Processo

  • In attesa di Giustizia: ossimori

    La settimana scorsa, nelle ore più convulse per varare in Consiglio dei Ministri la riforma del processo penale riveduta e corretta dalla Guardasigilli, un convitato di pietra attendeva l’esito della battaglia tra giacobini e liberali standosene discretamente nella sua stanza d’albergo: il Commissario Europeo alla Giustizia, giunto a Roma con l’imperativo categorico di riportare l’Italia nel novero dei Paesi dotati di un impianto processuale democratico oppure di tagliare i fondi europei.

    Il Premier, uomo di grande buon senso ed assistito nell’opera di Governo da figure di altro profilo come Marta Cartabia, ha intuito tutti i sottesi a quella presenza e si è battuto per rintuzzare i rigurgiti inquisitori della compagnia di giro pentastellata.

    Il risultato più ostico da raggiungere è stato quello sulla riforma del regime della prescrizione, che nella formulazione attuale era stato fortemente voluto dai grillini, ponendo rimedio allo scandalo di processi che durano per tutta la vita di un imputato o di una parte offesa.

    E, d’altra parte, l’Europa ha fatto bene ad imporci il cambiamento, pena la perdita dei finanziamenti: siamo il Paese più condannato per violazione dei diritti convenzionali. Abbiamo un sistema che non garantisce il rispetto della presunzione di innocenza, anzi la mortifica col pericolo concreto che l’attesa di giustizia per un imputato sia destinata ad un percorso di lunghissima ed imprevedibile durata: e fosse anche colpevole nulla cambia dal punto di vista della previsione costituzionale sulla ragionevole durata del processo.

    Intanto, e la dice lunga su come la pensano gli italiani, prosegue con un successo forse al di là delle attese la raccolta di firme per i referendum sulla Giustizia tra i quali è centrale quello relativo alla separazione delle carriere tra Giudice e Accusatore: solo in Giudice che non abbia vincoli di carriera o, peggio, di cordata associazionistica col Pubblico Ministero, potrà essere indipendente e terzo.

    Proprio in merito a quest’ultimo tra i vari quesiti referendari non è fuor di luogo ricordare che alle Camere giace un disegno di legge – oltretutto di origine popolare – fortemente inviso e perciò boicottato dai soliti noti delle solite note forze politiche: dare la parola al corpo elettorale è, dunque, l’ultima opportunità.

    Tornando al progetto di riforma licenziato da Palazzo Chigi, è importante che si sia partiti con il piede giusto ma vi è da pensare, guardando anche al precedente appena richiamato, che sarà durissima la strada del confronto parlamentare.

    La tenzone cui si appresta la fronda giacobina, infatti, è stata immediatamente preannunziata con il furore intellettuale e dialettico che gli è proprio dall’indimenticabile cabarettista Cinque Stelle assurto al soglio del Ministero della Giustizia grazie alla benedizione di Giuseppi Conte: uno che, evidentemente, da come riconosce i giuristi conosce e capisce il diritto come l’aramaico.

    Bene ma non benissimo, dunque: certamente un po’ preoccupa che le sorti di una cosa seria come la Giustizia dipendano anche dai voti provenienti da un Movimento dilaniato da lotte intestine per la mediazione delle quali il Capo Comico ha selezionato un comitato composto da sette saggi.

    Sette saggi che non sono certo Talete, Solone, Periandro, Cleobulo, Chilone, Briante e Pittaco ma il meglio del meglio di quel manipolo di parlamentari nelle cui mani è affidato – tra le altre cose – il futuro del processo penale. Come dire: ossimori, e un fondato timore resta.

  • In attesa di Giustizia: rigore è quando arbitro fischia

    Con un anno di ritardo dovuto alla pandemia, sono iniziati i campionati europei di calcio e la Nazionale – almeno fino ad ora – vince, diverte e convince: prendiamo spunto da queste vicende sportive e azzardiamo la parodia in chiave calcistica per rievocare con una telecronaca quelle che sono state di maggiore impatto negli ultimi tempi per l’Ordine Giudiziario.

    Immaginiamo, allora, che in campo vi siano la Nazionale Magistrati (che realmente esiste) ed una squadra dell’Unione delle Camere Penali in rappresentanza dei cittadini italiani: quelli che da sempre sono in attesa di Giustizia ed oggi assistono sgomenti alla caduta verticale di credibilità della Magistratura.

    Partita sonnolenta, senza grandi spunti né da una parte né dall’altra; ma ecco che all’improvviso vi è un intervento scomposto di Raffaele Cantone che impatta sul suo compagno di reparto  Luca Palamara il quale, a sua volta, cadendo finisce con il falciare come birilli, determinando un “effetto domino”, numerosi atleti del suo team, imponendo il fermo del gioco: entrano sul terreno i massaggiatori e il medico ma nonostante le cure prestate non tutti sono in grado di riprendere la partita; vengono fatte alzare dalla panchina le riserve che, tuttavia, non sono in numero sufficiente per ripristinare la formazione ad undici elementi.

    Gli atleti della compagine avversaria assistono stupefatti all’accaduto e si aspettano che l’arbitro assuma una qualche decisione perché la Nazionale Magistrati è stata decimata e, secondo le regole, una partita non può iniziare o proseguire senza il numero minimo di sette elementi.

    Il fischietto tace e l’incontro prosegue con una delle squadre in netta superiorità ma senza che riesca ad andare a rete per la strenua difesa allestita dai tecnici dell’ANM Poniz e Santalucia: tutti i giocatori vengono dislocati in area di rigore a presidio della propria porta.

    Fraseggio stretto tra gli incursori dell’Unione, Spigarelli e Caiazza, interrotto da Riccardo Fuzio con un brutto fallo da rosso diretto al limite dei sedici metri, ma l’arbitro non lo espelle né concede la punizione.

    Continua l’assedio al bunker allestito dai magistrati e la giovane speranza delle toghe Paolo Storari tenta di alleggerire la pressione duettando con Davigo, leader storico della squadra ed idolo assoluto dei tifosi e dei capi ultràs Travaglio e Grillo: nel palleggio, peraltro, entrambi si aiutano con le mani ma ancora una volta l’arbitro chiude un occhio e lascia proseguire.

    Dagli spalti il pubblico rumoreggia all’indirizzo di una direzione del gioco che lascia perplessi e la partita non offre spunti tecnici apprezzabili con un manipolo di uomini asserragliati a pochi metri dalla linea di porta dove le azioni fallose si susseguono incessanti: Bossi, Capristo, De Pasquale e Spadaro pestano come dei fabbri ma, alla fine, solo a De Benedictis viene finalmente mostrato il cartellino rosso per doppia ammonizione: tra l’altro il suo sarebbe un fallo da rigore ma l’arbitro si limita all’inevitabile espulsione senza indicare il dischetto degli undici metri.

    Rigore è quando arbitro fischia, ricordava Vujadin Boskov da allenatore della Sampdoria…ed allora, che abbia ragione l’arbitro Mattarella il cui fischietto, tranne qualche raro e sommesso sibilo, rimane rigorosamente muto durante questa interminabile partita che sembra destinata ai supplementari?

    Forse, di certo è un silenzio imbarazzato ed imbarazzante, o entrambe le cose, mentre il quarto uomo, Salvini, segnala il tempo di un interminabile recupero.

  • In attesa di Giustizia: il volo degli stracci

    Questa settimana Verbania ha faticato per mantenere il primato nella hit parade degli orrori (sì, con la “o) giudiziari ma alla fine l’ha spuntata nonostante la serrata concorrenza di Taranto e Milano.

    Giusto per mantenere elevata l’ansia di chi – vittima o presunto autore di un reato – è in attesa di Giustizia, ecco finire nuovamente sotto processo l’ex Procuratore di Taranto, Carlo Capristo, noto come tutore del cosiddetto “Sistema Trani” fin quando è stato a Capo di quella Procura dove – secondo le ipotesi di accusa che lo avevano già portato ad una privazione della libertà personale – forniva una subdola copertura alle attività illegali intraprese dagli ex P.M. Scimè e Savasta con il contributo, ovviamente prezzolato, del GIP Nardi. Tutte personcine che sono già state condannate, almeno in primo grado, a pene assai pesanti: quasi diciassette anni di reclusione per Nardi, una decina per Savasta e quattro per Scimè.

    Passato a dirigere l’Ufficio Inquirente del capoluogo ionico, secondo quanto emerge dalla nuova indagine, Capristo avrebbe gestito la sua funzione con altrettanto e durevole asservimento della funzione giudiziaria: il che, tradotto, significa con modalità tipicamente corruttive-collusive. Tanto per non perdere le buone abitudini e, magari, arrotondare un pochino il miserevole stipendio di circa 10.000€ netti al mese (oltre indennità varie) per tredici mensilità grazie anche agli spunti offerti dalle grandi vicende giudiziarie che interessavano la ex ILVA…questo è quanto si ipotizza a suo carico: il caso vuole che del collegio difensivo che proprio in quel contesto investigativo si andava allestendo fosse entrato a far parte anche l’avvocato Amara: e, come recita l’epitaffio del monumento a Niccolò Machiavelli, tanto nomini nullum par elogium.

    Eh, sì! Ricompare anche Piero Amara, destinatario di un nuovo provvedimento di arresto mentre Capristo questa volta se l’è cavata con una misura molto più blanda, l’obbligo di dimora, in quanto è ormai in pensione e – quindi – in condizioni di non nuocere. Forse.

    Per chi non lo ricordasse, Amara è quello dei verbali della Procura di Milano secretati e destinati incomprensibilmente a Davigo invece che sortire, come sarebbe stato logico attendersi, l’avvio di un’indagine e l’iscrizione delle persone citate durante gli interrogatori nel registro degli indagati.

    E Milano, già nella bufera per questa brutta storia si vede inquisire altri due P.M. dai Colleghi di Brescia competenti per le indagini sui magistrati meneghini: Sergio Spadaro, da poco transitato alla Procura Europea e il più noto Fabio De Pasquale che – si sospetta – abbiano celato elementi di prova a discarico degli imputati nel processo per le presunte tangenti ENI per corruzione internazionale in Nigeria. Il condizionale è d’obbligo (lo si è usato anche per Capristo), perché la presunzione di non colpevolezza vale anche per coloro che praticano questo canone costituzionale con grande parsimonia.

    Fatto sta che, come si suol dire, non c’è pace tra gli ulivi anche – e soprattutto – grazie agli Uffici Giudiziari di Verbania dove, per mantenere la vetta della poco commendevole classifica, alla Dottoressa Banci Buonamici, che non ha convalidato i fermi per la strage della funivia e disposto una sola misura di arresti domiciliari, è stata tolta la titolarità sul fascicolo dal Presidente del Tribunale ricorrendo ad una fumosa giustificazione circa le assegnazioni del carico su base tabellare: parole incomprensibili ai più che non si tenterà neppure di spiegare perché il provvedimento è troppo tempestivo rispetto alle lagnanze del Procuratore (quella che non vuole più bere il caffè con la Collega Giudice) per non suscitare almeno qualche perplessità.

    Il retro pensiero è che, ormai, si sembra giunti al punto in cui il P.M si sceglie il Giudice più gradito… tanto è vero che la Camera Penale di Verbania ha protestato dichiarando lo stato di agitazione e proclamando un giorno di astensione, subito seguita dalla Giunta dell’Unione che di giornate di astensione dalle udienze ne ha indette due, stigmatizzando come quanto avvenuto, e tutt’ora in via di evoluzione a Verbania, sia tanto inaccettabile quanto indicativo di una improcrastinabile separazione delle carriere tra inquirenti e giudicanti.

    Questa primavera è maturata tardi, solo alle soglie dell’estate, sarà forse per questo che – invece del volo delle rondini che l’annuncia – assistiamo a quello degli stracci all’interno stesso di quell’Ordine Giudiziario che, come dice Carlo Nordio, è già tanto se gode ancora della fiducia del trenta per cento dei cittadini.

  • In attesa di Giustizia: peccati capitali

    Ira: la tragedia del Mottarone dopo l’iniziale, doloroso, sgomento ha suscitato un’ondata di indignazione nella opinione pubblica che si è andata accrescendo mano a mano che prendevano corpo i sospetti circa una inadeguata manutenzione dell’impianto cui ha fatto il paio la scellerata opzione di sopperire con uno stratagemma tecnico, che avrebbe impedito continui fermi delle cabine in movimento, ad una interruzione totale del servizio per indispensabili interventi di ripristino. Peccato comprensibile e perdonabile.

    Accidia: non erano esattamente beni spirituali quelli da perseguire ma da parte di qualcuno sembra essersi mostrato un indolente approccio al tema della sicurezza di esercizio ed una incomprensibile indifferenza rispetto al rischio elevatissimo di mettere a repentaglio – come poi è accaduto – vite umane.

    A fare il paio con l’accidia, l’avarizia: il movente che traspare sarebbe (il condizionale è d’obbligo mentre le indagini sono in una fase iniziale) legato alla volontà di risparmiare sui costi di riparazione evitando nel contempo le perdite di incassi determinate dal mancato funzionamento della funivia in un periodo cruciale dal punto di vista economico.

    Sarà, poi, così? Una svolta nell’accertamento delle responsabilità si era proposta con straordinaria velocità: tanto è vero che, a pochi giorni dal disastro, vi erano già dei presunti colpevoli raggiunti da una richiesta di fermo. Il fermo, peraltro, è un istituto diverso dall’arresto sebbene con caratteristiche concrete del tutto identiche: privazione della libertà e carcere.

    La legge, infatti, prevede come presupposto il pericolo di fuga che non deve consistere nella generica supposizione che a nessuno faccia piacere la prospettiva della galera suggerendo di sottrarvisi: devono, viceversa, evidenziarsi comportamenti concreti che dimostrino tale intenzione come potrebbe essere un repentino allontanamento da casa, il prelievo improvviso di consistenti risorse in contanti, la richiesta di un visto consolare per un Paese con il quale non vi siano accordi di estradizione.

    Dunque, posto che nulla di tutto ciò era stato dimostrato, bene ha fatto il Giudice a non convalidare i fermi e a non emettere un ordine di custodia (come, pure era stato chiesto contestualmente) se non nei confronti di chi aveva confessato la manomissione del freno di sicurezza. Le accuse di quest’ultimo rivolte agli altri indagati non sono a loro volta apparse riscontrate ed, anzi, pare che siano state in parte smentite da testimoni ed in parte motivate dall’interesse ad alleggerire la propria posizione coinvolgendo soggetti a livello gerarchicamente superiore.

    La confessione è la regina delle prove scriveva Mario Pagano nei Principi di Diritto Penale e Logica dei Probabili…ma erano altri tempi: un ordinamento moderno impone che le ammissioni di colpa che coinvolgono altre persone vengano verificate con prudenza poiché potrebbero essere determinate da ragioni diverse da una leale collaborazione con l’Autorità Giudiziaria; persino la confessione del fatto proprio non deve essere, come si suol dire, “presa per oro colato” tanto è vero che il codice prevede anche il reato di autocalunnia.

    Tristezza: un tempo i peccati capitali erano otto. Il buon cristiano aveva il dovere della letizia. Orientamento etico superato ma stato d’animo insuperabile di fronte alla tragica fine di tante vite umane: il dolore, tuttavia, non può e non deve trovare conforto nella caccia ad un colpevole purchessia, la giustizia è qualcosa di ben diverso dalla vendetta sociale ed anche se gli animi sono gravidi di dolore non deve in alcun modo darsi spazio allo sconcerto per il provvedimento di un Giudice equilibrato ed in tutto coerente con quello che la legge prevede e che, comunque, non è ancora una sentenza di assoluzione.  “Ad metalla, ad bestias” lasciate che sia il grido delle truppe cammellate davighiane, la Giustizia è un’altra cosa ed è quello che merita la memoria delle vittime.

  • In attesa di Giustizia: il regno delle tre Sicilie

    La settimana si è conclusa con la attesa sentenza del G.U.P. di Catania di non luogo a procedere nei confronti di Matteo Salvini per il caso della motonave Gregoretti: decisione impeccabile, giunta in esito ad una serie di arricchimenti istruttori che non solo hanno consentito di  meglio motivare l’accoglimento della richiesta di proscioglimento che già era stata formulata dalla Procura ma hanno ridato dignità all’udienza preliminare la quale, nella gran parte dei casi, risulta un mero momento di acritico passaggio di carte da un ufficio all’altro.

    Per una vicenda del tutto analoga l’Autorità Giudiziaria di Palermo aveva, invece, misteriosamente disposto il rinvio a giudizio dell’ex Ministro dell’Interno: e chi auspica la certezza del diritto è servito, soprattutto se si presta attenzione al terzo procedimento “siciliano” sugli sbarchi negati ai migranti in cui era stato indagato, quello relativo al pattugliatore “Diciotti” della Guardia Costiera.

    Qui si ritrova un colpevole che sembra averla fatta franca  – come direbbe Davigo, nel frattempo  impegnato a far crollare nei sondaggi la credibilità della magistratura – ed è il Procuratore di Agrigento. Per quel caso era stata negata l’autorizzazione a procedere nei confronti di Matteo Salvini (correttamente e sebbene in Parlamento simili determinazioni siano soggette alla variabilità legata alle alleanze del momento) a carico del quale il Dottor Patronaggio aveva ipotizzato la commissione del reato di sequestro di persona  recandosi egli stesso a bordo della “Diciotti” per un sopralluogo terminato il quale senza far nulla tornò serenamente in Procura.

    Sappiano i lettori che, per il nostro codice penale, chi – come un Pubblico Ministero, un Carabiniere o un Poliziotto – ha il dovere di impedire la commissione di un crimine qualora non intervenga ne diventa complice. Ebbene, se Patronaggio riteneva che i migranti fossero stati sequestrati  invece che farsi due passi a bordo avrebbe dovuto sguainare la spada della giustizia e liberare i prigionieri. Allora delle due l’una: o quello non era un reato e il Procuratore non aveva motivo né di intervenire né di indagare il Ministro, oppure ne è stato correo e – forse – avrebbe dovuto arrestarsi da solo. Giustizia delle Tre Sicilie.

    Nel frattempo la Patria del Diritto affonda per altre ragioni anche a nord di Scilla e Cariddi, vittima dei postumi della devastante gestione del noto disc jockey Fofò Bonafede: a breve si sarebbero dovuti tenere gli esami per l’abilitazione alla professione di avvocato la cui organizzazione, con metodiche diverse rispetto al passato per fronteggiare l’emergenza pandemica, era stata frutto dello sforzo immaginativo dei tecnici arruolati dal Guardasigilli ridens (forse gli stessi che hanno realizzato il claudicante portale dei Tribunali e delle Procure).

    Ecco allora allestito un altro prodigioso sito informatico attraverso il quale i circa 26.000 candidati avrebbero dovuto gestire la propria partecipazione alle prove d’esame ma, prescindere da altre carenze organizzative relative alle convocazioni dei praticanti avvocati, ecco che il portale appena avviato è caduto vittima di un data breach: in sostanza, gli utenti – pur accedendo con le proprie credenziali – hanno visualizzato i profili di altri candidati e nella loro interezza tutti i rispettivi dati sensibili.

    Ovviamente non è stato possibile utilizzare nessuna delle funzioni del portale attesa la confusione creatasi tra migliaia di candidati molti dei quali, a causa di scomposti smanettamenti da parte di altri si ritrovano ora  rinunzianti a sostenere le prove d’esame che, peraltro, è altamente improbabile che abbiano inizio alla data prevista del 20 maggio.

    Di questo sfascio e della responsabilità del Ministero sulla protezione dei dati si occuperà innanzitutto il Garante della Privacy e già si prevede una serie infinita di reclami, ricorsi e richieste di risarcimento.

    Giustizia e tecnologia del terzo millennio che fanno rimpiangere le grandi opere dei Borboni come, ad esempio, il Codice per lo Regno delle Due Sicilie promulgato da Ferdinando I che pose il Regno stesso al primo posto anche dal punto di vista giudiziario, quel Regno che vide realizzati sia la prima linea ferroviaria “italiana” che il primo telegrafo, per non parlare dell’osservatorio astronomico di Napoli e delle menti illuminate cui diede i natali, da Vico a Filangieri a Pagano.

    Il XXI Secolo sarà – viceversa – ricordato per le immortali opere di Toninelli, le riforme di Bonafede, il pensiero giuridico di Davigo plaudite dalla piattaforma Russeau e, parafrasando Brecht, viene da dire: sfortunata la terra che ha bisogno di simili eroi.

  • In attesa di Giustizia: il segreto di Pulcinella

    L’accesso ai fondi del Recovery Plan prevede che si dia luogo a riforme in settori cruciali e tra questi vi è quello della Giustizia: la Ministra Cartabia ci sta provando ed in settimana dovrebbe essere presentato il progetto relativo al processo civile e si sta lavorando all’ambito di quello penale.

    Qualcosa delle linee guida di queste riforme già traspare, senza il crisma della definitività anche per i problemi legati alla ostinata resistenza della compagine pentastellata alla revisione di alcuni settori del diritto recentemente modificati proprio su impulso e voto plebiscitario di quella maggioranza.

    Tuttavia, il vero ed attuale problema per i cittadini, che sono più in difficoltà ad orientarsi tra complicate regole tecniche ma sono soprattutto gli utenti del servizio giustizia è chi la amministra: la caduta verticale della fiducia nella magistratura ne è l’implacabile indicatore.

    Come vi era da immaginarsi, tiene banco (e lo terrà ancora a lungo) la vicenda dei verbali di interrogatorio dell’Avv. Amara che sta generando scompiglio nelle Procure, soprattutto in quella di Milano:  si dice che il  Procuratore Francesco Greco, imbarazzato da quanto emerso, sia intenzionato a fare richiesta di pensionamento anticipato mentre il suo sostituto “ribelle” Storari è indagato per violazione del segreto istruttorio avendo dato il via alla diffusione di quei verbali con destinatario Piercamillo Davigo dal quale si attendeva soccorso e consigli sul da farsi perché – a suo dire – il Capo dell’Ufficio nicchiava sulla apertura formale di un procedimento basato sulle dichiarazioni accusatorie di Amara che coinvolgono uomini delle istituzioni.

    L’esistenza di quelle carte è diventata di dominio pubblico solo perché Nino Di Matteo (destinatario a sua volta di un plico con mittente anonimo che le conteneva una copia) ha scoperchiato il vaso di Pandora ed ora si scopre che, nel frattempo, altri – e tra questi, forse, nessuno legittimato a conoscerne il contenuto – ne avevano avuto notizia e preso visione. Tra smentite e mezze ammissioni risultano coinvolti il Vice Presidente del C.S.M., il Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia, i Direttori di un paio di giornali, la ex segretaria di Davigo e chi più ne ha più ne metta.

    Nei programmi di approfondimento si è scatenata la bagarre e volano gli stracci: ha ragione uno, no l’altro, si doveva fare in un certo modo anzi diversamente…e secondo Nicola Morra Davigo gli avrebbe parlato e mostrato i verbali ricevuti nella tromba delle scale della sede del C.S.M. a maggiore reciproca tutela rispetto al rischio di essere intercettati: e perché mai temere qualcosa del genere? Forse perché nel Paese è ormai dilagante la cultura della intolleranza e del sospetto, forse perché la coda di paglia non è patrimonio esclusivo di alcuni, forse perché non ci sono innocenti ma solo colpevoli che l’hanno fatta franca ed ambiscono a mantenere l’impunità? Tutto molto opaco, tanto per usare un eufemismo. E, poi, Morra che c’entra?

    Si scopre allora, verrebbe da dire: “finalmente”, che esiste il segreto istruttorio, che costituisce un reato la prassi quotidiana di far filtrare verbali di interrogatorio, provvedimenti di arresto e intercettazioni prima ancora che ne abbiano disponibilità lecita i diretti interessati ed i rispettivi difensori.

    Si scopre che la riservatezza non è solo una virtù ma un valore aggiunto ed una garanzia da coltivare nel corso delle indagini penali.

    Si scopre che, al di là dei problemi legati alla spartizione correntizia degli incarichi di vertice la magistratura – non tutta, per fortuna – sembra avere scatenato, si passi l’espressione, una vera e propria guerra tra bande che ne sta determinando una sorta di implosione.

    Si scopre che – magari – a questa implosione non è estraneo il venir meno della figura di un avversario da battere come Silvio Berlusconi se si vuol dare credito proprio a Luca Palamara che ha parlato di una “funzione supplente” della magistratura rispetto ad una opposizione parlamentare ritenuta imbelle.

    Si scopre che il segreto istruttorio è il segreto di Pulcinella e si ha la conferma che l’attesa di Giustizia sarà ancora molto lunga.

  • In attesa di Giustizia: processi senza aula

    Sembra che i processi debbano sempre più spesso celebrarsi fuori dalle aule e in questi giorni se ne è avuta più di una preoccupante riprova.

    Lo sfogo di Grillo sembra la nemesi che si ritorce contro colui che ha costruito una fortuna politica sul linciaggio mediatico di presunti innocenti (presunti, perché non ancora giudicati) offrendoli con la tradizionale eleganza oratoria alla rappresentazione del vaffaday come già condannati dalla folla televisiva.

    Garantismo a corrente alternata, quindi, di chi in altre occasioni si genuflette in adorante e servo ossequio del Torquemada di turno ed invocando il “crucifige” di chiunque abbia avuto la sventura di essere sottoposto ad un indagine, seppure ben lontano da una condanna definitiva.

    Un po’ di coerenza, serietà e consapevolezza non guasterebbero: i processi sono una faccenda terribilmente seria per essere affidati agli show televisivi ed alle compagnie di giro.

    Riportando l’attenzione sulla vicenda – drammatica – di Denise Pipitone (la bimba siciliana scomparsa ormai da moltissimi anni), Quarto Grado ha voluto tener fede al proprio nome imperniando nella quasi interezza una puntata per contestare il triplice e definitivo giudizio assolutorio della sorellastra che per l’ipotesi di sequestro di persona non potrà mai più essere giudicata in nome di un divieto per legge a garanzia di chi sia stato assolto con sentenza non più appellabile.

    Ma il mondo dei media, dei social non trova mai quiete se si tratta di celebrare processi sommari: per giorni si sono agitate le acque, senza farne il nome, intorno alla figura di un magistrato uso a consumare pranzi e cene nei ristoranti vicini al Tribunale di Milano senza pagare il conto: una brutta storia ma per altri motivi.

    Alzi la mano chi crede che ci possa essere un cronista che, non si sa bene in virtù di quale illuminazione e con i locali chiusi, si mette al rintraccio di ristoratori per porre una domanda del tipo “Scusi, le è mai capitato di avere come cliente un magistrato scroccone?”. E’ chiaro che c’è stata una soffiata ed essendo altrettanto impensabile che provenga simultaneamente da diversi esercenti, non può altro che derivare dall’”interno” anche perché adesso si dice che tra i magistrati tutti sapevano tutto e del problema se ne sarebbe occupato anche il Consiglio Giudiziario.

    Francamente tutto ciò ha il sapore acre del regolamento di conti, a pochi mesi dal pensionamento e poche settimane dalla partecipazione ad un processo di grande rilievo politico economico, in quell’ambientino ormai saturo di veleni che è la magistratura.

    Ha fatto benissimo Piero Gamacchio, questo è il nome del giudice, a uscire subito allo scoperto, ammettendo tutto e ponendosi in aspettativa: se qualcuno ha pensato di tenerlo sotto schiaffo, ora ha le polveri bagnate.

    Comunque la si riguardi è una storia più triste che brutta cui ha fatto subito seguito la notizia della incolpazione del Presidente del Consiglio di Stato per induzione indebita e, per non farsi mancare nulla (una al giorno), quella dell’arresto di un giudice di Bari per corruzione.

    Ormai la credibilità dell’Ordine Giudiziario tra diffusi gossip, veleni e incriminazioni sta sprofondando in un abisso; i processi un aula sono altrettanto temuti da chi con la magistratura deve confrontarsi perché, come scriveva Nietzsche, se si guarda in un abisso anche l’abisso ti guarda dentro.

  • In attesa di Giustizia: a proposito di informazioni di garanzia

    L’articolo 111 della Costituzione recita che “la legge assicura che la persona accusata di un reato sia, nel più breve tempo possibile, informata riservatamente della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico e disponga del tempo e delle condizioni necessari per preparare la sua difesa”: risiede in questa previsione l’istituto della informazione di garanzia che – però – non di rado viene notificata in coincidenza con la conclusione delle indagini (di cui, fino ad allora, l’accusato nulla sapeva) e quindi anche a distanza di anni non solo dai fatti ma anche dall’inizio delle indagini, con buona pace dell’allestimento di una efficace e tempestiva difesa. Oppure, si assiste a una velocissima comunicazione, normalmente priva dei crismi di riservatezza: dipende chi è il destinatario e la natura delle accuse.

    E’ storia recentissima: una funzionaria del M.I.U.R. apprende di essere indagata dalla Procura di Roma per corruzione, del fondamento dell’accusa nulla sa né può sapere perché l’informazione di garanzia contiene solo l’incolpazione preliminare: poco più che la parafrasi di un articolo del codice penale, i tempi per saperne di più e potersi effettivamente ed efficacemente difendere non saranno brevi e la donna lo immagina. Nell’attesa di incontrare il suo avvocato, mentre lo attende in sala di aspetto, cede alla disperazione e si lancia dalla finestra. Ora lotta tra la vita e la morte.

    Non sappiamo molto di questa signora e molto poco della sua vicenda: ma sono note le dinamiche sempre drammatiche che si innestano nella mente di una persona che, raggiunta da un grave sospetto, diventa una preda del branco di cacciatori di notizie, e se c’è di mezzo la Pubblica Amministrazione è sempre caccia grossa. Perché di questo si tratta: nel nome di un malinteso diritto-dovere di informare i cittadini, il mostro – anzi il presunto tale – viene subito sbattuto in prima pagina. Peccato che l’informazione non c’entri nulla: come si fa a dare informazione di qualcosa che non si conosce? Come si può rivendicare il diritto di diffondere una notizia geneticamente parziale ed unilaterale di cui non si è in grado di verificare la fondatezza? Un’ avviso di garanzia non fornisce dati sufficienti nemmeno all’indagato, figuriamoci a chi non sa nulla della vicenda…a tacer del fatto che, di per sé, quella notizia è (o sarebbe…) coperta dal segreto investigativo. Non è, non dovrebbe essere divulgabile la notizia della pendenza di una indagine su qualcuno ma le sanzioni sono ridicole, anzi inesistenti. Ovviamente, la cronaca di una indagine in corso non potrà che essere interamente modellata sulla ipotesi accusatoria, perciò parziale, e rispetto alla quale le persone coinvolte sono prive di un diritto di replica. Cosa dovrebbero dire: “sono innocente”? Come no, pensa che notiziona.

    L’ipocrisia e la viltà intellettuale che ruota intorno a questa malposta rivendicazione del diritto–dovere di informazione è intollerabile. Cosa viene sottratto alla conoscenza pubblica, vietando la diffusione di quella che è in realtà una non-notizia? Un P.M. che riceve comunicazione di un fatto che egli reputa potrebbe avere rilievo penale iscrive l’indagato nell’apposito registro ed inizia la sua attività di verifica e di approfondimento investigativo. Tutto qui, e in nome di quale diritto, e del diritto di chi soprattutto, deve essere lecito rendere pubblico un fatto che, per sua natura, è lontanissimo dall’aver raggiunto connotazioni non solo di certezza, ma nemmeno di plausibilità? Si tratta di una ipotesi unilaterale che ancora non si è nemmeno misurata con una seppur sommaria confutazione difensiva.

    Tuttavia, l’informazione anche solo limitata ad una ipotesi investigativa, è dotata di una forza devastante che attrae morbosamente la pubblica opinione per la quale una semplice tesi accusatoria si presuppone fondata promanando da soggetti assistiti da una presunzione assoluta di affidabilità, attendibilità ed imparzialità.

    Vi è poi la regola non scritta del più becero populismo giustizialista, secondo cui se un personaggio pubblico -politico, pubblico amministratore- viene raggiunto dal sospetto, merita perciò stesso che la notizia abbia la massima diffusione.

    Il costo che la persona raggiunta dagli strali della cultura della intolleranza e del sospetto deve pagare è sproporzionato rispetto al preteso diritto di informazione che vorrebbe giustificalo. Vita professionale, politica, familiare travolte spesso in modo irreparabile, reputazione personale inesorabilmente compromessa con brutale violenza dai morsi feroci della gogna mediatica.

    Nessuna vicenda umana dovrebbe affidarsi a valutazioni semplificate, meno che mai se si tratta di una vicenda giudiziaria: tra l’innocenza e la colpevolezza vi è una vasta gamma di comportamenti (imprudenze, equivoci, coincidenze, gravi azzardi) che ciascuno di noi deve poter avere il diritto di chiarire e spiegare, a sé stesso ed agli altri, prima di essere trascinato nel fango, e nella disperazione alla quale ha ceduto questa signora.

    Qualunque cosa possa aver fatto o non fatto, ha semplicemente capito di non avere già più il tempo per spiegare e di attendere Giustizia.

  • In attesa di Giustizia: errare è umano, perseverare è diabolico

    Gli errori giudiziari continuano ad essere senza responsabili e responsabilità.

    Sul sito www.errorigiudiziari.com si trovano anticipati i dati relativi agli errori giudiziari e ingiuste detenzioni aggiornati al 31 dicembre 2020, sulla base dei quali è possibile fare un punto della situazione ricordando che c’è una differenza tra le vittime di ingiusta detenzione e cioè coloro che subiscono una custodia cautelare in carcere o agli arresti domiciliari, salvo poi venire assolte e chi subisce un vero e proprio errore giudiziario: vale a dire quelle persone che, dopo essere state condannate con sentenza definitiva, vengono assolte in seguito a un processo di revisione, di regola dopo avere scontato molti anni di carcere.

    Per avere una prima idea, di quanti cittadini sono stati privati ingiustamente della libertà è significativo mettere insieme sia le vittime di ingiusta detenzione sia quelle di errori giudiziari in senso stretto. Ebbene, dal 1991 al 31 dicembre 2020 i casi sono stati 29.659: in media, un migliaio all’anno. Il tutto per una spesa complessiva per lo Stato (che è tenuto a riparare ai propri errori) che raggiunge la soglia di 869.754.850 euro, per una media di poco inferiore ai 30 milioni di euro l’anno.

    Attenzione, perché nel 2020 si è registrata una inversione di tendenza delle ingiuste detenzioni che sono in leggero calo rispetto al 2019: i casi sono stati 750, per una spesa in indennizzi liquidati pari a circa trentasette milioni di euro il che, rispetto all’anno precedente, denota effettivamente un netto calo sia nel numero di casi (- 250) sia nella spesa.

    Buon segno? Giammai…perseverare nell’errore è diabolico: la flessione non è il segnale di un cambio di passo virtuoso bensì la conseguenza di un rallentamento dell’attività giudiziaria, causa covid19, delle corti di appello chiamate a decidere sulle domande di riparazione che, sia detto per inciso, nel tempo hanno elaborato le più stravaganti giustificazioni per non concederle o ridurne l’entità. Qualche esempio? L’avere frequentato cattive compagnie, avere dei precedenti penali o – persino – essersi avvalsi della facoltà di non rispondere al primo interrogatorio da arrestato (quest’ultimo è un diritto assicurato dalla Costituzione…).

    A fronte di questa situazione sorge spontanea una domanda: come mai gli strumenti della giustizia disciplinare e la normativa sulla responsabilità civile dello Stato-giustizia non frenano gli errori giudiziari e le ingiuste detenzioni?

    I dati sulle azioni disciplinari sono semplicemente impietosi basti dire che nel passato era stato persino mandato indenne da conseguenze un magistrato che aveva abusato di un ragazzino nelle toilettes di un cinema porno perché – poco tempo prima, in casa – gli era caduto in testa un infisso che, secondo la sezione disciplinare del C.S.M., ne aveva temporaneamente compromesso la capacità di intendere e di volere.

    E’ vero, l’esempio non c’entra con il tema delle ingiuste detenzioni e degli errori giudiziari…ma rende sicuramente l’idea di come funzioni la “giustizia domestica” dei magistrati che, nel triennio 2017/2019 su circa tremila tra errori giudiziari e ingiuste detenzioni ha avviato la miseria di 53 accertamenti di cui solo 4 conclusi con una blanda censura.

    Quanto alla responsabilità civile, basti dire che la legge che ne regola l’accertamento è burlescamente costruita in modo da renderlo sostanzialmente impossibile.

    Certo è che un migliaio di cittadini all’anno privati ingiustamente della libertà sono un numero che più che suscitare l’attesa della Giustizia provocano il fondato timore che la sua amministrazione sia troppo spesso nelle mani di pericolosi emuli di Piercamillo Davigo.

  • In attesa di Giustizia: quousque tandem abutere, Palamara, patientia nostra?

    Così si rivolgeva Cicerone a Catilina, non certo a Palamara, all’inizio della prima delle sue orazioni pronunciate  – dette, appunto, Catilinarie – denunciando la congiura che stava ordendo per rovesciare la Repubblica e che avrebbe dovuto avere inizio proprio con l’assassinio di Cicerone il quale, avvisato per tempo, sfuggì all’agguato e  denunciò subito il complotto in Senato.

    Tradotto, significa. “fino a quando abuserai della nostra pazienza?”: ed è quello che, forse, è stato detto e chiesto a Luca Palamara, riconvocato di urgenza nei giorni scorsi per un’audizione alla Prima Commissione del C.S.M..

    Tutte le ipotesi circa il contenuto di questa audizione (come si vedrà, inopportunamente secretata) sono buone e le fughe di notizie, le ipotesi, i possibili retroscena  fluiscono già copiosi.

    La Prima Commissione del C.S.M., è bene chiarirlo, è quella che si occupa delle inchieste riguardanti i Magistrati e siccome Palamara è già stato sottoposto ad un procedimento disciplinare davanti al Consiglio vi è da pensare che sia stato convocato come testimone riguardo ad altre posizioni, probabilmente a causa delle rivelazioni fatte nel libro intervista pubblicato con Alessandro Sallusti.

    In quel testo, chi lo ha letto sopportando il voltastomaco che procura lo avrà intuito, molto si dice dell’autentico malaffare che ha governato il sistema della nomine a capo degli Uffici Giudiziari e le opzioni giudiziarie condivise per condizionare la politica ma molto anche si allude senza approfondire scenari più ampi che potrebbero riguardare tanto Magistrati e nomine, quanto lo stesso Quirinale: è dunque probabile, questo sì, che il C.S.M. abbia inteso sollecitare Palamara a “vuotare il sacco” del tutto.

    Tutto ciò va bene, benissimo, in nome della indispensabile opera di “pulizia” di un Ordine Giudiziario che ha raggiunto i minimi assoluti della credibilità e della autorevolezza; ma è proprio in nome di ciò che sarebbe risultata preferibile una scelta di maggiore trasparenza invece che far trafilare la notizia della audizione senza poi illustrarne – almeno in termini generici e senza scendere nella indicazione specifica di nomi, fatti e circostanze – l’oggetto.

    Secretazione, quindi, accettabile ma fino a un certo punto e non per sempre: si doveva offrire un servizio di informazione assai più corretto ad un Paese il cui rapporto con la Giustizia e chi la amministra è in forte crisi, evitando lo scatenarsi di dietrologi e spacciatori di “veline”:  in due parole era ed è indispensabile dare il segnale di una Magistratura che vuole uscire dal guado lasciando che l’opinione pubblica possa valutare fatti e persone sulla base di una informazione puntuale.

    Tutto ciò, tra l’altro, avrebbe reso effettivo il canone costituzionale secondo il quale la Giustizia è amministrata in nome del Popolo Italiano…ammesso e non concesso che sia messo in condizione di esprimere opinioni ragionate.

    Un’occasione persa, l’ultima tra tante e che questo permanente mistero tra i vari retropensieri che genera vi è quello circa la effettiva latitudine delle malefatte di cui Palamara è responsabile testimone. Cose taciute o solo accennate e perché? Paura, intenzioni estorsive, minore o indiretta conoscenza, pudore?

    Resta il fatto che così il nostro non è un Paese in attesa di Giustizia ma decisamente senza.

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