Processi

  • In attesa di Giustizia: l’Italia è una repubblica fondata sui dossier

    Chi ricorda di aver almeno mai sentito nominare il Generale Aldo Beolchini…nessuno, vero? E’ stato – tra le tante cose –  Presidente del Consiglio Superiore delle Forze Armate e, per quello che qui interessa, Presidente della omonima Commissione promossa dal Ministro della Difesa Tremelloni nel 1967 per indagare sulle attività “deviate” del SIFAR diretto dal Generale Giovanni De Lorenzo: sigla dei servizi segreti e nome dell’ufficiale in comando  di cui è, probabilmente, più facile avere memoria per il coinvolgimento nel progetto di golpe denominato “Piano Solo”, la cui realizzazione era stata preceduta da una ricchissima raccolta di dossier su esponenti del mondo politico ed economico. Si parla di oltre 150.000 personaggi pubblici (tra i quali, pare, anche il Papa) dei quali si è analizzata ogni caratteristica, dalle tendenze politiche, alle preferenze in materia di vini, passando per quelle sessuali, amanti reali o presunte ed è curioso (forse non più di tanto) il fatto che Confindustria, in quegli anni, condividesse una “casa sicura” del SIFAR in via del Corso, a Roma con un enigmatico ente interessato alle Applicazioni Tecniche.

    La Commissione Beolchini avrebbe dovuto, poi, procedere alla distruzione di quei dossier ma a causa di non meglio precisati inceppamenti della macchina burocratica ciò non avvenne e, di governo in governo fino al 1974, l’operazione è stata rimandata ed a tutt’oggi non è chiaro se tutto il materiale sia stato effettivamente distrutto e che utilizzo ne sia stato fatto, fermo restano che – fino a quando non è stato tolto il segreto di Stato e la documentazione trasmessa alla Commissione Parlamentare Stragi – anche il lavoro di chi aveva investigato su quella monumentale attività di dossieraggio è rimasta in penombra: quei fascicoli (alcuni mastodontici) costituivano la prima esperienza “repubblicana” di una risalente tradizione italica, basti pensare che buona parte del materiale informativo dell’OVRA era transitato pari pari all’Ufficio Affari Riservati del Ministero dell’Interno e che le finalità non potevano essere che ricattatorie.

    Nel frattempo anche una struttura denominata Servizio di Sicurezza, interna proprio al Viminale, aveva avviato analoga iniziativa di raccolta dati…di anno in anno, da un dossieraggio all’altro si è arrivati fino allo “scandalo Telecom” concluso con la scelta di un capro espiatorio, Giuliano Tavaroli, Vice Presidente dell’azienda con delega alla sicurezza, a pagare per tutti un’altra gigantesca opera di raccolta informazioni di cui – evidentemente – non se n’era e non se ne sarebbe fatto nulla a titolo personale. Ma perché con le indagini non si è andati oltre alle apparenze, è forse possibile che si rischiasse di toccare affettuosi amici e amici degli amici delle Procure?

    E che dire dei curiosoni della Direzione Nazionale Antimafia? Le indagini, forse, diranno chi è stato realmente coinvolto, chi eventualmente sapeva e avrebbe dovuto impedire quelle investigazioni illegali, se qualcuno le ha disposte da un rango superiore e – soprattutto – a che fine, su mandato di chi? Qualcuno ci crede che si arriverà a tanto, che interessi davvero scoprire mandanti e beneficiari?

    Chissà mai che non si rilevi, alla fine, una connessione con l’agenzia Equalize che pare realizzasse consulenze aziendali molto particolari la cui attività è emersa nel corso di indagini proprio su quella criminalità organizzata che è oggetto di attenzione della DNA e della DIA…e i numeri dei dossier, delle persone passate ai raggi X cresce con il potenziale aumentato degli strumenti di controllo: sembra che persino farsi un cafferino sia diventato rischioso perché qualcuno ti osserva e ascolta attraverso la macchinetta dell’espresso.

    Orwell, in fondo, ci aveva visto lungo con il suo “1984” non potendo immaginare che tecnologie future avrebbero reso ancor più inquietante e realistico quello scenario distopico di fantapolitica: persino il tanto vituperato Luca Palamara è stato vittima di dossieraggio perché altrimenti non si può definire una intercettazione con captatore informatico disposta su basi giuridiche inconsistenti, acceso e spento secondo le convenienze e con riversamento dei file audio in server esterni alla Procura di Perugia nei quali hanno potuto mettere le mani (e le orecchie) in chissà quanti.

    In questo preoccupante intreccio di interessi oscuri, spie e dossierati, l’immagine che si ricava è quella di un intero Paese che vive “sotto schiaffo” di qualcuno.

    La storia più recente dimostra la primazia che sta acquisendo la SIGINT, la signal intelligence rispetto alla quale nessuno è più al sicuro: l’indagine della Distrettuale Antimafia della Procura Milanese – tra l’altro – evidenzia un preoccupante buco laddove dagli atti risulta che diversi reati di accesso abusivo alle banche dati sarebbero stati commessi “in concorso con quattordici pubblici ufficiali non identificati”, un accadimento tecnicamente impossibile perché per quegli accessi è necessario inserire le proprie credenziali e siccome nella richiesta di misura cautelare i P.M. non accennano a verifiche in corso per dare un nome e un volto a costoro, gli scenari che si possono dedurre sono molto preoccupanti.

    Infatti, o manca la volontà di individuare questo nutrito gruppo di infedeli servitori dello Stato oppure in alternativa si può pensare ad una gestione approssimativa degli accessi alle banche dati e controlli interni all’acqua di rose che consentano ai responsabili di restare ignoti.

    L’ultima eventualità è forse la più probabile e più inquietante: che si tratti di agenti dei servizi segreti ed in questo caso l’attesa di giustizia sarebbe subordinata ad imprevedibili sviluppi.

  • In attesa di giustizia: facce da tribunale

    I lettori di questa rubrica si sono abituati ad avere un po’ l’amaro in bocca dopo aver letto il resoconto settimanale – e neppure completo – dello sprofondo in cui giace il nostro sistema – giustizia tra legislazione sciatta e giurisdizione approssimativa, per usare garbati eufemismi.

    Questa settimana la scelta è stata quella di fare autopromozione di un mio libro che è in uscita nei prossimi giorni e che racchiude le memorie – anche queste non complete – di una lunga vita professionale: un racconto scandito in capitoli che non sono una sequenza narrativa ma hanno un fil rouge: la memoria, appunto, di chi ha conosciuto quei personaggi (la maggior parte dei quali rinominati con nomi di fantasia e contesti leggermente mutati per evidenti ragioni) ha vissuto quelle storie in prima persona e ne ha distillato una raccolta per descrivere il cui contenuto è bene lasciare la parola al mio straordinario editore, Brenno Bianchi e alla bravissima editor Ilaria Iannuzzi che del libro hanno curato la sinossi.

    Il Marchese di Popogna, chi era costui? Lo si scoprirà avventurandosi un capitolo dopo l’altro in questa galleria di “facce da tribunale: imputati, magistrati, cancellieri, avvocati veri e improvvisati.

    Il lettore viene scortato nei vicoli labirintici dei palazzi di giustizia ad incontrare artisti della truffa in abito talare, eleganti falsari specializzati in cartamoneta coloniale ed impeccabili baciamano, colleghe trascinate in improbabili storie di spionaggio sullo sfondo degli Champs Elysèes…aneddoti di una carriera che ha attraversato decenni della storia giudiziaria del nostro Paese: dai tempi perduti della mala milanese, fatta di rapinatori audaci alla guida di auto truccate e contrabbandieri ammantati di romantica ribalderia, all’era delle pec e delle udienze celebrate on line in cui Pretori e Cancellieri si sono dileguati insieme alla ligèra e alla schighèra.

    Con penna sempre brillante e intinta di fine ironia, l’autore intesse una narrazione fatta di episodi leggeri, talvolta paradossali, così come di vicende umane intense, fino ad aprire una finestra sulla speranza che deve assistere l’uomo anche quando si è macchiato di un crimine.

    Tra tanti racconti sorprendenti, ricordi toccanti e qualche burla, Il Marchese di Popogna ed altre storie è un’incursione in un mondo affascinante, un mondo adiacente al nostro, popolato da veri e propri caratteristi che rivelano il lato umano e non da tutti conosciuto della Giustizia.

    I lettori mi scuseranno per questa scelta di fare “consigli per gli acquisti” offrendo loro l’anteprima di uno scritto personale ma, proprio arrivando in fondo al lavoro mi sono reso conto di un aspetto non banale: la maggior parte dei personaggi e degli eventi appartengono a prima della Guerra dei Trent’anni, quella iniziata con Mani Pulite ed ancora non vede una fine e che ha visto opposte una politica debole ed una magistratura debordante occuparne gli spazi lasciati liberi, con buona pace del principio della separazione dei poteri dello Stato.

    Forse, leggendo quel libro, il non addetto ai lavori, insieme ad un sorriso potrà coltivare la speranza che quel tempo, quello che Brenno e Ilaria definiscono “della Giustizia dal volto umano”, non sia perduto per sempre: noi siamo ciò che siamo stati e il culto della memoria è il miglior viatico per guardare con rinnovato ottimismo ad un futuro.

    In attesa di Giustizia.

  • In attesa di Giustizia: gratta e… perdi

    Negli ultimi giorni Nicola Gratteri, Procuratore Capo di Napoli, si è scatenato emettendo autentiche grida manzoniane con le quali preannuncia che spezzerà le reni all’abusivismo edilizio nei Campi Flegrei facendo radere al suolo le abitazioni illegalmente costruite e disseminerà tutta la provincia di telecamere di sorveglianza: tutto molto giusto, perché, se l’abusivismo edilizio è un fenomeno da contrastare fermamente in territori a rischio, lo è a maggior ragione nelle solfatare in un periodo storico in cui l’attività sismica costituisce un concreto pericolo per l’incolumità della popolazione residente in strutture prive dei necessari standard di sicurezza.

    Anche la estensione della rete di videosorveglianza è un’esigenza avvertita in zone ad elevata densità criminale per fronteggiare l’evolversi delle iniziative delinquenziali per le quali non sono più sufficienti gli storici servizi di OCP (Osservazione, Controllo e Pedinamento) delle Forze dell’Ordine i cui ranghi sono inadeguati ad assicurarli attese le aumentate dimensioni della realtà delinquenziale e le molteplici funzioni di istituto già assegnate a Polizia e Carabinieri che sottraggono risorse umane ai pedinamenti che richiedono, oltretutto, notevole attitudine.

    Tutto molto giusto, ma la domanda è: ci sono i fondi? Regione Campania e Comune di Napoli ne hanno stanziati proprio per la installazione di telecamere ma non è chiaro se siano destinati ad implementare la rete o a sostituire quelle obsolete o guaste; quanto agli abbattimenti, che ne sarà degli abitanti di quelle case che di un tetto hanno comunque bisogno?

    Non bastano gli annunci: servono progettualità, dati concreti, come direbbe un imprenditore avveduto un business plan, altrimenti con le chiacchiere stiamo a zero…e di chiacchiere Gratteri ne riempie i giornali, gli eventi cui partecipa, le trasmissioni televisive cui è invitato ma mai una volta che qualcuno gli chieda conto dei disastri che ha combinato. O che lui ne faccia ammenda.

    Chissà, per esempio, come commenterebbe una delle sue ultime intraprese prima di lasciare la Procura di Catanzaro per quella di Napoli: la solita indagine celebrata con squilli di tromba, nel 2021 al momento delle manette per otto persone accusate di associazione a delinquere finalizzata allo smaltimento illecito di rifiuti, investigazioni che coinvolsero anche l’ex vice governatore della Calabria Antonella Stasi ed un gruppo di cui era al vertice con quarant’anni di storia ed oltre quattrocento dipendenti: secondo i P.M., Gratteri in testa, alimentava un impianto di biogas con biomasse di origine vegetale e animale  in modo non conforme alla normativa e smaltiva illecitamente i rifiuti conseguendo, tra l’altro, incentivi pubblici non dovuti.

    Non bastando le misure cautelari, la GdF sequestrò beni per quasi quindici milioni di euro e l’azienda venne posta sotto amministrazione giudiziaria con al timone il solito commissario giudiziario completamente analfabeta delle capacità gestionali indispensabili per mandare avanti una simile realtà: del resto, abbiamo visto che di business plan Gratteri per primo non se ne intende.

    Gratt…e perdi ed è’ storia recentissima, solo l’ultima di troppe: gli imputati, per i quali già il Tribunale della Libertà aveva subito annullato le misure cautelari, sono stati tutti assolti ma l’azienda è stata portata sull’orlo del fallimento, i licenziamenti e l’accumulo di debiti con i fornitori non si contano e rimetterla in sesto non sarà una passeggiata di salute. Per le ingiuste detenzioni esiste la riparazione del danno in termini economici ma per il provocato ed ingiusto dissesto di un’impresa, la perdita di posti di lavoro e di chances, grazie anche alla incapacità di coloro cui è stata affidata, non vi sono rimedi, la legge nulla prevede e chissà se Gratteri definirebbe grottesca una norma a tutela delle imprese di tal senso come ha fatto parlando della recente stretta normativa sull’adozione delle misure restrittive personali che rischia di guastargli il divertimento preferito: di grottesco, per ora, rimane la maschera con cui, in talune Procure, si continuano a celebrare fallimenti investigativi annunciati.

  • In attesa di Giustizia: Gotterdammerung

    La Caduta degli Dei è il quarto ed ultimo dei drammi musicali della tetralogia “L’anello del Nibelungo” di Wagner: se vogliamo attualizzare questa saga, ciò è ben possibile paragonandola ai mutamenti ed al crollo di credibilità della magistratura grazie anche ad alcuni dei primi protagonisti della sua “presa di potere”.

    Un primo capitolo lo ha scritto quell’Antonio Di Pietro, primo motore e figura emblematica del Pool Mani Pulite, con le sue mai spiegate ed improvvise dimissioni dall’Ordine Giudiziario cui fecero il paio ondivaghi abboccamenti con la classe politica, compresa quella di cui era stato fiero avversario, prima di iniziare una avventura personale con “L’Italia dei Valori” destinata ad esaurirsi piuttosto rapidamente ma non prima di avere offerto spunti di discesa in campo a un cabarettista genovese ed alla sua compagnia di giro della quale è il capocomico indiscusso. Ora, il Tonino nazionale si è posto agli antipodi delle sue origini poliziottesche e della sua storia politica trasformandosi in avvocato cultore del garantismo arrivando persino a dire che “la motivazione per cui non si può rimettere in libertà Toti è insostenibile”. Fuori uno.

    Analogamente, un altro ex P.M. del Pool, Gherardo Colombo – uomo, peraltro, di indiscutibile raffinatezza di pensiero – dopo aver tollerato per anni i metodi di impiego della carcerazione preventiva da parte della Procura di Milano, ora sostiene che della custodia cautelare non si deve abusare perché il timore del carcere non è comunque dissuasivo dalla commissione di reati. Fuori due…e veniamo ai grandi protagonisti della saga.

    C’è quello che aveva detto di voler ribaltare l’Italia come un calzino, che i P.M. erano la crème de la crème della società e che non ci sono innocenti ma solo colpevoli che l’hanno fatta franca: seguendo il suo stesso dogma che dire, allora, della condanna che ha riportato per violazione del segreto istruttorio, confermata in appello. Noi siamo garantisti e fino al terzo grado di giudizio lo consideriamo presuntivamente innocente ma non è senza soddisfazione notare che anche le sue comparsate televisive – rigorosamente in assenza di interlocutori che lo possano sbugiardare – si sono ridotte al lumicino e le sue ribalderie e fandonie restano confinate in qualche articolo di fondo del Fatto Quotidiano, fruibili esclusivamente da coloro che non usano quel quotidiano per gli scopi meno nobili. Fuori tre.

    Il gran finale è stato scritto, pochi giorni addietro, da Fabio De Pasquale, altro storico componente del Pool Mani Pulite: il gruppo di lavoro che ha fatto carta straccia delle garanzie processuali interpretando il codice secondo quello che venne definito “rito ambrosiano”. E non era un complimento. Condannato, come Davigo, a Brescia che è la sede competente per i processi a carico dei magistrati milanesi.

    Forse proprio perché è uno di quelli che del codice si è fatto beffe e lo ha sempre interpretato alla sua maniera, De Pasquale ignorava che l’interrogatorio dell’imputato avviene dopo quello dei testimoni di accusa per consentire una difesa più completa possibile: il suo esame dibattimentale – ne abbiamo scritto su queste colonne – per semplificare il concetto è stato di tafazziana ispirazione rifacendosi al caratterista della Gialappa’s Band che si martellava da solo le gonadi con una bottiglia…otto mesi di galera anche a De Pasquale per avere – bricconcello che non sei altro – nascosto prove decisive a favore degli imputati pur di vincere un processo. Sempre in nome del garantismo continuiamo a considerarlo non colpevole fino a sentenza definitiva: nel frattempo è stato “retrocesso” nientemeno che dal CSM da Procuratore Aggiunto di Milano a semplice Sostituto e magari lo assolveranno in appello ma, nel frattempo, avrà fatto la fine di tanti suoi indagati con la reputazione rovinata a prescindere da quando e come si conclude un giudizio. Fuori quattro.

    La caduta degli dei sembra conclusa con quella che più che una nemesi è una parabola in caduta libera del Pool a suo tempo più osannato d’Italia che, riadattando il Davigo – pensiero, potrebbe così descriversi: non esistono innocenti ma solo giustizialisti che non hanno ancora scoperto quali danni possa provocare una magistratura decisa a difendere i propri privilegi e potere con i denti e la consuetudine a restare impunita.

  • In attesa di Giustizia: il marchese di Popogna ed altre storie

    “Se per qualsiasi infermità giudicata permanente o per sopravvenuta inettitudine un magistrato non può adempiere convenientemente ed efficacemente ai doveri del proprio ufficio, è dispensato dal servizio previo parere conforme del Consiglio Superiore della Magistratura”.

    Fascisti, carogne, tornate nelle fogne! Sembra già di sentir tuonare la Giunta dell’ANM ma…ma questo non è il testo del tanto avversato disegno di legge che mira ad introdurre i test psico attitudinali, bensì il primo comma dell’articolo 3 del decreto legislativo n. 511/1946 che declina le Guarentigie della Magistratura, approvato su proposta e firmato dal Guardasigilli dell’epoca, Palmiro Togliatti. Ed è tutt’ora vigente.

    Le leggi ci sono e basta applicarle. Le Guarentigie non ne parlano ma i test psicoattitudinali appaiono indispensabili per darvi attuazione: con cadenza periodica oppure secondo le necessità nel corso della carriera; il testo licenziato dal Consiglio dei Ministri è sicuramente migliorabile e dovrebbe essere proprio l’ANM ad offrire utili contributi prendendo le mosse proprio dalle Guarentigie senza fingere di ignorarne le disposizioni più scomode; quanto alla opposizione, è il momento di ispirarsi, in generale,  al pensiero di grandi statisti del passato piuttosto che a quello di nuovi campioni della sinistra come Fedez e Sumahoro.

    Ed il Marchese di Popogna cosa c’entra in tutto questo? Sembra il titolo di un film di Alberto Sordi ma è il titolo nobiliare, per l’esattezza “Marchese di Popogna e dello Andirivieni” di un magistrato autoproclamatosi tale, che pretendeva di farsi chiamare “Marchese” dagli avvocati e si era fatto stampare biglietti da visita con tanto di corona a dodici perle, uno che fece proposta di nozze ad una giovane insegnante con il garbato approccio: “Signorina, siete bona e mi avete fatto eccitare”: fu sospeso dopo una visita medica disposta dal Capo del suo Ufficio ma solo per un anno…infine, dopo altri tre anni, si dimise ma solo a condizione (esaudita) di essere insignito del titolo di Commendatore della Repubblica al Merito.

    Vi sono molti altri esempi di appartenenti all’Ordine Giudiziario che, in virtù della garantita inamovibilità e della mancanza di test, prima di essere dispensati dal servizio hanno dispensato giustizia a modo loro per anni: ce ne sono voluti dieci al CSM per decidere il caso di uno che aveva accumulato un arretrato di quasi novecento fascicoli, mai esaminati, e che al concorso per la Polizia di Stato era stato scartato proprio perché, sottoposto ai test (in quel caso previsti) aveva evidenziato “fragilità emotiva”.

    Un altro ancora, ufficialmente dichiarato infermo di mente nel corso di un giudizio, prima che si concludesse l’iter per la destituzione, collezionando con il passar del tempo una promozione dopo l’altra, è andato a riposo per raggiunti limiti di età con il titolo onorifico di Primo Presidente aggiunto della Corte di Cassazione.

    C’è stato anche chi si era convinto che nel ristorante in cui si recava abitualmente gli mettessero i chiodi nella minestra e aveva denunciato il titolare. E che dire di quello che si aggirava per il suo tribunale gridando “A noi le belle femmine, schiaffoni per tutti” ed in udienza annunciava che “il santo ha detto che oggi sono schiaffoni per tutti”?

    Finiamola qui, sono solo alcuni dei molti esempi. Purtroppo l’infermità non può consistere (almeno per il C.S.M.) in semplici estri o bizzarrie ma deve essere conclamata come un irreversibile disturbo della personalità: senza i test ciò è di fatto impossibile perché nessuno psicoterapeuta si presterebbe a formulare una simile diagnosi in assenza di un quadro normativo che regoli la materia e con il rischio – in caso di errore – di essere chiamato a rispondere delle conseguenze.

    A gennaio si è concluso il reclutamento del Comando Subacqueo degli Incursori della Marina e su oltre 1.300 candidati meno dell’1% ha ottenuto il brevetto e la consegna del prestigioso basco verde dei COMSUBIN: tutti sono stati sottoposti a severi test tra cui quelli psicoattitudinali e nessuno – nemmeno tra le centinaia ritenuti non idonei – si è lamentato. Ma questa è un’altra storia.

  • In attesa di Giustizia: bene ma non benissimo

    Carlo Nordio ha preannunciato che questa settimana porterà in Consiglio dei Ministri la bozza di disegno di legge che prevede la somministrazione di test psico attitudinali per i magistrati che dovrebbero consistere sostanzialmente in una terza prova da sostenere dopo avere superato quelle scritte e l’orale del concorso.

    L’ Associazione Nazionale Magistrati, non c’è bisogno nemmeno di dirlo, strepita sostenendo che si tratti di una prova irragionevole e – forse – non ha tutti i torti seppure per ragioni diverse da una trasparente tutela della casta.

    In effetti – se quello nei termini riassunti sarà il criterio – la modalità è poco convincente: innanzitutto, se proprio si deve, sembrerebbe meglio che i test vengano somministrati prima di partecipare al concorso e non dopo per così evidenti ragioni che non vale neppure la pena di enumerarle: se, poi, il neo magistrato dovesse mostrare segni di un sopravvenuta inidoneità o squilibrio tutto ciò potrà ben essere rilevato durante il periodo di tirocinio da coloro a cui è affidato con le necessarie conseguenze.

    In secondo luogo, non è da escludere che una deriva psico fisica si possa verificare più avanti nel corso della carriera ed, allora, una soluzione maggiormente sensibile all’esigenza di garantire che il destino giudiziario dei cittadini sia affidato a magistrati compos sui può essere quella ipotizzata già molti lustri addietro da un avvocato piacentino, Carlo Tassi, e proposta senza fortuna nella sua veste di deputato del Movimento Sociale.

    Per quello che, con una certa frequenza, si annota in questa rubrica casi meritevoli di un check up non mancano e, del resto, è nella natura delle cose che un uomo possa subire un decadimento mentale o fisico che lo renda inabile a determinate mansioni: non c’è nulla di cui sgomentarsi, test analoghi sono previsti in altri Paesi come la Francia e la Germania, nel nostro li fanno i militari, gli appartenenti alle forze dell’ordine e nessuno si indigna se viene richiesto di rinnovare periodicamente la patente di guida o il porto d’armi: si tratta solo di prendere le misure necessarie a bilanciare il principio di inamovibilità dei funzionari pubblici prendendo le dovute distanze dal pur brillante pensiero espresso da Erasmo da Rotterdam nel suo “Elogio della follia”.

    Nel frattempo prende quota l’indagine della Procura di Perugia sugli accessi abusivi alle banche dati e il possibile “dossieraggio” ad opera di un militare della Guardia di Finanza distaccato alla Direzione Nazionale Antimafia e dal suo superiore, il P.M. Antonio Laudati: tra sussurri e grida, più che altro uno scaricabarile tra i personaggi coinvolti, spicca la scelta di quest’ultimo di avvalersi della facoltà di non rispondere all’interrogatorio  opportunamente disposto dal Procuratore Capo umbro, Raffaele Cantone.

    Lo abbiamo chiarito più volte: il diritto al silenzio per l’accusato è un canone costituzionale implicito nel secondo comma dell’articolo 27 ed espressamente previsto dal codice; essendo l’interrogatorio un atto di natura essenzialmente difensiva, ognuno ha diritto di difendersi come ritiene più opportuno, anche tacendo.

    L’esercizio di questo diritto spetta, ovviamente, anche a Laudati ma non è trascurabile il dettaglio che al silenzio di fronte a Cantone abbia fatto seguire la distribuzione, tramite il suo avvocato, di una nota scritta in cui, viceversa, risponde dettagliatamente alle contestazioni che erano state formulate nell’invito a comparire in Procura e che avrebbero costituito il fil rouge dell’interrogatorio senza trascurare qualche bordata all’indirizzo dell’allora Procuratore Nazionale…ed il trasferimento di una delicata fase investigativa, che dovrebbe essere scongiurato, dalle aule di tribunale alla stampa a “redazioni unificate” è servito.

    Bene ma non benissimo, anche questa settimana ed in attesa di giustizia le ombre sono più delle luci: non c’era da aspettarsi nulla di buono, particolarmente in periodo di Passione quando si celebra il ricordo del più clamoroso errore giudiziario della storia.

    Buona Pasqua a tutti.

  • In attesa di Giustizia: lo show dei record

    Ci sono primati da Guinness di cui si farebbe volentieri a meno ma tant’è, se non proprio celebrati, devono almeno essere documentati.

    Il merito, si fa per dire, questa volta va ascritto al P.M. anglo-partenopeo Henry John Woodcock, già campione europeo di competenza creativa ai tempi in cui era in servizio a Potenza quando, saccheggiando le riviste di gossip piuttosto che informative (peraltro inesistenti) della Polizia Giudiziaria diede vita alla celeberrima indagine nota come “Vallettopoli”: un feuilleton in salsa Dagospia, frantumatosi in rivoli investigativi distribuiti a manciate in diverse Procure della Repubblica che, dopo aver sbirciato dal buco della serratura delle discoteche alla moda cosa facevano nel tempo libero veline, calciatori, nani e ballerine, ha esitato qualche modesta condanna per piccole cessioni di cocaina ad uso “socializzante” ed, in compenso, uno sputtanamento ad alzo zero per fatti  totalmente privi di rilevanza penale.

    Ma è con l’indagine “CONSIP” che sono stati raggiunti risultati da pessima gestione investigativa posti su vertici che mai nessuno aveva mai osato scalare: tutti assolti gli imputati e condannati solo i responsabili delle indagini…game, set, match! Nemmeno quelle Procure che nascondono i testi a discarico, almeno per ora, erano riuscite a tanto.

    Qualche esempio può illustrare plasticamente la manettara approssimazione con cui è stato utilizzato il materiale raccolto, tra l’altro, invadendo l’esistenza dei cittadini con migliaia di costose quanto inutili intercettazioni: secondo Johnny Woodcock in una di queste – sfruttata come caposaldo dell’accusa – sarebbe risultato che in un’azienda fosse stato addirittura istituito il ruolo di “responsabile del crimine”, dunque un’impresa  a matrice esclusivamente delinquenziale.

    Da un magistrato bilingue ci si sarebbe aspettato di meglio: un riascolto dell’intercettazione ha chiarito senza lasciare spazio a dubbi che la funzione cui si alludeva era quella di “responsabile cleaning”, cioè a dire l’addetto alle pulizie. Ci sarebbe da ridere, tutti tranne Woodcock che all’evidenza, ha una conoscenza spannometrica anche dell’inglese, se non fosse che c’è chi sulla base di accertamenti tanto grossolani ha subito mesi di carcerazione come l’imprenditore Romeo: sei in galera ed altrettanti agli arresti domiciliari. Complimenti vivissimi anche al GIP che ha accolto le domande di arresto, per non parlare di quello che ha disposto rinvii a giudizio fondati su di un vuoto torricelliano…

    L’evanescenza dell’impianto probatorio, forse, era palese anche agli inquirenti e sin da subito tanto è vero che sono stati chiamati in soccorso i più fidati lacchè della carta stampata, con fuga pilotata di notizie che avrebbero dovuto restare riservate (inutile fare nomi delle redazioni destinatarie: possono facilmente immaginarsi e, comunque, risultano dalla sentenza): ecco, allora, i titoli cubitali e gli articoli copia e incolla di una informativa degli uomini di Woodcock contenente grossolane falsità.

    Su questa melma sono state scritte paginate di disinformazione e persino un libro; è uno Show dei record che fa inorridire ma non è finita: conclusa questa prima tranche  del processo a Roma, una seconda è ancora in corso a Napoli con immutati protagonisti ed interpreti e può immaginarsi con quale credibilità agli occhi del Tribunale, a tacere del fatto che il P.M. – sempre Enrico l’Inglesino – non ha più l’interesse a stabilire la verità ma quello di ottenere condanne per provare a salvare se stesso.

    E il C.S.M.? Tutto tace, mentre i cittadini si pongono delle domande: che garanzie si potranno mai avere se si dovesse diventare bersaglio in una delle sbilenche inchieste di un magistrato incorso in incidenti di percorso così gravi e senza precedenti nel mondo Occidentale? Se Roma piange, Sparta non ride ma questa è una piccola consolazione solo per la devastata Repubblica della Procura di Milano.

  • In attesa di Giustizia: il carcere è anche questo

    Con queste parole, la voce incrinata, il Direttore di San Vittore, meritatamente insignito dell’Ambrogino d’oro, ha congedato il pubblico esterno e i detenuti presenti per la tradizionale proiezione della Prima della Scala nella Rotonda dell’istituto penitenziario interrotta durante il secondo atto: un’impiccagione nel quinto reparto e chi conosce un po’ i movimenti del carcere aveva già capito l’allarme, le corse, l’agitazione.

    Un ennesimo suicidio che come ognuno ha ragioni proprie e va rispettato in quanto dramma unico e l’aggettivo “ennesimo” vale solo a sottolineare uno sgomentevole dato quantitativo: sessantasei da inizio anno, ma che contribuisce a farci sentire tutto il peso della attuale situazione delle carceri. Lo aveva detto proprio il Direttore parlando di una situazione drammatica con oltre mille detenuti che non rallentano l’impegno per andare avanti, continuando a credere in un lavoro di grande sacrificio e, ovviamente, nella necessità di portare dentro al carcere la società per momenti di riflessione. Un contributo in tal senso lo diede prima della pandemia proprio il Gruppo Toghe & Teglie, che cura in queste pagine la rubrica di cucina, con due cene aperte ad un pubblico esterno, nel giardino della sezione femminile, eventi dal titolo simbolico “A Tavola con la Speranza”.

    La contraddizione è esplosa in occasione di una ricorrenza in cui va tutto bene, o si finge che così sia, pur consapevoli – e soprattutto noi avvocati lo siamo – che dietro alle cancellate dei reparti ci sono  disperazione,  sovraffollamento,  materassi per dormire per terra, i blindi chiusi, la carenza di igiene, una vita invivibile che aggiungono pene a quella della privazione della libertà andando in senso opposto al progetto di rieducazione dei condannati che dovrebbe essere coltivato nell’interesse comune, nell’ottica di un recupero non solo di esseri umani ma di quella sicurezza che – a parole – sembra stare a cuore a tutti.

    Sessantasei vite umane, un atroce conteggio che non può essere liquidato come un arido bilancio consuntivo di fine anno quando è in conto l’esistenza di persone affidate alla cura di uno Stato che dovrebbe restituirle migliori alla collettività: un elenco che si allunga inesorabilmente, nell’indifferenza di governi che guardano al pianeta carcere con cinica indifferenza, spesso utilizzandolo come emblema di una recuperata incolumità dei cittadini nella salvifica funzione di discarica sociale meramente afflittiva.

    Ora vi è solo da augurarsi che questo evento drammatico, verificatosi in un momento particolare, sia in grado di scuotere le coscienze di chi continua a credere che le carceri possano essere stipate all’inverosimile, e non solo nell’interesse della popolazione detenuta in senso stretto.

    Infatti, oltre ai carcerati non si deve dimenticare tutto il personale, civile ed in divisa, tutti quelli che entrano in carcere anche solo per dare una mano, e che fanno sì che San Vittore – e come San Vittore tutti gli altri Istituti non uno escluso – ogni giorno stia in piedi, nonostante un destino avverso. La cosiddetta società civile dovrebbe mobilitarsi ed esserci, fare proposte in ogni occasione in cui si parli dei progetti positivi che in carcere malgrado tutto esistono, evitando che i penitenziari restino invisibili ai più: strutture lontane dagli occhi e dal pensiero di chi non se ne vuole occupare.

    Ed è a costoro che si deve ricordare che una detenzione dignitosa è un diritto e che devono essere attivati gli strumenti affinché condizioni disumane cessino e prima ancora che sia definitivamente abbandonata la visione carcerocentrica di una giustizia penale che guarda poco o nulla alla effettiva dissuasione e meno ancora al fattore rieducativo della pena proseguendo nello sterile percorso di affrontare ogni emergenza con l’introduzione di nuovi reati o inasprendo le pene per quelli già previsti mentre non si può continuare a fare finta di niente, non più.

  • In attesa di Giustizia: Abracadabra

    Abhadda kedhabrha in aramaico vuol dire “sparisci come questa parola” e, probabilmente, il vocabolo “abracadabra”, in uso nella magia mistica e come noi lo conosciamo, deriva proprio dalla versione nella antica lingua semitica.

    Oggi è usato universalmente e senza altre traduzioni come formula magica: magia bianca o magia nera? Nel dubbio, pensando al significato originario, se qualcuno la pronuncia in vostra presenza – peggio che mai se indirizzata proprio a voi – prestate la massima attenzione perché, forse, sta tentando di uccidervi…

    Con la magia nera non si scherza, è l’insegnamento che tramite questa rubrica perviene dalla Autorità Giudiziaria di Genova nell’ambito di una vicenda cui si era già alluso con sintesi in un numero precedente. Ora ci sono degli sviluppi e per questo seguito non possono prendersi in considerazione altre reali possibilità che, per equivoco, un Pubblico Ministero di Genova invece che le sue compresse per la pressione o la prostata, abbia assunto peyote o LSD proveniente dall’Ufficio Corpi di Reato.

    Comunque sia, anche questa settimana si registrano iniziative (e decisioni) assunte con sprezzo del ridicolo; ricapitoliamo: un’avvocata genovese viene imputata per avere sottratto un milioncino abbondante di euro ad un’anziana signora per la quale svolgeva la funzione di amministratrice di sostegno. E fin qui tutto normale, anzi, per quanto appreso sembra che le prove a carico della professionista siano piuttosto solide ma nel corso delle indagini è emerso anche un fatto piuttosto singolare e cioè che l’imputata, il cui telefono era intercettato, intentò l’omicidio della sua assistita dando mandato…a un sicario di professione, qualcuno reclutato nel dark web? Nossignori, complice dell’avvocata, che contribuisce acquistando delle candele rituali nere, diventa una fattucchiera esperta in voodoo.

    Spille, spillette e spillettoni ma, fortunatamente e come prevedibile, la vittima predestinata sopravvive alle punzecchiature di bamboline e feticci: sarà che a Genova non ci sono le esperte di Port au Prince ma il Pubblico Ministero (sempre immaginandolo sotto l’effetto non voluto di sostanze stupefacenti) chiede il rinvio a giudizio accusando di tentato omicidio l’avvocata, mentre la maga la fa franca per ragioni – a questo punto – ancor meno comprensibili.

    Il processo si è tenuto nei giorni scorsi, sebbene una data in prossimità di Halloween sarebbe risultata più consona ai fatti, e il Giudice ha pronunciato una sentenza di condanna non solo per la malversazione dei denari ma anche per il tentato omicidio pur ritenendo che il reato fosse da considerare impossibile (bontà sua, la magia nera non è stata considerata un mezzo idoneo) ma che il comportamento dell’accusata sia espressivo di pericolosità sociale giustificando un anno e mezzo di libertà vigilata, probabilmente con il divieto di frequentare medium, negromanti ed indovini.

    Insomma, un omicidio impossibile perché tentato con mezzi che non consentono di ritenere neppure l’esistenza di un “quasi reato” e, francamente, vi è da dubitare anche di una effettiva, maggiore, pericolosità sociale di colei che – tutt’al più – deve considerarsi una disonesta amministratrice: vi è, in sostanza, da dubitare altresì che vi fossero i presupposti anche per la libertà vigilata.

    Però, non si sa mai e lo ha detto la Procura di Genova: se vi capitasse di essere bersagliati da qualche preoccupante “abracadabra”, sappiate di essere nelle condizioni per reagire in stato di legittima difesa.  Però non sparate perché con le streghe l’unico metodo efficace ma piuttosto complicato è il rogo: meglio, allora pronunciare un più efficace scongiuro “aglio e fravaglia, fattura ca nun quaglia, corna e bicorna” e, senza restare in attesa,  farvi Giustizia da soli.

  • In attesa di Giustizia: contrappasso

    C’è qualcosa di allegorico, cabalistico, nella parabola professionale e di vita di Piercamillo Davigo che da magistrato del Pubblico Ministero aveva promesso di “rivoltare l’Italia come un calzino” magnificando lo standing dei suoi colleghi di funzione: “i magistrati sono il meglio della società civile ed i pubblici ministeri sono il meglio del meglio del meglio”, poi da giudicante aveva presieduto i Collegi di Corte d’Appello e di Cassazione  trasformandoli in altrettanti Comitati di Salute Pubblica; del resto, ipse dixit, non ci sono innocenti ma solo colpevoli che non sono ancora stati scoperti. Anche lui, viene ora da chiedersi?

    L’inesorabile trascorrere degli anni gli ha fatto terminare anzitempo la consiliatura al C.S.M. e da pensionato ha intrapreso quella di editorialista per un quotidiano giacobino che, nella versione cartacea, può essere destinato solo agli scopi meno nobili. Ma la parabola non si era ancora conclusa: l’ultima delle esperienze nel mondo della giustizia l’ha fatta in un ruolo che mai avrebbe immaginato, a stretto contatto – orrore! – con un avvocato cui ha affidato il compito di difenderlo smentendo se stesso a proposito del giudizio di appello, ritenuto superfluo e causa di malfunzione del sistema, ma che ha già preannunziato dopo la sua condanna.

    Quest’ultimo segmento di vita è stato scandito anche da correlazioni enigmaticamente realizzatesi: Davigo è stato rinviato a giudizio proprio nel giorno in cui ricorreva il trentennale dell’arresto di Mario Chiesa che diede inizio alla macelleria giudiziaria di “Mani Pulite” di cui è stato indiscusso protagonista e la sua sentenza di condanna è stata pronunciata mentre si celebrava la memoria di Silvio Berlusconi che, praticamente da solo, ha dato per decenni motivo di esistere alla Procura di Milano ed alla “casella delle lettere” messa a disposizione dal Corsera: se si vuole sapere il perché e gli si vuole dare credito, basta leggere il primo libro intervista di Luca Palamara con Sallusti.

    Torniamo a Brescia: il momento della lettura di una sentenza è un passaggio di grande solennità che si ascolta in piedi e le prime parole sono sempre “In nome del Popolo Italiano…” dando corpo al canone 101 della Costituzione; in nome di quel Popolo, a rappresentarlo durante la pronuncia di condanna, vi era anche Francesco Prete, che è il Procuratore Capo di Brescia, a fianco dei suoi sostituti che avevano condotto le indagini ed il dibattimento: un gesto volto a dimostrare che in quell’Ufficio ci si era mossi con iniziative condivise e probabilmente anche sofferte perché rivolte nei confronti di un ex collega.

    Francesco Prete, ai tempi di Mani Pulite, era un giovane P.M. in forza proprio a Milano e la sua stanza era vicina a quella di Davigo ma non ha mai fatto parte del famoso (o famigerato) pool: lavoratore, equilibrato, studioso, il suo tragitto professionale lo ha portato a dirigere tre Procure (Vasto, Velletri ed infine Brescia) senza mai cercare il “colpo di teatro”, l’inchiesta sensazionalistica che aiuta la carriera o – comunque – offre notorietà e non l’ha perseguita nemmeno ora che le regole di competenza per i processi ai magistrati assegnano a Brescia i procedimenti a carico di quelli milanesi e proprio la sua Procura di un tempo rivela l’esistenza di un verminaio di prassi opache, per usare un termine garbato, di cui si è sempre avuto il sospetto: Francesco Prete ha mantenuto un basso profilo con interviste ridotte al minimo, riserbo e parole misurate che dovrebbero essere patrimonio di chi svolge ruoli sensibili come il suo.

    Contrappasso anche in quest’ultima immagine che raffigura due uomini divenuti inaspettatamente avversari e due modi diversi di interpretare la funzione giurisdizionale mentre un comunicato della Giunta dell’Unione Camere Penali, senza (troppo) sarcasmo, auspica che nel futuro di Davigo, ora che ha scoperto il diritto all’appello, vi siano Giudici con una concezione delle impugnazioni diversa dalla sua.

    Ci mancava la solidarietà, obiettivamente un po’ di maniera, del nemico di sempre per trasformare in fiele il contenuto del calice già amarissimo toccato in sorte all’ultimo (speriamo) dei grandi inquisitori.

    Un augurio di buona sorte, nel rispetto della presunzione di innocenza non si nega a nessuno e lo formuliamo anche noi ma quello in cui è inscritta la parabola discendente di Piercamillo Davigo è come un arazzo che, attraverso ironie e contrappassi, sembra intessuto di una Giustizia quasi poetica.

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