Processi

  • In attesa di Giustizia: siamo nelle mani di Dio

    In solo una settimana è successo di tutto e di più e questa rubrica per trattarne adeguatamente dovrebbe occupare per intero un numero de Il Patto Sociale.

    Una necessaria selezione ha condotto a focalizzare tre episodi, uno dei quali tenuto per ultimo in un soggettivo crescendo di rilevanza, sicuramente è il più inquietante.

    Non c’è chi non abbia avuto notizia della diffusione delle immagini a luci rosse della deputata grillina Giulia Sarti: francamente, a parte il diritto che deve riconoscersi a chiunque di comportarsi come ritiene nella sua intimità laddove non sia nocivo ad altri, è sgomentevole come la rete possa diventare territorio di caccia ed utile strumento per volgari regolamenti di conti, ricatti e trasferendo sul piano personale, con il pretesto di ergersi a censori della morale,  motivi diversi di contrasto.

    L’accadimento ha però suscitato l’interesse ad approfondire chi sia Giulia Sarti, e qui arriva una sorpresa che genera qualche riflessione: laureata in giurisprudenza nel 2012, deputato M5S dal 2013, è ora Presidente della Seconda Commissione Giustizia della Camera. La domanda sorge spontanea: sarà bravissima ed ottima persona ma quale esperienza, competenza, specializzazione ed autorevolezza – al di là, magari, di ottime votazioni negli esami e di laurea – si può avere poco dopo il diploma per assurgere ad un ruolo così delicato in sede legislativa senza  nemmeno  avere mai esercitato una professione forense? Un segno evidente di quanto i compromessi politici nella spartizione delle poltrone possano incidere sulla sensibilissima attività di normazione in materia di giustizia.

    Passiamo ad altro e anche di ciò si è ampiamente trattato sui media ma, se fosse sfuggito, ecco l’accaduto: la Cassazione ha, giustamente, annullato una sentenza della Corte di Appello di Ancona che aveva mandato assolti i presunti autori di una violenza sessuale (precedentemente condannati in primo grado di giudizio) adducendo la ragione che la vittima sarebbe – per usare un eufemismo – non così avvenente da stimolare appetiti sessuali. Può essere che gli imputati non siano davvero responsabili di quel crimine ma la motivazione è inaccettabile e, facendo un passo oltre l’impatto sensazionalistico della notizia, ci fa comprendere come la legge (sperando che sia fatta bene) possa essere uguale per tutti ma la giustizia assolutamente no.

    In ultimo, qualcosa che solo alcuni addetti ai lavori hanno appreso: dopo che il Ministro della Giustizia ha annunciato l’intenzione di riformare il processo penale, anticipando alcune linee di intervento, la Associazione Nazionale Magistrati si è accodata formulando le sue proposte e l’Unione delle Camere Penali ha ritenuto giustamente di aprire un tavolo di concertazione per condividere le iniziative che, non sempre, erano convincenti dal punto di vista del rispetto delle garanzie.

    Ebbene, nel corso di una riunione con i suoi iscritti, il Presidente dell’A.N.M. – dimentico di essere registrato e ripreso da Radio Radicale – ha spiegato senza mezzi termini in che modo avrebbe fatto il gioco delle tre tavolette con gli avvocati penalisti: e cioè facendo credere loro di essere d’accordo su una specifica riforma (qui non interessa sapere esattamente quale ma è una di significativo rilievo) mostrando il testo di un possibile disegno di legge salvo poi farne avere un altro, diverso e meno garantista, al Ministro quando si fossero trovati a quattr’occhi. Ogni commento è riservato ai lettori.

    Insomma, l’attesa di Giustizia, con questi presupposti, sembra essere un momento ancora di là da venire e non può essere che motivo di preoccupazione considerare che, in questo delicatissimo settore, siamo tutti soltanto nelle mani di Dio.

  • In attesa di Giustizia: gli ossimori di via Arenula

    Chi si ricorda di Soccorso Rosso? Era una struttura nata negli anni di piombo per offrire – tra l’altro –  assistenza legale ed economica ai militanti della sinistra extraparlamentare.

    Ora, nel terzo millennio, prende vita “Soccorso Rousseau”, chiamiamolo così per assonanza con la piattaforma internet del M5S su cui si esprimono e scambiano idee e proposte anche legislative; invero si tratta dello Scudo della rete: funzione che si propone di garantire la difesa ad iscritti e rappresentanti eletti del Movimento raggiunti da iniziative legali che il Ministro della Giustizia ritiene che non di rado siano avviate a scopo intimidatorio.

    Il Guardasigilli, attraverso il sito, si è rivolto agli avvocati in generale e con toni confidenti li ha sollecitati a mettersi a disposizione assicurando la migliore assistenza, purché a costi contenuti indipendentemente dalla complessità della causa.

    A prescindere da possibili aspetti di rilevanza deontologica di cui non è il caso di interessarsi in questa sede, del fatto che un Avvocato con la A maiuscola è votato e tenuto a dare sempre il massimo, secondo le proprie competenze effettive una volta accettato un incarico, ciò che stupisce è l’ondivaga valutazione dei professionisti e del substrato delle  imputazioni.

    Ma come? Gli avvocati non erano tutti azzeccagarbugli (parole dell’On. Bonafede) da sottoporre al vaglio di una misteriosa filiera etica per accertarne i valori morali essendo presuntivamente sospetti di prossimità con il crimine organizzato (proposta del Presidente a Cinque Stelle della Commissione Parlamentare Antimafia)?

    E dei processi non ne vogliamo parlare? Questo non è forse il Paese dove non esistono innocenti ma solo colpevoli che “l’hanno fatta franca” secondo l’autorevole opinione di un Magistrato molto apprezzato dal Movimento per la sua visione della Giustizia?

    Allora c’è speranza,  il tessuto sociale non è del tutto marciscente! Si sappia che esistono potenziali vittime di persecuzione giudiziaria, di liste di proscrizione, cittadini accusati ingiustamente perché colpevoli solo di essere seguaci di Grillo.

    A costoro, tuttavia, bisognerà garantire un giusto processo che – forse – non è quello auspicato nei più recenti proclami e subitaneamente sostenuto con proposte inascoltabili dell’Associazione Nazionale Magistrati volte – più che altro – a eliminare di fatto il giudizio di appello. E se un militante 5 Stelle fosse condannato per errore? Può succedere, la giustizia degli uomini è per sua natura fallace: pazienza, in un sistema penale da Antico Testamento forse potrà contare sul perdono di Dio, il Dio che atterra e suscita, che affanna e che consola.

    Ossimori…è vero che, a rigore, il termine esprime contrasto all’interno della medesima frase ma – in fondo – anche nel nostro caso caratterizza una linea di pensiero di origine unitaria che, altrettanto, esprime mancanza di senso logico.

    Tempi duri per la Giustizia e chi ne resta in attesa. E se, alla fine, ci sarà chi si lamenta ma nelle urne si è espresso in un certo modo, ricordi che di questa politica non è vittima ma complice.

  • In attesa di Giustizia: i miserabili

    Il titolo di questa rubrica è “in attesa di Giustizia”, attesa che a volte si rivela molto lunga, a volte del tutto vana, altre – invece – mostra inattesa efficienza e un volto, più che austero, truce come accade a Salerno dove si sta celebrando l’incidente probatorio in un procedimento “collettivo” per estorsione: vale a dire che, ancora nella fase delle indagini, si anticipa l’acquisizione di prove testimoniali davanti a un Giudice in contraddittorio tra difese e P.M.: le deposizioni saranno poi utilizzabili nel dibattimento vero e proprio, alleggerendone il carico di lavoro e assicurandosi che la prova non vada dispersa per una successiva irreperibilità o indisponibilità (magari per motivi di salute o simili) dei testi.

    Il procedimento di cui parliamo è a carico di numerosi parcheggiatori abusivi che nel richiedere una mercede per il servizio prestato, proprio a causa della loro condizione che non la legittimava, avrebbero commesso il reato di estorsione punito con la reclusione fino a dieci anni.

    Onore, dunque, alla Procura salernitana che, con un’operazione di polizia del luglio scorso, ha sgominato questa congrega di ignobili malfattori, risolvendo la piaga sociale del parcheggio abusivo e dando vita a un memorabile maxi processo di cui, inspiegabilmente, le cronache diverse da quelle locali nulla riferiscono.

    Si sono ascoltati moltissimi testimoni, provenienti da ogni parte d’Italia, soggetti che si erano trovati a subire le intollerabili vessazioni dei parcheggiatori senza titolo: uno per l’altro hanno riferito di avere versato 50 centesimi, a volte un euro, visti più che altro come un gesto di carità e che le deposizioni precedenti non rispecchiavano per nulla il loro pensiero, avendo sottoscritto i verbali con la premura di chi vuole esaurire nel più breve tempo possibile un impiccio.

    Il P.M. di udienza a sentir ciò ha lasciato in un primo momento intendere che avrebbe messo sotto processo i testimoni per aver detto il falso, salvo poi rendersi conto che sarebbe stato quanto meno molto originale un altro maxi processo contro decine di persone per falsa testimonianza in un siffatto contesto.

    In qualche modo anche questa vicenda avrà un esito cercheremo di sapere quale: forse, però, la scelta migliore sarebbe stata, fin dall’inizio, chiedere l’archiviazione – come è possibile fare – per particolare tenuità del fatto: cioè a dire che il reato c’è ma talmente marginale da rendere il comportamento dell’autore irrilevante sotto il profilo penale.

    Invece, no: si è pensato che fosse meglio mostrare i muscoli dell’implacabile potere punitivo dello Stato contro quei poveretti ridottisi a mendicare qualche centesimo facendo i parcheggiatori abusivi e che ricordano “I Miserabili” di Victor Hugo: persone cadute in miseria, ex forzati, prostitute, monelli di strada, studenti in povertà.

    Un processo del genere allo Stato costa, e non poco, sia in termini economici che di impiego di risorse umane. Ai testimoni tempo sottratto al lavoro, alle famiglie, allo svago: ma è un dovere civico e un obbligo di legge andare a deporre…anche per una questione di centesimi.

    Ai parcheggiatori abusivi tutto ciò comporta l’ansia e la pena anticipata di un processo che si poteva evitare, mentre alla comunità, ai cittadini di una regione ad alta densità criminale, francamente non viene offerto nessun sollievo.

    E noi, da ultimi, ci interroghiamo se congratularci perché tutto ciò conferma che la legge è veramente uguale per tutti, perché la Giustizia di cui siamo in costante attesa infine è arrivata anche in questo caso o perché un fenomeno delinquenziale di questa portata è stato debellato e non affligge più il salernitano…ma anche no.

     

  • In attesa di Giustizia: Brucia, dannato!

    E’ dai tempi di Mani Pulite che l’animo forcaiolo del Paese si è manifestato in tutta la sua preoccupante dimensione, da quando crocchi di cittadini festanti si affollavano nella piazza antistante il carcere di San Vittore per assistere ed applaudire allo spettacolo quotidiano – o quasi – delle auto delle Forze dell’Ordine che portavano a destinazione gli arrestati, da quando l’esecuzione delle ordinanze di custodia doveva essere rinviata perché sotto casa del politico/imprenditore di turno era arrivato prima di tutti il Gabibbo e le telecamere attendevano di riprendere la gogna delle manette. Basti dire che l’immagine drammatica di Enzo Carra, deputato di area democristiana, trascinato nemmeno con i braccialetti, ma – come Amatore Sciesa dagli austriaci – con gli schiavettoni (ora non più in dotazione) perché accusato di avere fornito informazioni reticenti al P.M. fu trattamento ritenuto giusto – secondo un sondaggio – dal 63% dei milanesi.

    Enzo Carra, per la cronaca, fu poi condannato per il reato che gli era stato attribuito, non gravissimo e perciò sanzionato con una pena condizionalmente sospesa. Come dire che, facendo una agevole prognosi, non avrebbe dovuto mai essere privato della libertà prima ancora che della dignità.

    Noi siamo ciò che siamo stati, e se questo è lo spirito giustizialista che anima l’opinione pubblica c’è da felicitarsi che il nostro sistema non preveda il processo con giuria “all’americana”.

    Soprattutto non c’è da meravigliarsi se, accade in Friuli in questi giorni, si arriva a fare una raccolta di firme per sollecitare l’autorità giudiziaria a trasformare la misura degli arresti domiciliari in quella della custodia in carcere per un imputato condannato in primo grado e – quindi – ancora assistito dalla presunzione di non colpevolezza.

    Non deve stupire che si propongano modifiche al codice di procedura penale volte a limitare le possibilità di avere trattamenti premiali e cioè a dire con pene ridotte a fronte di particolari scelte processuali fatte dall’imputato: “sconti” generalmente collegati alla rinuncia a specifiche garanzie, dunque, non regalie di una Giustizia debole: il plauso accompagna simili opzioni normative insieme a quelle che comportano l’inasprimento delle pene.

    Rimane invece inascoltata, comunque relegata ai margini delle cronache, la voce autorevole del Presidente della Corte Costituzionale, Giorgio Lattanzi, che ha ricordato come la Costituzione non è mai nemica dei cittadini ma indispensabile strumento per impedire abusi e che nessuna legge può porre limiti insuperabili alla funzione rieducativa della pena a detenuti che meritano di essere valutati nei loro cambiamenti.

    Forse, nel ragionare su questo giustizialismo dilagante e dominante una riflessione sulla pena di morte può sembrare eccessiva, legata ad un problema lontano che non ci tocca ma è proprio l’aspetto paradossale che – forse – aiuta a capire quale sia il punto di equilibrio che deve raggiungere la bilancia della Giustizia nella irrogazione delle pene.

    “Brucia, lo sento!”: queste le ultime parole del più recente detenuto giustiziato in Texas con una iniezione letale di Pentobarbital. Se questo è un metodo ritenuto più “umano” rispetto ad arrostire un uomo sulla sedia elettrica si può comprendere sino a che soglia si sia pericolosamente abbassata la soglia di tolleranza all’interno della società, quel consorzio umano un cui campione è autorizzato ad assistere allo spettacolo offerto dal boia.  L’immagine è terrificante: un uomo uccide un altro uomo nella convinzione ma non nella certezza che sia colpevole e il condannato che con le sue ultime parole denuncia la disumanità del supplizio.

    No, l’uomo non può pensare che la soluzione al crimine sia la rinuncia al tentativo di recuperare il condannato arrogandosi il diritto di far del male sicuro in nome di un bene presunto. E “buttare la chiave” come da più parti si invoca non è la scelta più convincente per una maggiore sicurezza sociale: l’unica certezza è che, quando le porte del carcere verranno riaperte (perché prima o poi avviene quasi per tutti i condannati) si avranno solo dei disperati in libertà animati da spirito di rivalsa e nessuna possibilità, forse neppure desiderio, di reinserirsi ma solo di vendicarsi a loro volta nei confronti di quella società che ha precluso ogni forma di reale Giustizia mandandoli a bruciare nell’inferno dei vivi senza futuro.

     

  • In attesa di Giustizia: Ipocrisia

    Giovanni Falcone ebbe in vita molti critici e non pochi avversari che ne condizionarono il percorso professionale ma nessuno ebbe mai l’ardire di sostenere che fosse inadeguato al ruolo che ricopriva  – prima all’Ufficio Istruzione e poi alla Procura della Repubblica di Palermo – perché era siciliano, perché riuscì a far collaborare Tommaso Buscetta parlandogli in dialetto e convincendolo perché sapeva come ragionare con lui conoscendone la mentalità.

    Il contesto è diverso, il paragone con un grandissimo magistrato martire non vuole neppure apparire quasi irriverente ma qualcosa di simile sta accadendo nelle ultime settimane in Lombardia dove la Regione ha inteso istituire una Commissione formata da esperti del settore che si occupi e studi i fenomeni di criminalità organizzata sul territorio.

    Tra i candidati, o meglio, tra i soggetti indicati per l’incarico provenienti da differenti aree politiche vi è anche un’ eccellente avvocato donna di origine calabrese ma che esercita principalmente a Milano: Maria Teresa Zampogna, segnalata dal centro destra.

    Tale proposta ha scatenato il fuoco di sbarramento da parte di tuttologi, professionisti dell’antimafia, soloni, censori dell’ultim’ora e pseudo tecnici della materia: sarà un caso ma tutti appartenenti al versante politico dell’opposizione in ambito regionale.

    Questa è una vicenda di cui un po’ si sono già occupati gli organi di informazione ma su cui è calato poi il silenzio in corrispondenza con il periodo di ferie estive: tutti al mare e se ne riparlerà tra poco nelle sedi competenti ma forse senza gli onori della cronaca: la critica rivolta all’Avv. Zampogna consiste essenzialmente nel fatto che il suo curriculum professionale segnala molteplici impegni in processi di grande criminalità, tra l’altro attribuendole pure in maniera imperfetta incarichi difensivi.

    In sostanza, l’inadeguatezza della candidata risiederebbe proprio nel fatto che ha maturato esperienza nel settore di cui si dovrebbe interessare in veste di componente di una struttura tecnica di emanazione politica: ragionamento zoppicante la cui zoppia esprime i molteplici fattori negativi retrostanti: dall’evidente preconcetto politico alle ragioni di inidoneità che sono tutt’altro che in conflitto proprio con la funzione designata e che soprattutto sottendono l’abusata e inaccettabile assimilazione tra il difensore e i propri assistiti.

    Quest’ultimo aspetto è quello che forse maggiormente inquieta perché non è un caso isolato, perché troppo spesso e del tutto immotivatamente si omologa l’avvocato al criminale – o meglio, presunto tale – che difende dimenticando volutamente che il suo ruolo è quello di custode delle garanzie che il codice di procedura penale assegna a chi sia soggetto alla pretesa punitiva dello Stato.

    Ma c’è un altro aspetto deteriore in questa vicenda che non può essere trascurato: l’ipocrisia che sorregge la tesi avversa alla nomina dell’ Avv. Zampogna e che è volta a mascherare – almeno a parere di chi scrive – becere questioni di appartenenza politica in un conflitto tra poteri dello Stato che sembra non avere mai fine, agevolata e stimolata dalle esondazioni della Magistratura dal proprio ambito istituzionale. E come diceva Piero Calamandrei, quando per la porta della Magistratura entra la politica, la giustizia – quella di cui noi siamo in attesa – esce dalla finestra.

  • In attesa di Giustizia: l’uovo di Colombo

    Nelle scorse settimane abbiamo segnalato – e siamo stati tra i primi, dianzi che diventasse uno scandalo nazionale – la situazione in cui versa il Tribunale di Bari, a rischio crollo che ha costretto gli operatori a ricercare non facili soluzioni alla criticità.

    Dopo avere ipotizzato di trasferire le attività in una sede distaccata dismessa dopo la soppressione si è arrivati all’allestimento di una tendopoli a fungere da aule in cui si celebrano processi; il tutto mentre ancora si discuteva sulla formazione di un esecutivo e, quindi, con un Ministro sul piede di partenza e uno non ancora insediato. Non potendo – anche per motivi di sicurezza – portare i detenuti nel campeggio giudiziario, per questi ultimi si sono riutilizzate aule della vecchia struttura anni trenta (perfettamente agibile e stabile) situata in centro città e ancora adibita a sede della Corte d’Appello.

    Intanto, la situazione nella tendopoli mostra tutti i suoi limiti, sia per la logistica destinata all’utenza che per il clima che arroventa ogni giorno di più, sia perché è complesso avere la fornitura di energia elettrica che serve per il funzionamento di microfoni e impianti di registrazione. Così si è tornati all’impiego a tutto tondo degli amanuensi.

    Giustamente, l’Unione delle Camere Penali ha deliberato una astensione di protesta – lunedì, martedì e mercoledì di questa settimana – e una manifestazione a Bari per denunciare una situazione che oscilla tra il paradossale e, amaramente, il ridicolo. Nel frattempo, però, si è formato il nuovo Governo e…voilà, la tanto agognata soluzione è subito stata trovata: un bel decreto legge che sospende tutti i processi (e il corso della prescrizione) a Bari fino a settembre quando – almeno questo – farà più fresco e, nelle more, si auspica l’individuazione di un immobile in cui trasferire gli uffici in condizioni di sicurezza. Sicurezza che deve intendersi anche con riguardo ai fascicoli non solo per evitarne l’esposizione ai fattori atmosferici ma proprio per la conservazione con il dovuto rispetto dei dati sensibili che contengono. Perderli del tutto, poi, vorrebbe dire non celebrare mai più i processi corrispondenti.

    Non può certo farsi carico all’Esecutivo attuale di una emergenza ignorata o addirittura non conosciuta (ma nel Tribunale di Bari già anni addietro vi erano preoccupanti buchi e crepe nei muri, infissi cadenti, macchie di umidità ovunque) dai Governi precedenti o dalle Autorità preposte alla manutenzione e segnalazione. Il rimedio, tuttavia se non è peggiore del male non convince, come non convincono le parole del Guardasigilli che critica la protesta dei penalisti perché aggiunge altri rinvii di processi in tutta Italia a quelli baresi.

    Vero senonché lo stato di agitazione dell’Avvocatura è l’unico strumento disponibile per denunciare un degrado inaccettabile e sollecitare interventi. A tacere del fatto che è stato proclamato prima delle decisioni del Governo, che tre giorni – sebbene a livello nazionale e con molte eccezioni circa le udienze rinviabili –  non sono tre mesi in una sede come Bari.

    Magari questo “sciopero” non si sarebbe fatto se si fosse potuto preconizzare l’autorevole intervento proposto da via Arenula. E non sarebbe stato difficile, in fondo, chiudere del tutto un tribunale che crolla senza averne un altro a disposizione che non sia una tendopoli è come la scoperta dell’uovo di Colombo, magari un po’ bollito. E la Giustizia può attendere.

  • In attesa di Giustizia: avanti tutta!

    Il titolo di questa rubrica evoca aspettative non solo di risultati ma anche di tempi rapidi della Giustizia: una sentenza che giunga a distanza siderale dai fatti oggetto del processo, infatti, non è accettabile.

    A volte, anzi piuttosto spesso, capita che una decisione sia rapidissima, almeno con riguardo al momento in cui deve essere adottata…che è poi quello cruciale di un giudizio. Avanti tutta, allora!

    Dunque, penserà il lettore, le cose non vanno così male. Parliamone, ma non prima di avere sottoposto alcuni esempi.

    Incominciamo dalla fine: dalla Cassazione, organo supremo cui dobbiamo l’interpretazione delle norme, i ricorsi che vengono messi a ruolo di ogni udienza (che inizia, a regola, alle 10 del mattino) sono abitualmente qualche decina. Sì, avete letto bene.

    Di ogni ricorso viene fatta una relazione, cioè a dire uno dei Magistrati ne espone sinteticamente l’oggetto e i motivi a sostegno – tutti i partecipanti ne hanno una copia e, si spera, dovrebbero averlo studiato –  dopodiché la parola passa al Procuratore Generale che esprime il suo parere e formula le conclusioni: accoglimento, rigetto o inammissibilità.  Segue la discussione degli avvocati, se presenti: in Cassazione è, infatti, possibile affidarsi al semplice atto scritto.

    Trattati tutti i ricorsi (qualche ora passa), la Corte si ritira in camera di consiglio e li decide in un’unica sessione. Provate – è stato fatto da addetti ai lavori – se ne avete voglia e occasione ad andare a cronometrare quanto impiega mediamente a deciderne ognuno: basta far partire il tempo quando il Collegio si ritira e fermarlo quando suona la campanella che avvisa dell’imminenza della lettura dei dispositivi. Il risultato è che ogni ricorso ha avuto a disposizione per essere deciso una manciata di minuti che dovrebbero ricomprendere un confronto dialettico tra cinque Giudici di alto grado, la votazione e la redazione – che non di rado è ancora a mano – del dispositivo.

    E così è che questioni di diritto non di rado complesse e il destino degli uomini viene deciso in un batter di ciglia. Alzi la mano chi crede che, una discussione, magari non serrata (parliamo di un minuto o due a testa), tra i cinque ci sia stata e non che ci sia affidati ad una scelta già sostanzialmente preconfezionata dal relatore addirittura ben prima di avere udito il Procuratore Generale e gli avvocati ma solo letto gli atti in splendida solitudine e meramente illustrata agli altri componenti del Collegio.

    Tanto varrebbe “monocratizzare” la Corte Suprema, distribuendo meglio le risorse e offrendo maggiore dignità alla trattazione dei casi e ad ogni decisione.

    Provate, invece, ad andare a cronometrare il tempo che un Giudice dell’Udienza Preliminare (che dovrebbe essere un “filtro” verso il dibattimento) impiega per decidere se rinviare a giudizio o prosciogliere, anche solo parzialmente, degli imputati: il risultato è il più delle volte analogo alla Cassazione: pochi minuti per esaminare, magari, diverse posizioni e molteplici imputazioni dopo avere ascoltato le ragioni di altrettanti difensori.

    Nel prossimo numero de Il Patto Sociale continueremo ad affrontare l’argomento; nel frattempo, però, non lamentatevi più dei tempi biblici della Giustizia: ponetevi, al più, la domanda se questa lo sia.

     

  • In attesa di Giustizia: sanità malsana

    Ci risiamo: un’ennesima indagine della Procura della Repubblica di Milano disvela il supposto malaffare che alligna nel sistema sanitario lombardo: considerato a buon diritto un’eccellenza a livello nazionale ma non estraneo a quei fenomeni criminali che facilmente allignano e prosperano là dove vi sono consistenti volumi di denaro pubblico in distribuzione.

    Non è la prima volta, come si è anticipato, la storia rassegna numerosi precedenti da quello del Centro di Medicina Nucleare che coinvolse circa quattrocento medici di base accusati di prescrivere, dietro – peraltro –  modeste prebende economiche, accertamenti diagnostici strumentali inutili per garantire ad un istituto convenzionato di avvantaggiarsi con un giro di affari diversamente ingiustificato a danno della ASL competente che ne rimborsava il costo, alla più recente vicenda giudiziaria della “Santa Rita”, nota anche come clinica degli orrori. Da ultimo e a tacer d’altro, vi è stata l’inchiesta che ha attinto un noto primario ortopedico, poche settimane addietro rinviato a giudizio per lesioni colpose e corruzione: proprio dalle investigazioni svolte nei confronti di costui è scaturito il filone d’indagine che ha portato all’arresto di altri medici del Gaetano Pini e del Galeazzi, che sono considerati centri ortopedici di prima grandezza.

    Avrete notato che su queste colonne non sono stati fatti nomi, neppure con riferimento a fatti che hanno visto ormai concludersi definitivamente l’iter giudiziario: ne spiegherò il perché costituente la ragione di fondo dell’articolo di questa settimana, fatta la premessa maggiore che è giusto vi sia un controllo sociale sulla gestione di un settore pubblico sensibile come la sanità e sulla amministrazione della giustizia. L’informazione deve, dunque esserci, ma alcuni limiti perimetrali appaiono opportuni.

    Cominciamo dal passato più o meno remoto, sempre con riferimento alle vicende ricordate: coloro che sono stati coinvolti a diverso titolo sono morti, stanno scontando lunghe pene detentive, qualcuno deve essere ancora giudicato, altri sono risultati estranei ai fatti. Tutti costoro, se già processati hanno – se non altro – il diritto all’oblio, quantomeno per evitare che da giudizi e pregiudizi ricadano immaginabili effetti negativi su incolpevoli famigliari e/o collaboratori.

    Chi, invece, non è ancora attinto da una sentenza di condanna ha la giusta pretesa di far valere la propria presunzione di non colpevolezza e, soprattutto, di non essere giudicato al di fuori di un Tribunale sulla scorta di una conoscenza frammentaria ed atecnica degli atti.

    A maggior ragione, una significativa riservatezza dovrebbe essere assicurata a chi risulta “solamente” raggiunto da un provvedimento di cattura ed è, quindi, ben lontano non solo da una affermazione di colpevolezza ma anche solo da un rinvio a giudizio.

    Proviamo a immaginare l’impatto che “il mostro sbattuto in prima pagina” ha sull’esistenza di figli incolpevoli che devono andare a scuola il giorno dopo, di coniugi che dovranno affrontare i colleghi di lavoro, i conoscenti, i vicini di casa: non è sicuramente ciò che la giustizia e chi la amministra vuole ma la fuga di notizie sembra essere un aspetto ineliminabile e quanto appena accaduto con riguardo a primari e imprenditori arrestati, con atti processuali e intercettazioni telefoniche disponibili nelle redazioni di giornali e telegiornali prima ancora che in cancelleria è paradigmatico.

    La Sanità è malata? Il rimedio sta altrove, non certo nello spettacolarizzare di arresti e vicende umane nelle quali anche il colpevole, o presunto tale, nel suo malessere esprime una tragicità che meriterebbe – se non rispetto – almeno un minimo di riserbo.

  • In attesa di Giustizia: giustizia lenta ma inesorabile o lentezza inesorabile?

    La notifica di informazioni di garanzia, ancor più gli arresti quando riguardano personalità eccellenti o insospettabili, fanno notizia. Le assoluzioni, no: a riprova di questa considerazione vi è la vicenda dell’Avv. Giuseppe Melzi, uno stimato professionista milanese, che solo da pochi giorni ha appreso (con quasi due anni di ritardo rispetto al provvedimento che lo scagiona definitivamente) la conclusione di una drammatica vicenda che lo ha visto sventurato protagonista.

    Questi i fatti: nel febbraio 2008 nell’ambito di un’indagine iniziata sette anni prima, Giuseppe Melzi è stato arrestato con l’accusa di riciclaggio e concorso in associazione mafiosa restando detenuto per tre mesi in carcere, altri sei e mezzo agli arresti domiciliari e soggetto alla sospensione dall’attività professionale per complessivi tre anni e due mesi.

    Il 12 gennaio del 2009, quindi dopo otto anni di indagini complessive, quasi 500 giorni di intercettazioni telefoniche, sette interrogatori da parte del P.M. per complessive 1.1195 pagine di verbali, Milano si è dichiarata incompetente per territorio e gli atti trasmessi a Cagliari: qui la Procura, con estremo rigore, ha disposto ulteriori accertamenti delegando il R.O.S. dei Carabinieri di Nuoro e un nucleo specializzato della G.d.F. di Roma.

    Infine, nel marzo 2016 è stata formulata richiesta di archiviazione per non sostenibilità delle accuse che il G.I.P. ha accolto due mesi dopo.

    A tacere delle altre considerazioni che nel concreto si possono fare e si faranno, è opportuno chiarire un passaggio cruciale: nel nostro ordinamento l’arresto è consentito quando, oltre a pericoli connessi con il permanere in libertà, vi siano gravi indizi di colpevolezza a carico dell’indagato e la intensità indiziaria è collegata ad un pronostico di elevata probabilità di condanna per i fatti attribuiti. Come questa valutazione iniziale si possa conciliare con quella successiva – diametralmente opposta – di insostenibilità dell’accusa non è dato comprendere: certo è che se la Procura di Cagliari ha avvertito la necessità di svolgere altri e corposi  accertamenti viene da pensare che gli anni di indagine spesi in precedenza a Milano non avessero fornito un quadro accusatorio esaustivo e – più che mai – tranquillizzante prima di chiedere ed ottenere la cattura di colui che era conosciuto come un galantuomo.

    Questa devastante vicenda non è, purtroppo, unica ma è paradigmatica perchè – come in altri casi analoghi –  della fine dei tormenti di Giuseppe Melzi, di un processo che non avrebbe dovuto avere neppure inizio ed era – invece – apparentemente maturato sino all’arresto non si parla molto al di fuori di queste colonne…Già, le assoluzioni non fanno notizia…

    Sarà di consolazione la circostanza che, infine, vi è stata giustizia per un innocente? Dieci anni, con buona pace degli epigoni pentastellati (e non solo) del processo senza fine, sono un’attesa  che, francamente, non consente di gioire.

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