Processi

  • In attesa di Giustizia: parole, parole, parole

    Nei giorni scorsi il Presidente MATTARELLA si è nuovamente insediato al QUIRINALE, prestando giuramento alle Camere e pronunciando il tradizionale discorso che, altrettanto tradizionalmente, è di alto contenuto istituzionale ma dai contenuti prudentemente generici nel rispetto del ruolo di garanzia che gli è affidato cui corrispondono l’autonomia del Parlamento e del Governo.

    Questa volta, diversamente dal passato, qualcosa di nuovo e di buon auspicio – rispetto ai soliti richiami alla nobiltà della politica, ai principi costituzionali, la solidarietà verso i più deboli… –  si è colto nelle parole del Presidente: una forte sollecitazione alla necessità di riformare la giustizia.

    E’ un tema sul quale MATTARELLA, nei sette anni precedenti, ha mantenuto un atteggiamento che eufemisticamente si potrebbe definire cauto: sette anni di disgrazie, tra l’altro, caratterizzati dall’“affaire” Palamara, dall’occultamento di prove a favore di imputati da parte della Procura di Milano e dai molti altri scandali che hanno assestato colpi formidabili alla autorevolezza della magistratura (m, rigorosamente minuscola).

    Sette anni nei quali il garante della Costituzione ha firmato leggi di evidente incostituzionalità: da quella sulla legittima difesa (in questo caso, invece di opporre il veto, ha tiepidamente suggerito – restando inascoltato – di rivedere alcuni punti non del tutto allineati con la Carta Fondamentale dello Stato) a quella sulla prescrizione, a tacere di quella sul congelamento della prescrizione per i processi precedenti alla riforma da celebrare al Tribunale di Bari, crollato perché, in sostanza, edificio abusivo e privo di manutenzione. Ma gli esempi potrebbero essere anche altri, partitamente nel ruolo di Presidente del C.S.M..

    Colpisce, allora, l’inedita forza degli argomenti, le sollecitazioni affinché la magistratura recuperi credibilità da parte dei cittadini che “neppure devono avvertire il timore per il rischio di decisioni arbitrarie ed imprevedibili che, in contrasto con la certezza del diritto, incidono sulla vita delle persone”.

    Non bastasse, il Presidente ha auspicato che la le riforme siano frutto di un costruttivo confronto tra magistratura (m sempre minuscola, per ora) ed Avvocatura con un richiamo esplicito al ruolo cruciale che quest’ultima riveste in un serio percorso riformatore.

    E ancora: il sovraffollamento carcerario è visto come intollerabile offesa alla dignità umana. Bravo Presidente, bravo anche chi gli ha scritto e/o suggerito il discorso ma la impennata di orgoglio non può che essere applaudita.

    Non da tutti, ovviamente: il Fango (con la g, certo) Quotidiano, commentando il discorso di Mattarella, ha titolato “applausi soprattutto contro i giudici” e l’editoriale di Travaglio trabocca di bile con commenti astiosi.

    In questi giorni si celebra – si fa per dire – il trentennale di “Mani Pulite” che, probabilmente, sarebbe meglio definire “Indagini opache”, l’inizio della fine del giusto processo, e c’è da sperare che la vigorosa sollecitazione del Presidente della Repubblica, con attenzioni rivolte sul versante non solo di chi amministra la amministrazione della giustizia ma di chi ne subisce la preponderante forza, non resti un sussulto isolato.

    C’è da sperare, più che nel Parlamento attuale – infestato da Cinque Stelle cadenti – in quello che verrà, che queste, come in una celebre canzone di Mina, non restino parole, parole, parole, soltanto parole…

  • In attesa di Giustizia: pianto Greco

    Mala tempora currunt nella Repubblica delle Procure: dopo un paio di magistrati di Trani, il Procuratore Capo di Taranto arrestato, quello di Agrigento (noto per avere incriminato Salvini) finito a sua volta sotto processo per abuso di ufficio, GIP di Verbania che non ha compiaciuto la sua amica P.M. suscitandone il risentimento, le oscure vicende legate al mancato avvio di una indagine sulla “Loggia Ungheria”, ci mancava la Corte d’Appello di Palermo che ha assolto tutti gli imputati nel processo cosiddetto Stato-Mafia.

    Il Direttore de Il Fatto Quotidiano ha subito tuonato contro questa sentenza di cui non c’è ancora la motivazione e – quindi – “al buio”, pronunciando la sua inevitabile ed inappellabile “condanna di una assoluzione”.

    Ecco il problema con cui si cerca di oscurare quelli reali richiamandosi alla teoria secondo cui non ci sono innocenti ma solo colpevoli che l’hanno fatta franca: ci sono troppe assoluzioni, soprattutto nei processi che fanno audience; non dimentichiamo quella di Calogero Mannino e del generale Mori tanto per citarne un altro paio; ma le statistiche dicono che sono oltre il 50% del complessivo carico del sistema penale, comprese quelle che riguardano migliaia di “signori nessuno” che – però –  non valgono certo meno.

    Senza dimenticare le continue ricadute dello scandalo legato al “Sistema Palamara”, ci mancava quell’anima bella della Ministra Cartabia che pretende di limitare le comparsate dei P.M. in conferenza stampa tutte le volte che viene eseguito un arresto, per non parlare del divieto imposto di dare alle indagini nomi evocativi di colpevolezza (tipo “Mafia Capitale”): tutto perché qualcuno si è ricordato di avviare l’iter per recepire la direttiva europea sulla presunzione di innocenza il cui assunto di base è che nessuna autorità dello Stato può indicare come colpevole un soggetto prima che nei suoi confronti sia emessa una sentenza di condanna.

    Rosicando e ringhiando, Piercamillo Davigo, non molte settimane fa, insieme a Gratteri e Scarpinato ha provato a rialzare la testa ravvivando la Festa del Fatto Quotidiano (e quale, se no?) con un siparietto autoreferenzialmente denominato “La Giustizia al Tempo dei Migliori”.

    Che sarebbero poi proprio questi tre esegeti dei ceppi i quali, dinanzi ad una platea adorante, hanno illustrato soluzioni intelligenti ed originalissime per contrastare il malaffare tipo l’eliminazione totale del contante o pronunciato verdetti oracolari contro la proposta referendaria di riforma della carcerazione preventiva.

    Il clima, tuttavia, sta cambiando; e dire che fu proprio Piercamillo Davigo, nei ruggenti anni ‘90, a proclamare l’assunto secondo cui i Magistrati sono il meglio della società civile e i Pubblici Ministeri il meglio del meglio del meglio, promettendo che avrebbero rivoltato l’Italia come un calzino: ma tutto sommato è ormai acqua passata.

    Tanto è vero che anche il Procuratore Capo di Milano, alla vigilia della pensione ed indagato a Brescia per qualche marachella processuale in buona compagnia di alcuni suoi sostituti, ha singhiozzato in un’intervista al Corsera la fine di un’era iniziata con l’arresto di Mario Chiesa: sono ca…voli Amara anche nel tempio di Mani Pulite.

    Il pianto Greco segna il tramonto di una corporazione il cui agire non è più visto come salvifico nemmeno dall’opinione pubblica, con la doverosa eccezione di qualche irriducibile valvassore stile Floris o il solito Travaglio.

    Sono stati pessimi gli applausi ai magistrati, tanto più scroscianti quanto più numerosi ed “eccellenti” gli arresti, applausi che li compiacevano, che ricercavano, e sui quali hanno costruito carriere. Senza nulla togliere a quelle toghe che pur ci sono, lavorano bene e con onestà intellettuale persino Luciano Violante è arrivato a dire che i giudici devono soltanto fare giustizia e non provare a riscrivere la storia, quasi evocando Montesquieu secondo cui non c’è tirannia peggiore di quella esercitata all’ombra della legge e sotto il calore della giustizia.

    Adesso arrivano le pernacchie, che fanno comunque meno male delle manette ma non è bello neanche questo, solo un’altra forma della giustizia sociale che impropriamente la magistratura pretendeva di modellare.

  • In attesa di Giustizia: Delitto e castigo

    Sarà vero che in questo Paese non ci sono innocenti ma solo colpevoli che la fanno franca? Per una risposta attendibile, passato il tempo necessario per svolgere le indagini e magari celebrare un processo, bisognerà rivolgersi proprio a chi alimentò quella preoccupazione: Piercamillo Davigo.

    Il riferimento è alla vicenda dei verbali secretati di interrogatori del plurindagato avvocato Amara in cui si parla di una presunta loggia coperta denominata “Ungheria” con il compito – stile P2 – di condizionare apparati dello Stato.

    L’ex P.M. di Mani Pulite, come si ricorderà, ricevette quei verbali quando era componente del C.S.M. dal Sostituto Procuratore di Milano Paolo Storari il quale, lamentando immobilismo investigativo da parte dei vertici della Procura, richiedeva non si comprende bene quale genere di soccorso; un carteggio che il primo non avrebbe potuto avere ed il secondo non avrebbe dovuto trasmettere: non a Davigo di sicuro. Eppure parliamo di uomini i cui genitori hanno fatto tanti sacrifici per farli studiare.

    Ma tant’è: con buona pace del segreto istruttorio e del rispetto delle procedure quegli atti si sono diffusi come le figurine dei calciatori della Editrice Panini; dopo Davigo entrarono nella disponibilità della sua segretaria, poi di alcune redazioni di quotidiani ed in ultimo – scambiati nella discreta penombra della tromba delle scale del Consiglio Superiore – persino nelle mani del raffinato giurista a cinque stelle posto alla Presidenza della Commissione Parlamentare Antimafia. Insomma, di chiunque tranne che dei possibili destinatari istituzionali.

    C’è voluto un po’ ma infine Piercamillo Davigo è stato iscritto nel registro degli indagati per rivelazione di segreti di ufficio dove già compare il nominativo di Storari il quale nel frattempo ha sperimentato, dall’altra parte della scrivania cui è abituato, la piacevolezza di un interrogatorio di quattro ore.

    Sarà interessante vedere come andrà a finire, se alla compagnia si aggiungeranno altri nomi più o meno illustri, se verrà contestato (e ci starebbe tutto) anche il più grave reato di ricettazione, se vi sarà un processo e, chissà, delle condanne.

    Rispettosi della presunzione di innocenza, non azzardiamo valutazioni circa rimproverabilità del comportamento e colpe dei coinvolti in una storia, peraltro, dai contorni quantomeno ambigui: tuttavia è possibile trarre subito una prima conclusione riferita a Piercamillo Davigo.

    Questa è una vicenda in cui, colpevoli o innocenti, nessuna la farà franca: certamente non Davigo che sconterà comunque una punizione anche se verrà assolto, un trattamento che ha il sapore del feroce contrappasso. Dovrà, infatti, nominare un difensore, sarà quindi costretto a frequentare un avvocato, ad affidarsi a lui – spregevole appartenente alla disprezzatissima genia degli azzeccagarbugli – persino a ringraziarlo e financo a pagarlo (questo forse: i magistrati hanno spesso la manina corta).

    Delitto e castigo anche se innocente: novello Raskolnikov, Piercamillo per sentirsi un po’ più a suo agio potrebbe forse scegliere di farsi difendere dal noto docente del nulla applicato al diritto autoproclamatosi avvocato degli italiani o persino da Don Fofò Bonafede: ma non è così stupido, si rivolgerà ad altri e berrà l’amaro calice fino in fondo, espierà una pena che sarà per lui così dolorosa, disumana, da suggerire di rivolgersi alla Corte dei Diritti dell’Uomo…ma Davigo non lo farà mai, sopporterà stoicamente una volta ma non una di più la vicinanza di un avvocato.

    Passi il delitto (che, seppur commesso, lui che è assistito dal dogma della infallibilità non ammetterà mai) ma, in fondo, anche al castigo c’è un limite e persino l’inflessibile Piercamillo Davigo potrebbe questa volta percepirne, soggettivamente, un eccesso di rigore.

  • In attesa di Giustizia: a volte ritornano

    Tiepida la notizia che Maria Angiuoni, l’ex P.M. che per prima si occupò del sequestro di Denise Pipitone, è stata indagata a sua volta per false dichiarazioni dopo essere stata ascoltata in relazione alle sue bizzarre investigazioni private sulla sparizione della bimba siciliana, troppo occupato il C.S.M. nel bandire un concorso per otto autisti da destinare ad altrettanti Consiglieri i cui tormentati arti inferiori non possono sopportare l’affronto di spostarsi utilizzando i mezzi pubblici messi a disposizione da Virginia Raggi; è bastata una settimana senza nemmeno un arresto, senza sputtanamenti per prove a discarico nascoste alle difese, senza regolamenti di conti più o meno palesi tra correnti diverse della magistratura associata, per ridare fiato al massimo cultore del giacobinismo manettaro e coraggio ad una paio di zombie di cui, nell’agone politico, nessuno sentiva la mancanza. A volte ritornano.

    Ricorda, allora, Piercamillo Davigo che dopo una condanna ancora appellabile non si può più seriamente parlare di presunzione di innocenza e parla di effetti devastanti come conseguenza di una modifica referendaria delle norme sulla carcerazione preventiva, paventando un futuro in cui orde di criminali lasciati liberi potranno scorrere in armi le campagne.

    Nel mentre che il sipario si alza su questo teatrino che non ha nulla di nuovo, neppure quanto a falsità (peraltro, abilmente ammannite) riappaiono sulla scena due filosofi della corrente di pensiero secondo cui il fatto prova il reato e l’unica spiegazione plausibile di un fatto è un reato.

    Parliamo di Antonio Ingroia, insuperabile collezionista di fallimenti politici, e di Antonio Di Pietro che sembrano volersi mettere nuovamente in gioco cavalcando l’onda della secessione grillina.

    Sì, a volte ritornano, proprio come in una raccolta di racconti firmata da Stephen King; per fronteggiare l’orrore ed alimentare la speranza può quindi essere di conforto proporre – a dieci anni esatti di distanza – lo scritto di un Magistrato, Giuseppe Maria Berruti.

    “La vicenda nata dalle indagini palermitane (di Antonio Ingroia, n.d.r.) e sfociata negli attacchi al Quirinale, dimostra la necessità di cambiare profondamente il meccanismo giudiziario. Sono un Magistrato, sono stato componente del C.S.M.: i magistrati non possono avere la coscienza tranquilla. Hanno rifiutato il tentativo di autoriformarsi attraverso il loro governo autonomo e si trattava dell’ultima possibilità di affrontare il cambiamento. La grande intuizione del potere diffuso del giudice singolo, cioè della libertà del giudice singolo di interpretare la legge, si giustifichi solo con il possesso di una professionalità assoluta, controllata e controllabile: altrimenti diventa una volgare domanda di irresponsabilità alla quale si contrappone la barbarie della responsabilità civile diretta che trasforma il cittadino in avversario in giudizio nel momento stesso in cui entra nella stanza del giudice. La vicenda spaventosa del Presidente della Repubblica ascoltato in una conversazione di Stato dimostra che non c’è più tempo e mi auguro che le culture liberali e costituzionali facciano la parte che la Storia impone.”

    Nell’Ordine Giudiziario, come si vede (lo scritto è del 24 giugno 2011) e come in questa rubrica si è sempre sostenuto, vi sono personalità di prim’ordine, capaci di lucide e lungimiranti analisi, di autocritica severa e costruttiva e nel ritorno alla ribalta di figure come questa, piuttosto che degli indignati in servizio permanente effettivo, si deve confidare perché si possa parlare, prima ancora che di attesa di Giustizia, di rinascita dello Stato di Diritto, di un sistema che più che di riforme ha necessità di essere rifondato.

  • In attesa di Giustizia: il ritorno dei grembiuli

    Questa settimana, in una rubrica che si interessa anche di legge e non solo di Giustizia, avrebbe potuto essere più divertente – si fa per dire – trattare di qualcuna delle recenti pensate del nostro legislatore: per esempio quanto previsto dalla regolamentazione delle tanto attese riaperture dei ristoranti e l’uso dei servizi igienici il cui accesso è stato consentito “solo per casi di assoluta necessità”. Chi sarà mai l’oscuro burocrate che ha pensato, e tradotto in una norma, una simile scempiaggine? E di quale autocertificazione o certificazione bisognerà essere muniti per poter andare al bagno, forse quella dell’urologo che diagnostica problemi alla prostata da mostrare (in occasione di un controllo) alle Forze dell’Ordine? Non lo sapremo mai: il Viminale, interpellato in proposito, per ora tace non meno che con riguardo al da farsi nel caso di un temporale improvviso che colga malcapitati avventori accomodati in esterno.

    Purtroppo, al peggio non c’è limite e qualche gustosa considerazione su una ennesima disciplina sciatta ed approssimativa cede il passo al commento sulle inarrestabili notizie circa il dilagante malcostume (per usare un garbato eufemismo) da cui è affetta una magistratura, con la “m” rigorosamente minuscola.

    Si apprende, infatti, che la Procura di Milano, oltre un anno fa, ha verbalizzato dichiarazioni dell’Avv. Amara, già noto per avere patteggiato accuse  di corruzione in qualche misura legate al cosiddetto “Sistema Palamara”, contenenti nuove rivelazioni ed illustrando – tanto per non farsi mancare nulla – l’esistenza della  loggia coperta “Ungheria”, una sorta di P2 del terzo millennio, fulcro dell’intreccio tra politica, ordine giudiziario e informazione: verbali in cui – salva la necessità di verificare la veridicità di quanto affermato da Amara – si rivolgono pesanti accuse a uomini appartenenti a diversi poteri dello Stato.

    Questi atti sembra che prima siano stati opportunamente insabbiati, poi – non è chiaro a che titolo ma questa è una certezza – fatti avere (peraltro in formato word e privi di firma) da parte di un Pubblico Ministero di Milano a Piercamillo Davigo, in allora componente del C.S.M., il quale, emersa molto successivamente la circostanza, sostiene di averne trattato “con chi di dovere”. Chi, appunto: il Quirinale, il Procuratore Generale della Cassazione, il Guardasigilli?

    Di tali accadimenti se ne ha notizia solo ora principalmente perché il Consigliere Nino Di Matteo, destinatario successivo di un plico anonimo con identico contenuto, ha provato a introdurre l’argomento, senza grandi risultati, nel corso del plenum di un C.S.M. sempre più delegittimato la cui difesa è affidata al suo Vice Presidente che sostiene fiaccamente essere in corso una manovra destabilizzante cui l’organo di autogoverno è assolutamente estraneo.

    Sarà…ma la vicenda si colloca nella preoccupante cornice disegnata dalle rivelazioni di Luca Palamara contribuendo alla caduta verticale di fiducia nelle istituzioni ed è curioso annotare come sia la direzione de Il Fatto Quotidiano che di Repubblica (che sono gli altri destinatari di questo scottante materiale) non abbiano immediatamente incaricato di approfondire uno dei loro indignati speciali, forse temendo una polpetta avvelenata.

    A monte di tutto vi è comunque la commissione di un crimine: la rivelazione di segreti istruttori e la norma non prevede eccezioni, neppure se commesso (come è accertato) da un P.M. e con destinatario un componente togato del C.S.M.. Su tale ipotesi di reato indaga la Procura di Roma ma, pare, solo nei confronti della ex segretaria di Davigo e con riferimento alla successiva spedizione dei verbali di Amara alle direzioni di testate giornalistiche. Per ora…

    Anche in assenza di questi chiarificatori sviluppi è evidente che Piercamillo Davigo avrebbe dovuto presentare un esposto alla Procura della Repubblica piuttosto che trattare “con chi di dovere” (e non sappiamo chi…) facendo uso addomesticato di quanto ricevuto ed appreso perché ricevere ed utilizzare qualcosa che proviene dalla commissione di un reato integra quello di ricettazione.

    C’è da temere che questa non sia l’ultima storia di corvi, gole profonde e veleni e, forse, quello che si è ipotizzato la settimana scorsa in questa rubrica circa regolamenti di conti in corso tra le toghe nel momento di massima vulnerabilità può rivelarsi un’ipotesi tristemente vera e se lo è anche il ritorno in auge di grembiuli e compassi, l’attesa di Giustizia in un sistema giudiziario fuori controllo ed irresponsabile è destinata a diventare una vana speranza.

  • In attesa di Giustizia: 1984

    Ci mancava solo questa: a distanza di anni, salta fuori un nastro, sul quale è incisa la voce di un magistrato – purtroppo (od opportunamente, a seconda dei punti di vista) deceduto e quindi impossibilitato a confermare o smentire – che racconta a Berlusconi e a qualcun altro che la sentenza dell’agosto 2013 fu dettata da ragioni politiche e non giuridiche.

    Non c’è niente da fare, meritiamo di morire di intercettazioni perché viviamo di intercettazioni: aveva ragione Orwell, il grande fratello come oggi  lo conosciamo è arrivato forse un po’ dopo il 1984 ma ormai è tra noi e ci  osserva senza tregua.

    Poniamo l’attenzione, per un istante, su una serie di ovvietà e proviamo a trovare una sintesi a margine di questa ennesima, sconcertante, vicenda:

    1. quella sentenza non convinceva e neppure la premura con cui venne disposta la discussione del ricorso in periodo feriale senza che vi fossero reali ragioni di urgenza;
    2. il sospetto vi è sempre stato che le azioni giudiziarie contro Silvio Berlusconi (e il modo in cui erano condotte) non fossero del tutto immuni da condizionamenti metagiuridici (fermiamoci qui, il rischio querele inizia a corrersi un po’ troppo spesso);
    3. è molto singolare che un magistrato confessi il più grave tra i peccati giudiziari al diretto interessato;
    4. perché attendere che il magistrato fosse morto per svelare il contenuto del colloquio?
    5. perché tutto questo capita oggi, in piena bufera per il caso Palamara?
    6. la causa civile intentata a Milano da cui è emersa questa “verità rivelata” non sarà stato un espediente per ottenere proprio questo risultato?
    7. chi ha deciso la causa civile, peraltro, appartiene all’ordine giudiziario esattamente come coloro che condannarono Berlusconi.

    Ovvietà che ci fanno intendere come la questione vada presa con le molle, in ogni caso.

    Resta, però, il fatto che, ancora una volta, tutto nasce (e muore) in una intercettazione, occulta o compiacente che sia e che, attraverso il contenuto di un nastro (o di un file), emergano fatti o verità di cui nessuno sapeva niente e che dipendono esclusivamente da quel nastro.

    Moriremo di intercettazioni. Anzi: ci intercetteremo tutti, precostituendoci prove da usare, prima o poi, pro o contro qualcuno. E nessuno crederà più a nulla, o saremo tutti dannati.

    D’altra parte, siamo sulla strada giusta: la credibilità dei magistrati è compromessa; i processi si fanno in tv; le vicende giudiziarie non si chiudono mai.

    Ci mancava solo questa: è il trionfo del relativismo di cui parlava quel sant’uomo di Ratzinger.

    E, intanto, l’attesa di giustizia continua.

  • In attesa di Giustizia: chi entra, chi esce

    Storie di questi giorni, apparentemente diverse ma con un minimo comune denominatore: si tratta di un arresto ed una scarcerazione, entrambe fanno scalpore ed entrambe fanno gridare all’ingiustizia ma – in realtà –  c’è giustizia in entrambi i casi.

    Emilio Fede stava scontando una condanna definitiva in regime di detenzione domiciliare nella sua abitazione di Milano. Essendo un beneficio consentito dall’ordinamento penitenziario, aveva chiesto al Magistrato di Sorveglianza di potersi recare a Napoli per incontrare la moglie che non vede da tempo e festeggiare con lei il suo ottantanovesimo compleanno.

    Dando per scontata l’autorizzazione (in effetti l’istanza era priva di controindicazioni), il giornalista si organizza la trasferta: Frecciarossa, pernottamento in un albergo sul lungomare e una cena romantica con vista sul Borgo dei Pescatori. Senza aspettare che gli venga notificato quel permesso cui aveva diritto, Emilio Fede esce di casa e parte in direzione Napoli: una città che, con la sua struggente bellezza, può essere complice di amori mai sopiti o da ritrovare.

    Non doveva e non poteva andare così: l’impazienza doveva essere contenuta e misurata sul provvedimento del Magistrato e, attenzione, perché da noi, quando vuole la Giustizia sa essere implacabile e rapidissima: più che altro, in questo caso, l’evasione viene scoperta – perché tale, tecnicamente è – in quanto Emilio Fede aveva avvisato i Carabinieri di Milano che sarebbe partito; viene così individuato senza difficoltà, definirlo latitante è pure tecnicamente corretto e quindi viene  prelevato da ben quattro uomini delle Forze dell’Ordine che lo riconducono in albergo con obbligo di permanervi fino a nuove determinazioni dell’autorità giudiziaria. Per tutta una serie di ragioni, anche queste corrette, che per brevità vengono omesse non viene condotto in carcere. A quasi novant’anni, per una pizza annunciata insieme alla moglie sarebbe stato anche un po’ troppo…

    Giustizia, dunque è fatta non senza richiamare il brocardo dura lex sed lex: qualcuno su questa vicenda ci ridacchia e passa oltre, qualcuno sicuramente pensa che “se l’è cercata e gli sta bene”.

    L’altra storia, invece, è quella che ha sgomentato il Guardasigilli facendo gridare allo scandalo uno stuolo di indignati in servizio permanente effettivo: Massimo Carminati, imputato principale del processo c.d. Mafia Capitale è stato scarcerato perché si è fatto cinque anni e sette mesi di custodia cautelare, senza che nei suoi confronti sia intervenuta una sentenza irrevocabile di condanna. Lo prevede la legge, prima ancora la Costituzione: non si può restare detenuti in eterno nell’attesa di una sentenza definitiva, ci sono dei termini e non sono nemmeno brevi. Quando la condanna di Carminati diventerà irrevocabile tornerà in carcere, sempre che la Corte d’Appello di Roma gli infligga una condanna ad un periodo di reclusione superiore alla carcerazione già subita, dal momento che la Cassazione ha detto quello romano non era un aggregato mafioso. Implacabile anche lui, il Ministro della Giustizia ha subito mandato gli Ispettori per verificare cosa fosse successo ma in fondo bastava procurarsi un codice di procedura, pochi articoli dal 303 in avanti e se per l’Eccellenza Bonafede un codice è troppo, per calcolare la durata massima della carcerazione preventiva può bastare qualcuno che gliela spiega e un calendario. Morale? Due storie tanto diverse e tanto simili, come si diceva all’inizio anche se un po’ complicate da capire per i non addetti ai lavori che, forse, su queste colonne si è contribuito a comprendere verificando che, nonostante tutto, conserviamo un barlume di Stato di diritto, pure per i malacarne.  Ancora difficile da comprendere per i giacobini de noantri? Può darsi e viene in mente il pensiero di un vecchio, grande, avvocato: il diritto è una materia ostica per me, figuratevi per voi.

  • Carminati, la democrazia ed i giudici

    E’ assolutamente detestabile ed insopportabile il fatto che all’interno di un “presunto” stato di diritto un personaggio come Carminati possa uscire di galera dopo CINQUE anni e SETTE mesi di carcerazione preventiva.

    In altre parole, in (ripeto) cinque anni e sette mesi, un paese che si “definisce” democratico come l’Italia non è riuscito ad istruire e a portare a termine un processo contro questo personaggio. Il sistema giudiziario, nella sua articolata complessità, ha dimostrato ancora una volta la propria inefficienza ed insufficiente produttività anche per reati gravi come quelli imputati a Carminati.

    Il problema non è rappresentato, quindi, dalla polizia o da una delinquenza sempre più invasiva, ma da un sistema giudiziario e dalle “professionalità” che lo rappresentano, cioè i giudici ai quali non vengono imposti parametri temporali entro i quali istruire un processo e portarlo a termine.

    Nello specifico la completa responsabilità va attribuita ai giudici se Carminati dopo 5 anni e 7 mesi di carcerazione preventiva (degna del peggior stato dittatoriale dell’America Latina) ritrovi la possibilità di assaporare il gusto della libertà e magari di delinquere ancora.

  • In attesa di Giustizia: un anno bellissimo, ma anche no

    Tra le promesse post elettorali il Governo aveva formulato quella di un anno bellissimo a venire dopo l’insediamento a Palazzo Chigi: il pronostico era riferito all’economia e non è questa la sede per commentarlo, in questa rubrica parliamo di giustizia e siccome anche questo ambito rientra nelle priorità di intervento dell’esecutivo, qualche considerazione – invece – si può fare.

    A Bari, tanto per cominciare, alle soglie dell’estate si era verificata l’inagibilità del Tribunale: criticità affrontata inizialmente con la celebrazione delle udienze (non tutte, sia chiaro) in una sorta di accampamento tendato esposto a temperature elevate non meno che alle piogge, e sarebbero i problemi minori. Da allora la situazione non è molto migliorata: gli uffici giudiziari sono stati sottratti alle tensostrutture per essere trasferiti in vari plessi che vanno da un ex palazzo della Telecom a sedi giudiziarie circumvicine chiuse perché soppresse; il tutto con una quotidiana, necessitata, transumanza di fascicoli, magistrati, cancellieri, avvocati e imputati con quanto ne consegue in termini di dignità delle persone, dei ruoli ma anche di efficienza e salvaguardia degli atti processuali che rischiano continuamente di andare smarriti, degradati per l’incuria o confusi tra loro. Si teme che anche quest’anno verrà decretata la sospensione dei processi penali per i tre mesi estivi con blocco della prescrizione, che in questo caso è incostituzionale. Come dire, la soluzione è nel non fare qualcosa intanto che ci si arrangia.

    Proseguiamo: la Corte Costituzionale, oltre un anno fa, aveva invitato il legislatore a por mano alla legge sugli stupefacenti perché prevedeva pene minime ritenute irragionevoli, quindi in contrasto con l’articolo 3, per i reati “di confine” tra le ipotesi di minore gravità e quelle ordinarie non aggravate. Ovviamente, un legislatore sensibile solo al tema della certezza della pena, confuso con quello della sua durata, si è ben guardato dal seguire le indicazioni del Giudice delle Leggi che, così, nel mese di marzo è dovuto intervenire nuovamente dichiarando l’incostituzionalità di quelle sanzioni non senza rimarcare, tra le righe della sentenza, una colpevole inerzia da parte di chi avrebbe dovuto provvedervi da tempo.

    Un’altra “legge manifesto” è stata quella a contrasto dei reati contro la Pubblica Amministrazione, il cosiddetto Decreto Spazzacorrotti che prevedeva – tra l’altro – l’esclusione immediata dei condannati, anche per fatti anteriori alla sua entrata in vigore,  dalla possibilità di ottenere taluni benefici previsti dall’Ordinamento Penitenziario. Proprio di questa norma il Guardasigilli andava molto fiero, senonché sono già almeno quattro le ordinanze di altrettanti Tribunali di Sorveglianza di trasmissione alla Corte Costituzionale per non manifesta infondatezza di eccezioni di costituzionalità sollevate.

    Pochi giorni fa, dopo lunghissima riflessione, il Capo dello Stato ha promulgato la riforma della legittima difesa accompagnandola con un fattore eccezionale: una missiva ai Presidenti delle Camere e del Consiglio dei Ministri con la quale da un lato si invita il legislatore a colmare immediatamente evidenti lacune tecniche del testo e dall’altro interpretando la complessiva disciplina in termini che la propongono come del tutto superflua, non diversamente dal commento che su queste colonne era stato offerto qualche settimana addietro.

    In ultimo, la Commissione Europea ha censurato pesantemente il “sistema giustizia” italiano, maglia nera tra i Pesi UE, per lentezza e inefficienza. Allora, forse, non sono quegli Azzeccagarbugli degli avvocati (così definiti da Bonafede) la causa di tutti i mali della Giustizia che impone il previsto blocco della prescrizione dal 2020.

    Il Ministro a tale autorevole critica ha già risposto che in uno dei prossimi Consigli verrà proposto il piano di intervento per dimezzare i tempi dei processi: se la tecnica normativa sarà analoga agli esempi proposti non c’è da stare tranquilli e l’unico anno bellissimo di cui favoleggiare è possibile che resti quello cantato da Lucio Dalla.

  • In attesa di Giustizia: giustizia e gestanti

    Che si sappia, era già successo un anno fa circa a Livorno: un’avvocata (come si usa dire adesso) di Pisa in stato di gravidanza considerata a rischio aborto aveva presentato con buon anticipo un’istanza di rinvio di udienza per legittimo impedimento rappresentando l’impossibilità di indicare un sostituto poiché si trattava di un incombente importante cui avrebbe dovuto presenziare lei in quanto titolare dell’incarico difensivo.

    Nonostante fosse corredata di certificato medico la richiesta è stata ritenuta inammissibile perché sarebbe stato indicato solo genericamente il rischio cui si esponeva la professionista. Tale provvedimento aveva determinato una risoluta presa di posizione da parte delle Camere Penali locali e della Associazione dei Giovani Avvocati.

    Non è dato sapere che sviluppi abbia avuto questa vicenda né se ve ne siano state altre (una sarebbe già di avanzo…) almeno fino a pochi giorni fa quando la storia si è ripetuta a Roma davanti al Tribunale Civile che, dopo aver differito un’udienza senza fornire spiegazioni del motivo ha rigettato la richiesta di rinvio presentata da un’avvocata perché la nuova data coincideva sostanzialmente con quella per lei prevista per il parto. O meglio, il Giudice nel suo provvedimento ha riservato ogni valutazione “all’esito delle determinazioni della controparte attesa la natura del procedimento e gli interessi sottesi”. Come dire: se ne parlerà direttamente quel giorno senza che la richiedente il rinvio possa partecipare al contraddittorio.

    Quello che non si è detto è che si trattava di una ordinaria causa di separazione tra coniugi.

    L’accaduto ha generato indignazione ed una durissima risposta del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Roma che in una nota ha ricordato al Tribunale (che le norme le dovrebbe conoscere) che proprio la legge di bilancio del 2018, coordinandosi con i codici di procedura civile e penale, ha disciplinato la possibilità per gli avvocati in stato di gravidanza di chiedere rinvii nei due mesi anteriori alla data del parto e nei tre successivi.

    Fatto sta che, se non altro, in questo caso vi è stata una retromarcia e il rinvio è stato concesso senza nulla togliere all’obbrobrio della prima determinazione.

    Questi episodi ne richiamano alla mente un altro, di qualche anno fa, sempre “romano”: ancora una volta un’avvocata apprende, di domenica, della scomparsa improvvisa della madre che viveva a Chieti: prima di partire per l’Abruzzo avverte i suoi collaboratori dell’accaduto e passa dallo studio per lasciare tre istanze di rinvio per altrettante udienze del lunedì subito successivo. Risultato: un’udienza rinviata, un’altra no perché non era stato documentato il decesso del genitore, la terza nemmeno perché tardivamente richiesta.

    Come dire: in questo Paese, in perenne attesa di una Giustizia che viaggia a passo di lumaca, si può essere persino privati del diritto di coltivare salute e  sentimenti. Siano essi quello di una vita in arrivo da tutelare o un dolore lancinante e improvviso.

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