’abbonamento Prime del 80% avendo raggiunto, attraverso l’aggressività delle proprie politiche commerciali, una posizione di assoluto predominio. Quello che era stato indicato come la forma più moderna e democratica, quindi più interessante, della distribuzione da parte di tutti gli economisti e docenti europei sta diventando un semplice e tutto sommato già conosciuta posizione di monopolista la quale, avendo sbaragliato la concorrenza fisica dei negozi e dei centri commerciali, ora può  avviare le proprie strategie di sviluppo in regime di semi monopolio.

    A nulla è valsa l’esperienza che avrebbe dovuto insegnare il passaggio dal “dettaglio indipendente”, cresciuto nel dopoguerra fino alla metà degli anni ’80 con il proprio posizionamento all’interno delle nostre città, successivamente messo in crisi dai centri commerciali come dagli stessi  negozi monomarca di quelle aziende che la stessa distribuzione indipendente aveva contribuito a far crescere.

    Allora come adesso nella logica della distribuzione, come di quella economica ed in senso generale quindi anche industriale, non può risultare vincente un unico top player distributivo il quale possa avvalersi di una propria maggiore capacità economica ma soprattutto sostenibilità finanziaria (e quindi disponibile anche a reggere diversi esercizi in perdita).

    In questo senso la normativa europea, tanto  particolareggiata nella definizione dei calibri di zucchine e vongole, ha evitato di cimentarsi nella dottrina e soprattutto nella normativa di questo nuovo canale distributivo dimostrando ancora una volta il  proprio ritardo culturale e cognitivo.

    In questo senso infatti risulta assolutamente migliore un sistema nel quale vengano tutelate tutte le più diverse manifestazione di strutture imprenditoriali nel settore industriale come anche nel settore della distribuzione. Il favore con il quale il mondo politico ed accademico hanno invece salutato il notevole spazio che l’e-commerce ha saputo avere, per le proprie capacità, nel mercato della distribuzione dimostra ancora una volta sostanzialmente la mancanza di qualsiasi tipo di strategia non solo economica ma anche distributiva nella visione del medio lungo termine da parte di tutta l’Unione Europea. Il medesimo entusiasmo dimostrato per  l’arrivo sul mercato di Uber o l’avvento per le piattaforme professionali espressione della Gig Economy, considerate e valutate positivamente solo in quanto espressione di una innovazione tecnologica senza considerare i costi sociali, politici ed economici che queste inevitabilmente comportano.

    Il fallimento della catena Trony come la chiusura di oltre 257 negozi della Foot Locker dimostrano come per contrastare qualsiasi tipo di monopolio (esistente o in via di definizione non comporta alcuna differenza), proprio al fine di tutelare il consumatore finale, la classi politiche dirigenti ed economiche italiane ed europee avrebbero dovuto avviare delle politiche che garantissero la distribuzione ordinaria in considerazione del continuo aumento della pressione fiscale la quale  inevitabilmente si trasforma in un indiretto vantaggio competitivo di questi top player legati all’e-commerce.

    In questo contesto la politica come il mondo accademico e quello ancora più variegato degli economisti non dovrebbero dimostrare di scegliere uno dei tanti contendenti in campo economico  ma viceversa assicurarsi che tutti abbiano il medesimo trattamento, in particolar modo in relazione al sistema fiscale. Di contro tanto in Italia quanto in Europa si è dato ridicolo spazio al tentativo di mistificare una semplice accisa del 3% sul fatturato dei giganti di internet come se risultasse una tassazione sull’attività di impresa. L’ennesima riprova della disonestà intellettuale attraverso la quale  poter ottenere un vantaggio finanziario per la cui nascita la Ue si manifesta disponibile a mentire sul carattere dell’origine normativa invece di definirla una legittima scelta politica.

    Tuttavia tornando al valore della conoscenza ma soprattutto della comprensione della lezione che la storia sa offrire rimane incredibile come lo stesso scenario legato ai cambiamenti distributivi degli anni ottanta, attraverso la perdita di centralità di  un dettaglio indipendente posto in difficoltà prima dai centri commerciali e contemporaneamente dai negozi monomarca, non fornisca alcun dettaglio per interpretare gli scenari a medio lungo termine. In questo senso vanno ricordate tutte le analisi assolutamente postume che avevano individuato nella scelta scellerata italiana di non intervenire attraverso un’azione imprenditoriale nel settore della distribuzione organizzata. Uno dei motivi per il quale il nostro commercio si è sempre più trovato in forte difficoltà e con lui tutte le PMI italiane. Basti  ricordare in questo senso la vendita alla Rinascente da parte del gruppo Fiat.

    La recente acquisizione invece da parte del gruppo svizzero Richmond, leader mondiale nell’alta orologeria svizzera, della piattaforma italiana Yoox dimostra invece come anche un gruppo industriale possa investire in una piattaforma digitale per completare il controllo del ciclo di vita del prodotto dalla sua ideazione fino alla commercializzazione.

    Un investimento questo nello specifico che manifesta la volontà del controllo assoluto dell’intera filiera del prodotto, dalla sua ideazione fino alla commercializzazione compresa.

    Una scelta strategica che conferma ancora una volta quanto risulti vincente il modello aziendale “in-sourching “applicato da molte aziende svizzere le quali inseriscono all’interno del perimetro aziendale tutte le aziende fornitrici di servizi e nello specifico anche le piattaforme web. Quando invece in Italia ancora adesso sia preponderante la filosofia e la struttura aziendale Out-sourcing. Un successo confermato dai record ottenuti nelle esportazioni nel biennio 2016/2017 del sistema inerziale svizzero nonostante l’apprezzamento del Franco Svizzero divenuto valuta di rifugio e che toglie anche ogni valore agli effetti delle politiche monetarie tanto care ai nostalgici della lira. Ora che negli Stati Uniti i titoli della distribuzione organizzata vengono definiti junk e col passare degli anni anche i centri commerciali cominceranno a dimostrare i propri limiti dimostrando così ancora una volta l’assoluta mancanza di una strategia distributiva che vede coinvolti anche i massimi vertici dell’imprenditoria italiana.

    L’effetto di tale mancanza come di qualsiasi tipo di iniziativa si manifesta ora attraverso le prove che fanno trapelare una posizione assolutamente dominante di Amazon. Questa fotografia che sta delineando il nuovo futuro nella distribuzione moderna potrebbe dovrebbe viceversa venire contrastata esattamente mediando, adottando ed imparando dall’evoluzione storica della distribuzione fisica.

    In altre parole le aziende italiane che producono un prodotto ad alto livello o alto di gamma della filiera italiana (in questo prendo spunto dalle top player del lusso mondiale) potrebbero e dovrebbero creare un proprio monomarca digitale e-commerce che permetta di proporre solo prodotti garantiti dalla gestione diretta della propria azienda. In altre parole dovrebbero investire dalla nascita in una piattaforma nella quale risulti evidente il controllo della filiera produttiva e commerciale, sintesi felice del made in Italy. Il tutto ovviamente all’interno di un quadro normativo che avesse la finalità di assicurare all’interno di una nuova forma di distribuzione della piattaforma commerciale la storica certificazione della filiera espressione del made in Italy.

    Se questo non fosse possibile da parte una piccola azienda dovrebbero essere le associazioni di categoria a proporre e a gestire per i propri associati queste  piattaforme che forniscano garanzia della filiera. Associazioni di categoria che invece si ostinano ad organizzare convegni uguali per temi trattati e personalità intervenute non avendo ancora compreso che le soluzioni vanno trovate nell’immediato per quanto riguarda il sostegno alle imprese all’interno di un mercato sempre più competitivo anche nel settore distributivo. Le nostre associazioni di categoria invece con questa politica “relativa alle tematiche” finalizzata alla conferma della propria centralità ottenibile più che attraverso servizi alle imprese si dimostrano incapaci di cogliere l’ennesima occasione per dimostrare le proprie potenzialità ed eventualmente una nuova  propria centralità rispetto alle problematiche economiche e nello specifico distributive.

    Il perseguire con questa politica delle associazioni di categoria imitando l’assoluto ritardo dell’Unione Europea viceversa avrà come unico effetto rendere l’attuale profumo di monopolio sussurrato di Amazon una realtà assolutamente del medio lungo termine trasformando il profumo in un odore insopportabile.

     

  • Granitiche illusioni

    Sembra incredibile come nessuno dei programmi presentati dai partiti alle prossime elezioni del  4 marzo tragga ispirazione dalle due maggiori economie mondiali come quelle statunitense e cinese.

    Probabilmente sarà passata inosservata la scelta del governo cinese di limitare le operazioni finanziarie dei gruppi nazionali al di fuori dei confini della Repubblica Popolare, con l’intenzione dichiarata ed evidente di mantenere e sviluppare gli asset interni in modo di favorire lo sviluppo dell’economia nazionale. Questa strategia tradotta in termini, o meglio, in parametri economici significa favorire le operazioni che dimostrino una ricaduta occupazionale o possano diventare un fattore competitivo per le aziende cinesi che competono nel mercato globale.

    Tra le righe emerge una posizione perlomeno dubbiosa riguardante il postulato del mercato assolutamente cara alla visione ultraliberista che vede automaticamente nel principio o nel postulato in base al quale tutto quanto fornisca reddito e dividendi agli azionisti un volano per lo  sviluppo economico generale. Paradossale in questo senso allora il giubilo della classe politica italiana quando i nostri asset risultano oggetto di acquisizioni, magari proprio da operatori cinesi, non comprendendo neppure il senso della perdita del controllo di questi importanti poli industriali logistici infrastrutturali ma anche immobiliari nella futura elaborazione delle strategie di sviluppo economico.

    In più  l’Italia prima l’Europa adesso hanno intenzione di togliere i dazi per esempio sul riso asiatico ponendo in ulteriore difficoltà settore della risicoltura a causa della concorrenza sleale, espressione dell’ effetto del dumping fiscale, normativo e igienico sanitario di cui godono i paesi asiatici.

    La sintesi di questi due aspetti, come la vendita di asset e l’apertura a prodotti espressione evidente di dumping,  è espressione della fede assoluta nella “filosofia o meglio dottrina economica” di matrice bocconiana – liberista che vede nella completa apertura dei mercati senza nessuna azione  compensativa ad equilibrare l’effetto dumping. Questa fede poi colpevolmente pone il trade come espressione massima della catena di creazione del valore quando invece risulta evidente come la filiera intesa nella sua articolata complessità di know how industriali e  professionali contribuisca in massima parte alla creazione del valore (anche culturale, come espressione della cultura contemporanea di una nazione). Viceversa, questa dottrina pseudo-liberista (che annulla i traguardi dello sviluppo economico, industriale e culturale occidentale) esprime un ulteriore limite quando indica nella ricerca di una maggiore produttività la chiave di lettura per compensare gli effetti devastanti del dumping sociale, normativo e retributivo.

    Tornando al contesto elettorale italiano poi si inseriscono le varie riforme fiscali le quali da una parte prevedono un abbassamento del cuneo fiscale di un punto all’anno, una scelta i cui effetti risultano assolutamente marginali relativamente invece ad una riduzione, anche minima, del carico fiscale sulle imprese. La scelta invece della riduzione del cuneo fiscale conferma e sottende la volontà della classe politica di mantenere il proprio potere che viene esercitato essenzialmente attraverso la spesa pubblica finanziata dal carico fiscale il quale con questa riforma rimane invariato. Logica conseguenza infatti ci indica che ogni riduzione del carico fiscale automaticamente determina una riduzione della capacità di spesa e di conseguenza di centralità della politica all’interno del perimetro economico.

    Se poi si aggiunge che parallelamente alla diminuzione di un punto di cuneo fiscale si obbliga l’azienda alla sottoscrizione di un fondo di compensazione per lavoratori disagiati del 0 5% si comprende chiaramente come questa cosiddetta riforma fiscale a favore delle PMI altro non rappresenta che il gioco delle tre carte che lascia sostanzialmente invariata la pressione fiscale.

    Evidentemente anche  in questo caso la politica seguita dalla amministrazione statunitense, che ha ridotto decisamente la Corporate Tax con effetti benefici sia per gli azionisti che per l’economia reale – avendo aumentato i dividendi per azione ma contemporaneamente avendo avviato una nuova politica di  bonus elargiti dalle aziende anche con nuove assunzioni, frutto di nuovi piani di investimento liberati dalla riduzione fiscale statunitense – non viene presa in considerazione.

     

    Viceversa il combinato tra flat tax e reintroduzione della lira con un disavanzo di oltre 68 miliardi che verrebbe coperto dall’ennesimo condono, questa volta fiscale (che la storia insegna come i risultati dei condoni siano sempre al di sotto delle aspettative) rappresenterebbe una miscela esplosiva in quanto il valore di una valuta viene stabilito in rapporto ai fondamentali economici del paese, alla stabilità economica, alla sua crescita unita alla gestione del debito e della spesa pubblica.

    La stessa politica monetaria tanto invocata (il vecchio sogno della svalutazione competitiva che viene indicato come la soluzione di ogni problema di crescita)  per giustificare il ritorno alla lira non trae alcun insegnamento dai risultati eccezionali ottenuti dalla economia svizzera la quale, a fronte di una rivalutazione del franco svizzero (e divenuto valuta di rifugio, quindi con un conseguente apprezzamento) lasciato libero di fluttuare sul mercato della banca centrale di Berna, ha comunque permesso risultati in regola per il 2016/17 relativi all’export. A dimostrazione, ancora una volta, che la politica monetaria ha un influsso minimo rispetto invece al ruolo attribuibile alla sintesi felice di una buona amministrazione pubblica che opera in favore delle PMI.

    In questo senso si ricorda sempre agli illustri economisti che mentre nel 2014 il debito pubblico cresceva ad un ritmo di  2100 euro al secondo, nel 2017 la crescita del debito pubblico risulta quasi raddoppiata, raggiungendo l’impressionante cifra di 4463 euro al secondo e portandosi ormai alla soglia dei 2300 miliardi di debito, ai quali ovviamente vanno aggiunti i 55 miliardi di deficit fuori bilancio che automaticamente fanno salire la somma, dal 2011, di 355 miliardi di nuovo debito.

    Un mix di fattori assolutamente esplosivi che andrebbero ad incrementare il costo del debito immediatamente dopo l’entrata in vigore di tali riforme azzerando in sei mesi il valore di tutti quanti i risparmi posseduti in lire.

    Una sintesi micidiale, anche in considerazione del fatto che dal 1996 al 2006 l’andamento dell’inflazione risulta in aumento del 40%  mentre la pressione fiscale dell’80%. Per cui, al di là della buona fede che deve essere assolutamente riconosciuta a tutti gli ideatori delle proposte di politiche economiche, rimane evidente che gli impatti di queste “strategie” non vengano considerati in un contesto internazionale nel quale i potenziali finanziatori del nostro nuovo debito chiederebbero sicuramente maggiori contropartite economiche in rapporto alla sottoscrizione del debito.  Anche perché comunque entro il 2018 sarà necessaria una manovra aggiuntiva di 30 miliardi di cui 18-20 per annullare l’aumento dell’Iva ed un’altra di circa 5 – 10 miliardi per far fronte alla crescita dei tassi di  interesse per sottoscrivere i titoli del nostro debito. Mai come ora le granitiche illusioni vendute dai programmi dei contendenti elettorali distolgono l’attenzione dalle vere problematiche relative al contesto internazionale nel quale il nostro paese si troverà ad operare qualsiasi sarà l’esito elettorale.

  • Il relativismo fiscale

    Quando F.c.A. decise di delocalizzare la sede legale in Olanda ma soprattutto quella fiscale a Londra per usufruire delle minori aliquote sugli utili aziendali il governo Renzi affermò che questo rappresentava il modello di azienda  per il futuro economico di sviluppo italiano. A tal riguardo si ricorda la quasi contemporanea approvazione del Jobs Act con il quale  risultarono fiscalizzati  gli oneri sociali per tre anni facendo ricadere quindi sul sistema fiscale nazionale il peso degli oneri contributivi  precedentemente a carico delle aziende. Una scelta strategica opinabile ma assolutamente legittima della quale ha usufruito anche la stessa F.c.A.

    Va però ricordato che la casa automobilistica non contribuisce in nessun modo alla creazione del gettito fiscale avendo delocalizzato la propria sede fiscale a Londra. Per essere un modello di riferimento  francamente più che altro assomiglia più ad un modello di elusione fiscale. Questo tuttavia veniva presentato come modello di azienda italiana per lo sviluppo economico dall’allora presidente Renzi e dall’attuale ministro dell’economia Calenda.

    Successivamente, nello stesso anno, il governo Renzi si fece promotore dell’apertura di una fabbrica di ciclomotori Piaggio nel Vietnam durante una visita di stato nel paese asiatico. Come contropartita lo stesso governo non esitò  ad annullare i dazi sul riso vietnamita esponendo quindi tutto il mondo della risicoltura italiana ad una concorrenza assolutamente sleale. Per di più tale decisione non solo ha messo in crisi la risicoltura italiana ma contemporaneamente non ha avuto nessuna ricaduta occupazionale per quanto riguarda il gruppo Piaggio in Italia, dimostrando ancora una volta la miopia di chi decide e sceglie le strategie economiche di sviluppo facendo pagare alle eccellenze italiane scelte strategiche assolutamente sbagliate.

    Il principio della  concorrenza tanto osannato ancora oggi dai principi accademici italiani potrebbe essere anche sopportabile se fosse seguito da un’azione normativa finalizzata a tutelare il prodotto italiano, sia questo materiale o immateriale, delle imprese italiane. In questo modo poi rispondendo ad una esigenza del mercato mondiale che sempre più chiede prodotti che risultino espressione della “cultura contemporanea” (sintesi di creatività know-how professionale ed industriale) della nazione (Made In).

    In modo infantile si crede ancora invece che il solo aumento della produttività nel nostro paese possa  annullare la concorrenza dei paesi a basso costo di manodopera espressione di un  ritardo sociale, politico ed economico.

    L’altra espressione di questa terribile e al tempo stesso sciocca ideologia economica (perché non si tratta di dottrina economica ma di pura ideologia) risulta l’appoggio, a cominciare dagli anni 80, alle delocalizzazioni produttive considerate come delle scelte inevitabili. Fino all’esplodere della crisi economica e finanziaria del 2011 tutto il mondo economico non perdeva occasione per indicare come superata la visione che considerava l’industria, ed in particolare le Pmi, centrali nello sviluppo economico. Quando ormai già da anni risultava evidente che le delocalizzazioni produttive invece rispondevano solo ad una logica speculativa nel brevissimo termine, come dovette ammettere anche l’università di Harvard a circa cinque anni fa.

    Risulta ugualmente chiaro come la vicenda della chiusura dello stabilimento Whirpool  non possa solo venire attribuita alla miopia del governo Renzi, che con la Whirlpool  aveva nel 2015 raggiunto un accordo i cui contenuti risultano ancora sconosciuti, considerati gli effetti disastrosi con la chiusura dello stabilimento  Embraco.

    Come non ricordare presidenti del Consiglio, docenti universitari, ministri dell’economia irridere con le loro prese di posizioni, esempio di superficialità ed arroganza pseudo culturale, nei confronti di azioni come quelle dei  contadini, del tessile ed  altre iniziative di associazioni che lamentavano un assoluto abbandono in relazione alle loro problematiche da parte della classe politica accademica ed economiche in generale. Come non ricordare le tronfie dichiarazioni sempre di  presidenti del Consiglio e di segretari di partito inneggianti ad una “una economia post industriale basata sui servizi” che tutti sottoscrivevano a partire dal mondo accademico, politico e degli economisti?

     

    Arrivando addirittura alle affermazioni di un Ministro, durante una cerimonia di apertura di una importante fiera milanese del tessile come Milano Unica, che dichiarò candidamente che l’Italia avrebbe vissuto di design. A fronte di tale affermazione assolutamente priva di qualsiasi contenuto economico nessuno ebbe nulla da obiettare ad esclusione Luciano Barbera, presidente dell’omonimo gruppo.

    La presa di posizione dell’attuale ministro dell’economia, tornando alla questione del presunto dumping fiscale della Slovacchia, non risulta che un’operazione di immagine in quanto gli stessi governi ai quali  ha partecipato hanno utilizzato la leva fiscale per abbassare il costo del lavoro, cercando, senza ottenerlo, di rendere il nostro paese maggiormente attrattivo  in relazione agli investimenti esteri.

    A tal fine si ricorda come il World Economic Forum in una recente ricerca abbia escluso da qualsiasi tipo di classifica l’Italia per quanto riguarda l’attrattività di investimenti esteri a causa ovviamente di una legislazione farraginosa, di una pubblica amministrazione fornitrice di alcun servizio e ad un sistema  giudiziario  che rifiuta qualsiasi forma di  riforma.

    A questo ‘assoluto in pace’ della pubblica amministrazione si aggiunga poi che dal 1996 al 2006, a fronte di un aumento dell’inflazione del 40,1%, la pressione fiscale viceversa risulta aumentata dell’80,3%.

    Numeri e trend  ovviamente attribuibili soprattutto a tutti i governi precedenti il 2011 ma che comunque sono visti come attori di questo disastro economico e normativo che presenta come unico tragico risultato allontanare gli  investimenti che nel 2016 hanno registrato un -18% e nel 2017 un -32%.

    Tali fuoriuscite di capitali si manifestano attraverso la chiusura di aziende come la Whirlpool assieme a mancati investimenti che denotano una mancanza di fiducia nel nostro paese e nel suo modello economico.

    Del resto risulta insostenibile  un sistema economico nel quale esistono 871 adempimenti burocratici in un anno a carico delle aziende, frutto di trent’anni  anni di politica anti industriale e delle ultime “riforme fiscali” o  dei governi Monti , Renzi e Gentiloni.

    Quindi, se il principio di concorrenza viene accettato nel mondo economico delle imprese private non può assolutamente diventare un dumping quando viene utilizzata la leva fiscale per attrarre imprese ed industrie ad investire in un determinato paese. Del resto come non ricordare le politiche di fiscalità di vantaggio  per il rilancio dell’economia del Sud Italia. A differenza delle politica, l’economia applica i principi riconosciuti come tali in ogni settore dell’articolato mondo globale economico.

    Questa sorta di relativismo che vede esponenti del governo considerare  appropriata la fiscalizzazione  degli oneri contributivi (Jobs act) ma che successivamente critica  un altro paese che la utilizza per incentivare gli investimenti nel proprio territorio si rivela come espressione di un “relativismo fiscale” che in ambito economico risulta  assolutamente ingiustificato ed insostenibile.

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