Politica

  • Dalla caduta del muro di Berlino ai nuovi assetti mondiali: l’Europa si svegli

    Il 9 novembre 1989 abbiamo tutti festeggiato la caduta del muro di Berlino e la riunificazione della Germania che rappresentava anche una nuova speranza per un’Unione Europea più forte e coesa.

    A distanza di tempo rimangono ancora irrisolti i problemi dovuti alla riunificazione, non solo quelli economici, tutti gli stati europei hanno infatti, in misura diversa, contribuito a pagarne il costo, ma quelli culturali legati alla permanenza, per tanti anni, degli abitanti della Germania dell’est sotto il giogo comunista e senza conoscere il valore autentici della libertà e della democrazia.

    Oggi la Germania, per molto tempo pilastro fondamentale dell’Unione, sta vivendo una crisi preoccupante per i risvolti interni ed esterni: formazioni politiche estremiste, crisi di governo, riduzione della crescita sono problemi che, assommati a quelli derivanti dalla guerra russa contro l’Ucraina, dalla mancanza di unione politica e di difesa in Europa e dal nuovo corso che con Trump prederanno gli Stati Uniti, destano significative preoccupazioni.

    Il diverso corso che prenderà la politica statunitense verso l’Europa, anche tendendo conto degli altri risvolti internazionali, e l’attuale debolezza tedesca, che va di pari passo a quella francese, e non solo, dovrebbero finalmente convincere il Consiglio europeo ad affrontare immediatamente al proprio interno il confronto sulla urgente necessità di attuare quanto fino ad ora è stato solo enunciato e promesso.

    L’Europa è veramente unita solo se si dota, finalmente, di una politica comune di difesa e di progettualità sociale ed economica, senza l’Unione politica siamo destinati ad un inesorabile declino con catastrofiche conseguenze per noi e per i paesi nostri partner, a cominciare dall’Africa che è sempre più colonizzata da Cina e Russia.

    Il nuovo patto di offesa, più che di difesa, tra Russia e Corea del Nord, la ormai stretta amicizia tra Russia e Cina, la confluenza degli interessi di alcuni paesi Bric verso la ricerca di un diverso ordine mondiale, il che non significa solo modifica di assetti economici ma soprattutto di sistemi culturali e del concetto di libertà e democrazia, non consentono all’Europa ulteriori indugi.

    Anche a noi cittadini il compito di ricordarlo ai nostri rappresentanti nazionali ed europei, solo se sentiranno che la nostra voce è forte e decisa finalmente faranno seguire i fatti alle troppe parole inutili.

  • Nell’indifferenza dei partiti l’astensionismo è la prima forza in Italia e questo non fa bene alla democrazia

    Bene, in Liguria il centro destra ha vinto e il Pd è il primo partito della regione, i 5 Stelle si sono ridotti al lumicino e la Lega si è dimezzata.

    Detto questo ed aggiunti altri eventuali commenti sui successi ed insuccessi dei partiti colpisce, una volta di più, fino a quando troveremo la forza di stupirci, che all’analisi delle forze politiche, ma anche di molti media, continui a mancare il dato principale: il forte astensionismo.

    Certo c’era il maltempo, molte parti della regione erano state sconvolte, certo c’erano stati scandali, che per altro non hanno impedito la vittoria del centro destra con un sindaco che è stato un esempio nella gestione della tragedia ponte di Genova, ma niente giustifica la non partecipazione al voto, specie in un momento così delicato, se non la disaffezione, l’indifferenza, insofferenza che troppi cittadini hanno verso le forze politiche.

    L’astensionismo non è un rifiuto alla politica ma è invece la più palese espressione di contestazione proprio alla mancanza della politica in un sistema dove sempre più la partitocrazia si è sostituita ad un progetto di bene comune che ogni partito dovrebbe avere come faro di riferimento per le sue attività.

    Non si è fatta, come sempre accade da troppi anni, campagna elettorale per sostenere un proprio modello di società ma per contrastare, colpire l’avversario.

    Qualcuno anni fa ha inneggiato alla morte delle ideologie, la verità è che sono morte le idee, le visioni, i progetti, è morta la ragion d’essere di quello che i partiti avrebbero dovuto rappresentare e cioè la proposta offerta a tutti, non solo ai propri iscritti e simpatizzanti, di dare vita ad una società capace di indicare percorsi che includano ciascuno, nel rispetto e nella comprensione di esigenze diverse e mai prevaricatrici del bene comune.

    Partitocrazia, leaderismo, annunci e slogan fini a se stessi, pressapochismo, dichiarazioni non seguite dai fatti, mancanza di conoscenza dei reali problemi dei cittadini, arroganza e autoreferenzialità, solo per citare alcuni dei difetti delle forze politiche, hanno portato alla costante e progressiva disaffezione dei cittadini resi ancor più sospettosi dai tanti scandali che, vicendevolmente, i partiti si trovano ad affrontare e dalle reciproche accuse.

    Diciamolo molto chiaramente la democrazia è a rischio quando tanta parte dell’elettorato non va al voto e vi sono leggi elettorali e proposte di leggi elettorali per le quali con la maggioranza di una minoranza di aventi diritto al voto si può pensare di governare a nome di tutti usufruendo di un parlamento di fatto blindato.

    Nel 1953 un sistema di questo tipo si era chiamato ‘Legge truffa’ e ben fece allora il MSI a combatterla, una legge non è buona perché ci premia, ci fa comodo, una legge è buona se preserva la democrazia e il diritto di rappresentanza di tutti, in primis dei cittadini che oggi continuano ad essere esautorati dal loro diritto di eleggere i propri parlamentari.

  • Violenza di genere: il silenzio della politica

    Colpisce, di fronte alla spaventosa escalation di delitti contro le donne, dalle più anziane alle quasi bambine, la mancanza di un serio ragionamento politico e sociale non solo sulle cause ma sulle contromisure culturali e pratiche da adottare.

    Alcuni media dedicano al problema intere puntate ricche di opinionisti che, più o meno esperti in criminologia, sociologia od altro, si affannano a stigmatizzare quanto è noto da anni a tutti coloro che nella quotidianità vivono, non obnubilati dal politicamente corretto che implica, ormai da tempo, la giustificazione di qualunque tipo di comportamento e, lasciatemelo dire, di devianza.

    Avremmo immaginato, nella nostra ingenuità, che il governo, o magari autonomamente le singole forze politiche, le stesse parti sociali, iniziassero una capillare campagna pubblicitaria, manifesti, spot televisivi, radiofonici, sulla Rete, per mandare messaggi contro la violenza, messaggi educativi per il rispetto verso ogni essere vivente, ogni sesso, anche quello liquido…

    Avremmo immaginato che partissero fin dalle scuole elementari e forse, visto l’uso degli smartphone da parte dei più piccoli, anche dall’asilo, specifici insegnamenti contro la violenza, i rapporti scorretti, l’incapacità di accettare i no ed i divieti, accompagnati da quegli insegnamenti che aiutano alla comprensione ed al rispetto reciproco.

    Certo in una realtà dove la violenza verbale, spesso la menzogna e più spesso la controinformazione, fanno costantemente parte del confronto politico diventa difficile ottenere che si comincino ad usare strumenti culturali che invitino alla comprensione dell’altro e alla giusta severità verso figli, allievi, giovani ed adulti perché quando le persone, i giovani cominciano ad avere comportamenti scorretti sempre più spesso possono diventare manipolatori, violentatori, nelle parole e nelle azioni, e poi anche assassini.

    Certo è che la situazione è degenerata e la mancanza di una concreta e solerte iniziativa culturale ad ampio raggio porta sempre più a ritenere che siamo di fronte ad una classe politica, comprese le associazioni di categoria e tutti coloro che, a vario titolo, hanno voce nel Paese, completamente incapaci di affrontare i temi più tragici e pericolosi della nostra epoca.

    Molti anni fa in Guadalupe e Martinica, terre francesi metropolitane, contro la piaga della violenza contro le donne, dovuta all’abuso di alcool, vi erano ovunque manifesti, rivolti in molti casi anche agli adolescenti, per condannare la violenza, per invitare a non bere in modo smodato, insomma vi erano segnali che facevano comprendere come la politica non fosse indifferente e cercasse di mandare messaggi sociali e culturali.

    Oggi in Italia, tolta qualche dichiarazione post delitto e qualche programma di elencazione dei fatti, tutto tace il che la dice molto lunga sulla capacità di comprensione, da parte della politica, di questo terribile problema della violenza, una classe politica incapace anche di ragionare e confrontarsi sulla realtà di un sempre più evidente astensionismo, gli italiani, al di là delle percentuali di questo o quel partito, sanno che al momento non si possono aspettare di essere compresi ed aiutati.

  • Cristiana Muscardini al convegno di Milano sulla storia dei partiti politici

    Venerdì 8 novembre, alle ore 17:30, in via San Maurilio 21 a Milano, si svolgerà l’incontro Storia dei Partiti politici nell’ambito del ‘Corso di formazione e cultura politica per i giovani’ organizzato da ‘Crescere con la buona politica’ in collaborazione con Lions, Osservatorio Metropolitano di Milano e Rotary.

    All’evento, moderato da Enrico Marcora, parteciperanno Cristiana Muscardini, Luigi Corbani, Gian Stefano Milani, Roberto Mazzotta, Andrea Orsini, Franco De Angelis.

    Sarà l’occasione per un momento di riflessione sulla storia della politica italiana ed europea.

  • Il progresso non è solo far camminare più velocemente il treno, è anche tirare il freno quando serve

    A riprova di quanto sia illusorio, in presenza di eventi storici, ritenere che l’immediato futuro sia migliore del recente passato, è sufficiente ricordare anche per sommi capi cosa è accaduto dall’ultimo decennio del XX secolo al secondo decennio del XXI.

    In soli trent’anni è radicalmente mutato il mondo intero, da ogni punto di vita: geopolitico, economico, sociale, culturale, scientifico…

    Dal 1989 ad oggi: cade il muro di Berlino, scompare l’Unione Sovietica, finisce la guerra fredda…L’undici settembre, il terrorismo internazionale, Al Qaeda e Isis, la invasione dell’Afghanistan e dell’Iraq, le stragi islamiste in Europa, le primavere (?) arabe, riesplode il conflitto Israele/arabopalestinese, le due intifada e l’uccisione di Rabin, la guerra civile in Siria e Libano, il pericolo della teocrazia iraniana, la strage del 7 ottobre e le note, attuali conseguenze.  E ancora: l’imperialismo neozarista di Putin, l’invasione della Crimea e dell’Ucraina, l’ascesa al rango di potenza globale della Cina capitalcomunista, truppe nordcoreane a fianco dei russi…La Brexit e la debolezza dell’Unione europea….

    Contemporaneamente a questi enormi sconvolgimenti geopolitici, in Vaticano si succedono tre papi, due dei quali sono tali contemporaneamente…Il fallimento della Lehman Brothers e la crisi dei mutui subprime determinano una recessione economica globale con enormi ripercussioni sociali non solo nell’Occidente liberalcapitalista. Inoltre, il Covid fa rivivere la peste dei secoli bui mentre la scienza apre nuove frontiere e pone inediti quesiti etici nel campo medico (utilizzo delle cellule staminali), in quello filosofico (intelligenza artificiale), in quello culturale (realtà virtuale e fake news dei socialmedia).

    Assodato che, con buona pace di Fukujama, la storia non è finita nel 1990, anzi…non è difficile comprendere perché oggi la società occidentale è e si sente disorientata, priva di solidi ancoraggi valoriali, di certezze che infondano sicurezza (o almeno non generino paure). Viviamo tempi oggettivamente ansiogeni e agli sconvolgimenti del passato più recente si sommano cupe, ma non necessariamente infondate, previsioni circa il rischio di una nuova guerra mondiale, di ondate migratorie di enorme consistenza, dell’imminente tracollo dell’ecosistema globale. E c’è finanche chi teorizza che il futuro sarà segnato dal postumanesimo.

    Tutto ciò spiega perché nelle società occidentali sono sempre meno coloro che confidano nelle “magnifiche e progressive sorti” dell’umanità e sempre più numerosi sono coloro che pensano che “il progresso non è solo far camminare più velocemente il treno, è anche tirare il freno quando serve” (Benjamin Franklin).

    Negli ultimi anni, sul piano politico elettorale, il “freno” è stato individuato dagli europei prevalentemente nelle forze di destra, molto diverse tra loro e non sempre tra loro compatibili, ma con un profilo culturale e valoriale caratterizzato da alcuni importanti elementi comuni. A partire dalla difesa della identità delle comunità nazionali: una identità formatasi nel tempo sulla base di valori e tradizioni, usi e c costumi, condivisi perché da sempre trasmessi di padre in figlio, una generazione dopo l’altra.

    Avere coscienza della propria identità, cioè sapere in ragione di quali radici profonde, che non gelano, “si è quel che si era e si sarà” (Roger Scruton) rassicura, protegge dal timore di un futuro peggiore del presente. La destra l’ha compreso perché lo ha sempre saputo e quasi ovunque (ma le eccezioni ci sono e vanno denunciate) ha ben chiara la differenza valoriale tra uguaglianza ed omologazione, tra patriottismo e nazionalismo, tra etnia e razza, tra integrazione e cosmopolitismo, tra laicità e laicismo, tra libero mercato e finanziarizzazione dell’economia, tra europeismo e burocrazie di Bruxelles…

    Al contrario la sinistra, almeno nella sua componente riformista e liberale, non più postcomunista e non più  anticapitalista, paladina dei diritti civili ma dimentica dei diritti sociali e del tutto insensibile all’armonia tra diritti e doveri…La sinistra che “parla di becero populismo ogni qualvolta si accorge che il popolo non la segue più” (Jean Michel Naulot) non annette alcuna importanza alla identità come valore, come caratteristica  positiva da armonizzare, come tratto distintivo di ogni essere umano e di ogni popolo…E così, mentre la società europea chiede al macchinista (la politica) di azionare il freno, la sinistra lo invita ad accelerare la corsa verso ..il nichilismo assoluto. Esagerazione? Non è forse vero che l’ultima versione della sinistra liberal auspica la cancellazione della storia?  Quindi via le statue di Colombo e l’effige di Lincoln (proprietario di piantagioni di cotone e quindi schiavista), basta con le definizioni di caucasico, africano, asiatico perché razziste, abolizione della distinzione di genere perché sessista…. e tante altre assurdità “politicamente corrette”.

    È anche in ragione di ciò che, come ha scritto Luca Ricolfi nel suo bel libro La Mutazione, “0ggi la destra culturalmente può contare di una sorta di valore aggiunto…la difesa dei deboli e la libertà d’espressione sono migrate a destra…”

  • Harris e Trump

    La maggior parte dei cittadini europei si è accorta che gli attuali governi dell’Unione sono composti in gran parte da personaggi di bassissima statura culturale e politica e non reggono il confronto con chi guidava gli stessi Paesi 30 o 40 anni fa. Se poi guardiamo alla Commissione Europea, a partire dalla Presidente Ursula Von der Leyen e dagli pseudo ministri degli esteri precedenti o di recente nomina, il quadro sembra perfino peggiore. Purtroppo, a dare poche speranze per il futuro c’è anche il fatto che, se mai fosse possibile, negli Stati Uniti la situazione non è certo incoraggiante. Tra meno di un mese, i cittadini americani che hanno optato di partecipare alle elezioni voteranno per il futuro presidente dovendo scegliere tra Kamala Harris e Donald Trump. La prima fu sempre stata giudicata dalla stampa occidentale come del tutto inadeguata perfino per il ruolo di Vice Presidente, salvo diventare, secondo gli stessi media, una summa di bravura, di fascino e di intelligenza nel momento in cui si è trovata quasi incidentalmente a diventare la candidata Presidente per conto del Partito Democratico. Come in pochi giorni abbia subito questa trasformazione è e resterà sconosciuto.

    Di Donald Trump, al contrario, si parlava male già durante la sua Presidenza e ora che è nuovamente candidato i giudizi negativi sono ulteriormente aumentati. Le descrizioni che lo accompagnano non lasciano spazio ad alcunché di positivo e, oltre a dipingerlo come il futuro distruttore del sistema democratico, lo si presenta come un corpo estraneo a tutta la storia americana. In altre parole sarebbe un alieno ignorante che vive di populismo gradito soltanto a fanatici e a ignoranti come lui. Oggettivamente, risulta difficile immaginarlo quale un virtuoso della cultura ma presentarlo come un incidente storico nella società americana è una faziosa e falsa interpretazione.

    A differenza di ciò che si vuol far credere, quello che viene chiamato il suo progetto “isolazionista” è una costante che ha abbracciato la politica degli Stati Uniti dal 1789 almeno fino alla prima metà del ‘900. Lo stesso Presidente Washington nel 1796 aveva chiesto che il Paese sviluppasse “il minore legame politico possibile” con le potenze straniere aggiungendo: “è nostra politica l’evitare alleanze permanenti con qualsiasi parte del mondo”. Come si sa, tale approccio non ha impedito ai vari governi di sviluppare ben presto una propria politica imperiale. A nord verso il Canada, a sud con la guerra che portò all’occupazione del Texas e perfino nell’Oceano Pacifico con l’occupazione di varie isole (tra cui le Hawaii) fino alle Filippine, sottratte alla Spagna. *

    Differentemente da ciò che Washington disse, e pur non avendo sottoscritto alcun accordo specifico, gli Stati Uniti parteciparono invece alla Prima Guerra Mondiale al fianco della Triplice Alleanza. Il motivo, va sottolineato, rappresenta da sempre la costante della politica estera americana: impedire che in qualunque parte del mondo potessero crearsi le condizioni per cui una singola potenza potesse diventarvi egemone. Sia nella prima che nella seconda guerra mondiale il pericolo fu identificato nel crescere della potenza tedesca. In quei casi, la filosofia “isolazionista” fu abbandonata ma si trattava pur sempre di un altro concetto ancora oggi caro a Trump: “America first”, seppur con sue particolari e moderne modalità. Sempre “America first” ha guidato le politiche americane in Medio Oriente, in Asia e in Sud America e anche lì con l’obiettivo di impedire il crescere di una qualunque potenza che da sola egemonizzasse l’area. Il problema, e cioè la vera differenza di allora con le politiche trumpiane, è che gli scopi attuali di Washington all’estero non sono più in equilibrio con i suoi mezzi interni disponibili. La deindustrializzazione, l’indebolimento numerico della classe media, la iper-globalizzazione delle economie, le pressioni migratorie al confine sud e l’enorme deficit pubblico spingono milioni di statunitensi a seguire quel Trump che propone di liberarsi dai fardelli esteri per concentrare le risorse sul fronte interno.

    Molti di coloro che votano democratico sono ancora convinti che il loro Paese debba continuare ad essere un faro di luce nel mondo in quanto esempio virtuoso del sistema democratico e liberale. Tuttavia, una lettura realistica della realtà mondiale lascerebbe capire anche a costoro due cose: la prima che altre culture non condividono necessariamente la filosofia politica nata e cresciuta nell’Occidente geografico, la seconda che, di là dalla retorica propagandistica, troppo spesso gli interventi militari americani nel mondo sono avvenuti a favore di regimi illiberali che rappresentavano il contrario dei valori proclamati a gran voce. Meno ipocrita (o più ingenuo) Trump dichiara in termini molto netti di essere “scettico nei confronti di unioni internazionali che……fanno crollare l’America…“ e: ”non sottoscriveremo mai alcun accordo che riduca la nostra capacità di controllare i nostri affari”.

    Anche in economia Trump non presenta progetti particolarmente nuovi, così come non è nuova l’idea di ridare slancio al protezionismo attraverso più alte tariffe doganali. Prima di lui, sebben con minore enfasi declamatoria, anche i presidenti Democratici hanno varato barriere tariffarie riguardanti vari settori industriali e il settore siderurgico europeo ne sa qualcosa. Comunque, già nel 1930 quando la crisi economica del ’29 stava esplodendo, fu fatta una legge fortemente protezionista la Smooth Hawley Tariff Act che colpì la maggior parte dei beni di importazione. Durante la sua presidenza, pur se oggettivamente i risultati attesi sono stati infinitamente minori del previsto, Trump ha rinegoziato l’Accordo di Libero Scambio Nord Americano, ha bocciato il progetto di Partenariato Transpacifico e il Partenariato Transatlantico e ha introdotto tariffe doganali elevatissime per tutti i prodotti in arrivo dalla Cina. Anche su quest’ultimo aspetto va notato che, nonostante i Democratici continuino a proclamare come un valore il liberismo economico, Biden Presidente ha confermato i dazi introdotti da Trump contro la Cina e ne ha persino aggiunti altri. Ciò con cui qualunque futuro Presidente dovrà far i conti è una maggiore diffusione della povertà dei ceti medi e bassi con il relativo aumento della disparità del benessere a favore delle classi alte. Per entrambi, il problema riguarderà il disavanzo commerciale crescente e un fortissimo incremento del debito pubblico giunto a livelli enormi.

    Un altro dei punti di forza della narrativa trumpiana è la lotta contro gli immigrati illegali ma anche questa volta ci sono precedenti storici cui ci si può rifare. Nonostante sia evidente a tutti che gli Stati Uniti attuali siano il frutto di importanti e costanti flussi migratori il sentimento anti immigrati da parte della popolazione WASP (white anglo-saxon protestant) è da sempre presente. Quando gli Stati Uniti annessero più della metà del Messico nella guerra del 1846-48 espulsero dai terreni conquistati la maggior parte dei messicani. Nel 1924 il Congresso approvò una legge che riduceva del 90% il numero di ebrei e cattolici ammessi ufficialmente del Paese e vietò totalmente l’immigrazione asiatica. Quanto all’idea di Trump di deportare i clandestini attualmente presenti nel Paese, si tratta semplicemente della copia di un provvedimento adottato già negli anni ’30 che rimandò verso il Messico un milione di immigrati clandestini. Che il livore anti-immigrati sia molto diffuso nella popolazione americana è dimostrato dal fatto che anche il Democratico Biden ha cercato di assecondare tale sentimento varando un ordine esecutivo che prevede la chiusura temporanea del confine meridionale e ha cercato di far passare una legge che bloccasse la maggior parte dei nuovi arrivi attraverso il Messico. Tale legge non è passata perché i parlamentari repubblicani non hanno voluto concedergli un guadagno di immagine presso l’elettorato.

    Come conclusione, continuare a credere ciò che i media mainstream vogliono propinarci e cioè che il fenomeno Trump sia totalmente estraneo alla tradizione politica americana è chiaramente un falso storico. Detto ciò, l’avere Harris o Trump come Presidente a Washington per noi europei qualcosa cambierebbe ma, di là dalla forma che il loro agire assumerà, una loro comune costanza sarà (comprensibilmente) di tutelare gli interessi del loro Paese e di considerarci una loro naturale “zona di influenza”.

    * Incidentalmente, non è male ricordare a chi, giustamente, accusa l’Italia di aver tradito la Triplice Intesa nella prima guerra mondiale nonostante gli accordi sottoscritti, che nulla è mai inventato. Quando, nel 1793, la Francia rivoluzionaria (che aveva aiutato i ribelli americani contro l’Inghilterra) chiese l’aiuto degli Stati Uniti in base a un accordo sottoscritto nel 1778, il governo di George Washington disdisse unilateralmente l’impegno assunto dichiarandolo contrario all’interesse nazionale del momento.

  • Il fil rouge tra Draghi, Blackrock e Leonardo

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo del Prof. Francesco Pontelli

    Nel suo ultimo manifesto programmatico l’ex presidente della Bce e del Consiglio Mario Draghi ha indicato nello stop alla fornitura di gas dalla Russia il motivo per il quale si paga un costo dell’energia più alto. In verità, il nostro Paese soffre del “caro bollette” che incidono pesantemente sul bilancio familiare e minano alle basi la competitività delle imprese italiane in particolare modo quelle industriali, a causa di una strategia politica scellerata nell’approvvigionamento energetico che ha visto proprio in Draghi uno dei principali artefici e sostenitori.

    Fino dagli anni novanta, infatti, nel nostro Paese si è avviato un processo di privatizzazione di tutti gli asset pubblici (monopoli indivisibili) che si occupavano della produzione e distribuzione dell’energia e per di più non con l’obiettivo di diminuire il debito pubblico, ma semplicemente per una molto più modesta riduzione del deficit.

    In più, a conferma del proprio indirizzo strategico, durante il suo governo Draghi, mentre la Spagna introduceva il Price Cap per il gas a 42 euro, la Francia nazionalizzava EDF (società francese di produzione e distribuzione della energia elettrica) e la Germania raggiungeva un accordo con la Norvegia per la fornitura di 50 miliardi di gas per i prossimi quarant’anni, Draghi ha atteso l’introduzione tardiva di un ridicolo Price Cap dall’Unione Europea.

    Il combinato disposto della strategia di vendita di asset pubblici unita ad una sostanziale passività istituzionale durante il proprio governo, e comunque comune a tutti i governi degli ultimi trent’anni compreso quello in carica, ha determinato che le bollette spagnole risultino inferiori rispetto a quelle italiane di oltre il -50%, quelle francesi di oltre il -70% e quelle tedesche quasi del-40%.

    Uno dei principali fondi esteri che ha investito nelle società energetiche italiane è rappresentato da Blackrock, assieme a Vanguarde, il quale ha, più che legittimamente, trasferito sui prezzi finali alle utenze familiari ed industriali delle bollette la ricerca dei maggiori margini possibili con l’obiettivo di assicurare un alto e remunerativo Roi.

    Ora il medesimo fondo, in predicato di rilevare anche una quota di Sace, entra con oltre il 3% nell’azionariato di Leonardo, ex società a partecipazione pubblica, il cui core business è rappresentato dalla difesa e dalla sicurezza e il cui A.D. è, sarà un caso, un ex ministro del governo Draghi.

    Partendo dalla consapevolezza della strategia adottata dal fondo statunitense nel settore energetico, il quale ha ricercato il massimo profitto anche grazie ad una classe politica italiana assolutamente assente fino alla compiacente complicità, a differenza delle affermazioni di Mario Draghi si può arrivare alla conclusione che gli effetti devastanti in termini di costi aggiuntivi siano interamente attribuibili ed espressione dell’opera del fondo Blackrock.

    Parallelamente non è quindi da escludere che la medesima strategia possa avvenire adottata anche nel settore della Difesa e della sicurezza, dopo avere reso operativa l’acquisizione di una parte considerevole della quota azionaria (oltre il 3% appunto). Magari, ed anche in questo caso, potendo contare su di un implicito accordo con la politica italiana ed europea, la quale nei due ambiti istituzionali fino ad oggi non ha dimostrato alcuna intenzione né interesse per la ricerca di una strategia diplomatica di intermediazione nei conflitti, specialmente in quello russo ucraino, che potesse creare le condizioni minime al raggiungimento, prima di una tregua e successivamente di pace duratura.

    Viceversa, mentre la crisi industriale europea sta manifestando i propri effetti mettendo in serie crisi la stessa tenuta dello Stato Sociale, le massime cariche istituzionali europee non lesinano risorse per finanziare gli armamenti destinati all’Ucraina. Forse, ma ovviamente è una malevola congettura, proprio per non disturbare gli interessi di Blackrock. Ai posteri verrà attribuito il compito di fornire l’ardua sentenza in relazione alle priorità dimostrate dalle massime autorità istituzionali europee. Nel frattempo, si può tranquillamente constatare come un’altra quota di sovranità nazionale, l’ennesima, risulti ceduta ad un soggetto finanziario i cui obiettivi sono molto lontani da quelli che dovrebbero essere perseguiti dall’autorità politica e istituzionale.

    Un processo che troverebbe, per di più, una maggiore forza e facilità di esecuzione in termini di minori oneri finanziari necessari, se i nostri asset fossero espressi in una valuta debole (per sostenere l’export?) quale potrebbe essere la lira, con buona pace dei rappresentanti del “sovranismo monetario”.

    Mai come ora le stesse istituzioni nazionali ed europee si trovano sotto attacco non tanto da parte di una superpotenza straniera, quanto della vile alleanza tra finanza e quel che resta di una politica di basso profilo.

  • In Romagna piove sempre sul bagnato

    Il 2 e 3 maggio di quest’anno, 2024, ero a Faenza con l’onorevole Gerard Collins, già ministro irlandese e parlamentare europeo, e sua moglie Ilary, che da tempo voleva vedere la città dove aveva vissuto un suo antenato.

    Faenza si era faticosamente ma con grande determinazione rialzata dalla tragica alluvione del 2-3 maggio 2023, anche se ancora molti negozi rimanevano chiusi e si vedevano ancora le tracce di quello che era stato un autentico incubo. In edicola il settimanale faentino SetteSereQui aveva un titolo a caratteri cubitali ‘Tanti cantieri, pochi rimborsi’.

    In questi giorni, a distanza di quattro mesi, Faenza e la Romagna sono nuovamente sott’acqua, le polemiche imperversano, ma l’acqua, più veloce, ha di nuovo distrutto case, aziende, territorio. Nel maggio 2023 erano state coinvolte le aree di Ravenna, Forlì-Cesena, Rimini, Bologna, Ferrara: su un’area complessiva di oltre 800 chilometri quadrati e 7 province, si erano registrate 80 esondazioni, 80mila frane. Trentaseimila persone erano dovute sfollare.

    Ora, senza entrare nelle polemiche, vorremmo però risposte ad una semplice domanda: se qualcosa non ha funzionato, ed ovviamente non ha funzionato, ci sarà una responsabilità di qualcuno o assisteremo al solito scaricabarile reciproco?

    Io so che a Milano, almeno dal 1980, si è discusso molto sul problema e le soluzioni da prendere per il Seveso e il Lambro che ad ogni pioggia forte esondavano e, dal 1980, sono passati 44 anni, si sono susseguite giunte di diverso colore politico ma il risultato non è mutato: Lambro e Seveso ancora esondano e i cittadini subiscono.

    Non vorremmo che fosse la stessa cosa per la Romagna, così come per altre zone bersagliate da esondazioni e frane, non ultime le Marche.

    Ci dovrebbe essere qualcuno in grado di superare gli impasse burocratici e che, conoscendo i territori, possa intervenire con tempestività e decisioni utili.

    Purtroppo non ci sembra che questo qualcuno ci sia stato e ci sia per l’alluvione in Romagna e siamo tristemente consapevoli che la politica sembra non aver capito che ci sono emergenze che non possono essere risolte aspettando degli anni ma che occorrono interventi rapidi e mirati, compresi gli interventi che servono a risarcire, almeno economicamente, tutti coloro che hanno visto distrutte le loro case e ‘annegati’ i loro risparmi e sacrifici.

  • Taiwan, Cina e USA

    Da più parti si sostiene che la scintilla che potrebbe dare inizio alla terza guerra mondiale originerà nell’estremo oriente e in particolare a Taiwan. È risaputo che questa isola, formalmente autodichiaratasi autonoma, è rivendicata dalla Repubblica Popolare Cinese come parte integrante del proprio territorio. Apparentemente, la quasi totalità degli Stati aderenti all’ONU condivide la posizione di Pechino e infatti tutti costoro dichiarano di sostenere l’idea che “la Cina è una sola”, cioè quella “Popolare”. La conseguenza è che, sempre formalmente, quasi nessuno Stato del mondo prevede l’esistenza di una Ambasciata propria a Taiwan né accetta di avere rapporti diplomatici ufficiali. Poi, come succede nella naturale ipocrisia della politica, molti, compresa l’Italia, vi tengono un “ufficio commerciale” e ospitano il corrispettivo taiwanese.

    Gli Stati Uniti raggiungono il massimo dell’ipocrisia quando alte cariche delle istituzioni politiche americane vi si recano senza informare Pechino e, da sempre, riforniscono quel Paese di armi di vario genere. Tutto ciò continuando a ribadire che la “Cina è una sola”: quella con capitale Pechino.

    Perché si ricorre a questo doppio standard così contraddittorio?

    È bene ricordare che la Taiwan attuale (già Formosa) nacque come Stato alla fine della guerra civile cinese che fu vinta dalle forze maoiste. La parte sconfitta, guidata dal gen. Chiang Kai-shek, vi si era rifugiata rivendicando di essere la vera Cina (e cioè la Repubblica di Cina, già esistente dal 1912 e membro dell’ONU) e sperando di potersi ricongiungere vittoriosamente, in un ipotetico futuro, con la madre patria continentale. Fino al 1991, la Repubblica di Cina ha continuato attivamente a sostenere di essere l’unico governo legittimo della Cina (e di rappresentarla tutta), e durante gli anni cinquanta e sessanta la sua richiesta venne accolta dagli Stati Uniti e da alcuni dei suoi alleati. Durante la Presidenza Nixon però le cose cambiarono perché gli Usa decisero di approfittare della rottura dei rapporti di Pechino con Mosca per stringere nuove relazioni con la Repubblica Popolare in funzione anti-sovietica. Dall’ottobre 1971 l’Assemblea dell’Onu, pure piena di nuovi Stati non tutti alleati con l’Occidente, ritirò così il riconoscimento di membro (e di titolare del Consiglio di Sicurezza) a Taiwan e lo concesse a Pechino. Subito, la maggior parte degli Stati mondiali ruppe le relazioni diplomatiche con Taipei e le allacciò a tutti gli effetti con Pechino. È da allora che la Cina Popolare viene riconosciuta da quasi tutti come la vera “unica Cina” e che Taiwan viene considerata un’entità “separata”, ma solo “temporaneamente”. In realtà, come vediamo tutti i giorni, la pratica è un’altra e, anche se non formalmente, tanti continuano a dialogare con Taipei come se fosse uno Stato a sé stante.

    Vediamo di cosa stiamo parlando: si tratta di un fazzoletto di terra molto vicino alle coste continentali cinesi, con un grande sviluppo economico ma con una popolazione di soli 24 milioni di abitanti (la Repubblica Popolare vanta un miliardo e trecento milioni di individui). Come mai una realtà così piccola potrebbe diventare la ragione di uno scontro bellico potenzialmente distruttivo per tutto il mondo? Perché gli USA continuano ad armarla mettendo già nel conto le reazioni fortemente negative di Pechino?

    Per comprenderlo occorre fare ricorso alla geopolitica. Gli Stati Uniti sono oramai da anni la potenza egemone nell’intero globo e, anche attraverso dei documenti ufficiali del governo, hanno ribadito di voler continuare ad esserlo nel futuro (A questo proposito, e non incidentalmente, dobbiamo ricordarci che noi italiani, come tutti gli europei, siamo stretti alleati degli USA e, seppur da una posizione molto minore, partecipiamo a questa egemonia e ne traiamo, in parte, i relativi vantaggi). Una delle caratteristiche di una posizione dominante è la sicurezza del controllo degli oceani e delle vie di comunicazione. La Cina è cresciuta incommensurabilmente dopo la morte di Mao Ze Dong e, con la sua economia e con i grandi investimenti effettuati nelle forze armate, sta insidiando di fatto l’egemonia americana. Come comprensibile, a Washington questo fatto non può piacere. È quindi giudicato necessario, da chi concorda con le posizioni americane, che in qualche modo la Cina di Pechino sia “contenuta”. Ecco quindi dove la geografia viene in aiuto.

    Per garantirsi anche nel futuro il controllo delle vie di comunicazione e “contenere” l’espansione cinese, gli USA hanno innanzitutto costruito un’alleanza con i Paesi che costituiscono la prima “catena” di isole che, all’occorrenza, potrebbero impedire alle navi cinesi di potersi affacciare sull’Oceano Pacifico. Si tratta a nord di Corea del Sud e del Giappone, al centro proprio di Taiwan e a sud delle Filippine, della Malesia/Borneo e del Vietnam. Tutti questi paesi hanno i loro motivi per diffidare di Pechino e i loro rapporti bilaterali con la Repubblica Popolare sono pieni di rivendicazioni contrastanti in merito a isolette di varie dimensioni oggetto di contenzioso. Inoltre, il Mar Cinese del Sud con le sue tante isole e i confini di sovranità marittima che ne derivano è ricco di petrolio, gas naturale e di fauna ittica, e oltre ad essere una importante via di navigazione può diventare sede di basi militari strategiche.

    Poiché essere prudenti è un bene ma esserlo doppiamente lo è ancora di più, gli Stati Uniti hanno deciso di confermare una seconda “catena” di isole in grado di bloccare ulteriormente transiti giudicati possibilmente “inopportuni” anche da e verso l’Oceano Indiano. Ad est e a sud della precedente “catena” si è quindi rinforzata un’altra alleanza che comprende Guam, Palau, tutta l’Indonesia a partire dalla Nuova Guinea e l’Australia.

    A questo punto diventa comprensibile anche il perché la Cina si senta circondata in modo ostile e cerchi di reagire in qualche modo a partire dal “recuperare” il potenziale nemico più vicino: Taiwan, appunto.

    Pechino è la capitale di uno Stato di più di un miliardo di persone e, considerato che gran parte del suo territorio è desertico, vuole garantirsi la possibilità di nutrire i propri cittadini anche attraverso le importazioni continuative di generi alimentari. Nello stesso tempo sta cercando di far sì che la sua economia continui a svilupparsi e per farlo necessita di rifornimenti energetici che arrivano in gran parte dal Medio Oriente, quindi attraverso l’Oceano Indiano. Esattamente la stessa via che è indispensabile per garantire che le esportazioni che hanno indispensabilmente contribuito alla sua crescita degli ultimi trent’anni possa continuare a rimanere percorribile, qualunque cosa succeda.

    Non è un caso che i cinesi si siano impadroniti (contro la sentenza del Tribunale Internazionale del Mare) di qualche scoglio appartenente alle Filippine aumentandone artificialmente la superficie e installandovi basi militari. Anche tutti gli altri contenziosi aperti con Giappone, Vietnam, Malesia e Brunei puntano allo stesso scopo.

    L’indipendenza di Taiwan non è dunque una questione di confronto tra diversi sistemi di governo né una pura questione di principio. Rientra in un gioco molto più ampio tra una potenza egemone e una che punta a non rimanervi soggetta. Il Mar Cinese Meridionale è oggi il teatro della competizione strategica sino-americana. Come sempre in questi casi nessuno ha tutte le ragioni, ma nemmeno tutti i torti: ognuno dei protagonisti persegue il proprio egoistico interesse e ritiene che sia suo dovere (o necessità) il farlo.

    Come può risolversi la questione? Potrebbe continuare in un apparente stallo per anni ma poi la soluzione starà solamente in uno dei due modi possibili: o si troverà un accordo che consentirà una coesistenza pacifica o si arriverà a uno scontro bellico dalle dimensioni imprevedibili. Purtroppo, anche se non ne sento parlare, una situazione simile si verificò negli anni ’30 del secolo scorso con un Giappone in forte espansione e gli USA che non gradivano cedere il loro controllo sull’Oceano. Allora si cominciò con le sanzioni americane e si arrivò nel dicembre del ’41 a Pearl Harbour.

  • Da Cavaliere a Presidente, a Milano la presentazione del libro di Dario Rivolta su Silvio Berlusconi

    Venerdì 27 settembre, alle ore 18, a Villa Mirabello a Milano (via Villa Mirabello, 6) sarà presentato il libro di Dario Rivolta Al fianco di Silvio Berlusconi, da Cavaliere a Presidente scritto rispondendo alle domande del giornalista dì ‘Liberation’ Eric Jozsef. A parlarne saranno due ex sindaci di Milano, Gabriele Albertini, e Giuliano Pisapia, e l’ex eurodeputata Cristiana Muscardini.

    Tutti loro hanno avuto, per motivi diversi, la possibilità di avere tanti contatti personali con Berlusconi e sono tra i più titolati a valutarne la figura personale e storica. A moderare l’incontro sarà il prof. Stefano Barocci, curatore della collana ed ex diplomatico italiano.

Pulsante per tornare all'inizio