Processo

  • In attesa di Giustizia: le settimane della indignazione

    La presunzione di innocenza è un concetto che, canonizzato in Costituzione prima ancora che inserito in una direttiva della UE ed in successivo decreto legislativo che la recepisce, fatica a radicarsi nella opinione pubblica; la settimana scorsa l’indignazione è stata provocata dall’esito del processo “Ruby ter”, di cui questa rubrica si è interessata, questa volta tocca a quello che vedeva numerosi imputati per il crollo di un albergo a Rigopiano: cinque condanne – a pene piuttosto miti – e venticinque assoluzioni.

    La rabbia ed il dolore dei parenti delle vittime è stato umanamente comprensibile, meno lo sfogo del Ministro Salvini: “29 morti, nessun colpevole (o quasi). Questa non è giustizia, questa è una vergogna. Tutta la mia vicinanza e la mia solidarietà ai famigliari delle vittime innocenti”.

    Diversamente dalle esternazioni, anche molto dure, dei famigliari, quelle di un Ministro della Repubblica pesano in ben altro modo e chi le ascolta pensa che se un Ministro ragiona così, così staranno le cose: una vergogna, un’attesa di giustizia vanificata.

    Deve premettersi che chi cura questa pagina di questo processo non sa nulla ma altrettanto deve supporsi di Matteo Salvini: tant’è che alla vicenda giudiziaria in sé non verrà fatto neppure un accenno ma la esecrazione “al buio” merita qualche spunto critico, partendo proprio da quello che dei processi non si deve, comunque, parlare senza averne letto una sola pagina del fascicolo. E questo, sì, è inaccettabile.

    Dunque, se si volesse distillare un corollario dallo sdegno di Salvini e da quello – assai più frequente in casi simili – di Marco Travaglio, bisognerebbe dedurne che maggiore è il numero dei condannati, maggiore è la garanzia che giustizia è stata fatta. Al contrario, ad un più elevato numero degli assolti corrisponde la vergogna per la Giustizia; il che ne sottende un concetto più simile alla sua valorizzazione statistica che al riconoscimento della Giustizia stessa come categoria dello spirito comportante vincoli etici e valori inderogabili.

    Un concetto diffuso è che l’assoluzione dell’imputato sia il naufragio della giustizia, e la condanna il suo trionfo ma sarebbe preferibile che rimanesse confinato, se proprio deve, nei bar, già meno sui social o – peggio ancora – nei talk-show televisivi.

    Il processo serve proprio a questo: a verificare se un’accusa sia fondata o meno e capita, certo capita, che ve ne siano anche di insostenibili in giudizio, un colpevole a tutti i costi non è ciò che ci si aspetta dalla giustizia, non quella che conosciamo (o vorremmo conoscere) noi, l’alternativa è il ritorno alle ordalie, al Giudizio di Dio.

    Si discute, poi, molto della necessaria terzietà del Giudice, della sua indipendenza rispetto al Pubblico Ministero (ed anche questo è un precetto costituzionale) ma, a seguire certi ragionamenti, il buon giudice sarebbe solo colui che si allinea alla Pubblica Accusa: allora il processo non serve, ne tenga conto anche il Ministro delle infrastrutture che vive personalmente l’angoscia di un processo a suo carico: sarà una vergogna qualora venga assolto, oltretutto per la seconda volta di fila?

    A noi, a quelli che hanno qualche lustro di vita vissuta in aule che consideriamo sacre (fino a prova contraria…), hanno insegnato che le sentenze non si commentano: se non si condividono, si appellano e dei processi di cui nulla si conosce nel dettaglio non si parla, altrimenti sono solo parole al vento.

  • In attesa di Giustizia: uomini sull’orlo di una crisi di nervi

    Settimana di tregenda, quella appena trascorsa, per Marco Travaglio: al processo Ruby ter sono stati assolti tutti, ma proprio tutti, gli imputati e non solo Silvio Berlusconi.

    Ma com’è possibile, nessun colpevole? Il Direttore de Il Fatto Quotidiano ci aveva sperato fino all’ultimo ed in un articolo dal  titolo velatamente irrispettoso delle coimputate (“il governo assolve B. anche per Puttanopoli) non aveva mancato di manifestare il suo sdegno per la scelta di Giorgia Meloni di revocare la costituzione di parte civile in quel processo: cioè di rinunciare a far concludere l’Avvocatura di Stato richiedendo la condanna dell’ex Premier ed un risarcimento dei danni milionario.

    Scelta ragionevole, invece, perché l’esito degli altri due filoni del processo, già conclusi in altre sedi giudiziarie, sconsigliavano l’insistenza; e così è stato anche anche a Milano, un tempo roccaforte della resistenza anti berlusconiana: dopo solo due ore di camera di consiglio, il Tribunale ha emesso una decisione ampiamente liberatoria. Ma la ragionevolezza, si sa, non è virtù coltivata da Travaglio.

    Fortunatamente, nella redazione del House organ delle Procure sono disponibili dei defribillatori perché questa volta il nostro, al sopraggiungere della ferale notizia, ci stava lasciando le penne: salvato in extremis – pare – anche da una telefonata di conforto di Davigo che gli ha ricordato che in questo Paese non ci sono innocenti ma solo colpevoli che la fanno franca, sebbene sull’orlo di una nuova crisi di nervi, ha commentato compostamente: “E’ la comica finale”, facendo seguire un “pezzo” dedicato a Marco Tremolada (prossimo a subire l’incitazione “dagli all’untore”), Presidente della Sezione del Tribunale che aveva pronunciato quell’obbrobrio scoprendo con sgomento che era lo stesso che si era permesso di assolvere anche tutti gli imputati del processo ENI – Nigeria solo perché il P.M. Fabio De Pasquale aveva – lui sì – taroccato le prove a carico degli accusati. Ma questi sono dettagli, anche se De Pasquale è a giudizio per questa ragazzata. Al Fatto Quotidiano si sentono, ormai, circondati anche perché le truppe pentastellate di cui godeva il sostegno sono in rotta come l’esercito austriaco descritto da Armando Diaz nel bollettino della vittoria e da via Arenula il Ministro Carlo Nordio chiarisce che l’Italia non è un Paese in mano ai P.M..

    Sulla conclusone del processo “Ruby ter” è opportuno fare chiarezza con il contributo di un alto magistrato.

    Non tutti sanno che in base ad una risoluzione del C.S.M. del 2018, ai fini di una corretta comunicazione istituzionale, i capi degli Uffici Giudiziari possono emanare delle note esplicative in merito a determinate decisioni di rilevante interesse: il Presidente del Tribunale di Milano ha ritenuto opportuno redigerne una proprio a margine della sentenza in questione pur precisando che l’illustrazione completa delle ragioni condivise dai tre giudicanti è riservata alla motivazione che sarà successivamente depositata.

    In estrema sintesi, la nota del Presidente chiarisce che in questo caso non si configura la corruzione di testimoni (l’assoluzione, infatti, è stata “perché il fatto non sussiste”) in quanto le ragazze che si dice Berlusconi abbia pagato per mentire all’Autorità Giudiziaria, non lo sono mai state perché dovevano essere, invece, indagate (come poi è successo) fin dall’inizio.

    Elementare Watson? Sì: parliamo di un processo nato morto, il che sarebbe stato chiaro  persino per uno studente del terzo anno di giurisprudenza ma non per certi Pubblici Ministeri, naturalmente non per la redazione de Il Fatto Quotidiano, giornale preferibilmente da destinarsi all’accensione di stufe ed altri  impieghi meno nobili piuttosto che a ricevere una corretta informazione.

    Quanto all’attesa di giustizia, mai disperare: come dimostra il “Ruby ter” in un Paese del G7, per vederla trionfare, può essere sufficiente meno di una mezza dozzina di anni.

  • In attesa di Giustizia: il diritto è l’arte di ciò che è buono e giusto

    Tradotta dal latino jus est ars boni et aequi, questa espressione denota  l’aspirazione del diritto verso valori morali ed etici che nel diritto romano venivano sintetizzati anche con la locuzione honeste vivere alterum non laedere, suum cuiqe tribuere che troviamo scolpita in bassorilievo anche sul frontone del Palazzo di Giustizia di Milano: proprio uno dei luoghi meno adatti, ma non il solo del tutto inidoneo. La nostra rubrica, dal canto suo, può considerarsi una sorta di galleria degli orrori che settimanalmente avviliscono le esortazioni che provengono dalla saggezza dei latini, talvolta con più di un esempio. Questa volta sono due.

    Il primo si ricollega al tema delle inchieste nei confronti della Juventus, già condannata ad una pena illegale in quanto non prevista dall’ordinamento sportivo per il tipo di illecito contestato.

    Sul versante della giustizia ordinaria, Ciro Santoriello – che è il P.M. cui è affidata l’indagine “Prisma” relativa alle plusvalenze in cui hanno avuto largo impiego le intercettazioni  –  è diventato  “vittima” proprio della registrazione di un’intervista resa a margine di un convegno del 2019 in cui il magistrato parlava del calcio e delle sue storture bilancistiche. In quella occasione, Santoriello affermò di essere tifosissimo del Napoli aggiungendo che da Pubblico Ministero era contrario ai ladrocini e perciò  antijuventino e di odiare la squadra bianconera. Vabbè…una boutade tra il serio ed il faceto, che appena è riemersa è stata rapidamente strumentalizzata dai trasformisti della informazione decontestualizzandole.

    Ciro Santoriello, però, è un P.M. di grande spessore ed esperienza e quelle frasi avrebbe, forse, dovuto evitarsele a prescindere dal fatto che venivano pronunciate dialogando con un avvocato tifoso interista e dalla indisponibilità di una sfera di cristallo in cui leggere che – anni dopo – avrebbe indagato il top management della Juve per falsità nei bilanci. Oggi, una battuta infelice gli si ritorce contro appannando l’immagine di chi, sebbene parte processuale e non giudice, dovrebbe apparire in qualche misura super partes e la cui professionalità deve risultare immune dal sospetto che possa esservi differenza tra un’indagine puntigliosa e l’accanimento.

    Senza strepito mediatico, però, in questi ultimi giorni è successo di molto ma molto peggio: abbiamo un avvocato di Roma in ospedale dal 31 di gennaio per essere operato  per un cancro in metastasi, non per farsi la blefaroplastica e sembrare più carino, e abbiamo un’udienza a Genova cui l’avvocato avrebbe dovuto partecipare se non fosse stato ancora ricoverato, in convalescenza per quella sciocchezzuola.

    L’avvocato fa spedire ad un Collega amico e fidato il certificato del reparto di chirurgia, affinchè chieda un rinvio per legittimo impedimento, pur senza inviare  una preventiva istanza (comprensibile in quello stato con cui si affronta un cimento simile) ma l‘operazione, la patologia ed il resto, erano sul certificato.

    Il Tribunale rigetta la richiesta e procede a sentire dei testimoni con la partecipazione di un avvocato che  poco o nulla sa della causa e – bontà sua – rinvia per la discussione.

    Secondo questo sensibilissimo giudicante l’avvocato avrebbe dovuto segnalare il problema  due settimane prima, per  fare le contro-citazioni ed evitare ai testi l’incomodo di presentarsi in tribunale: magari venivano dalla parte opposta della città, forse addirittura da Camogli. Tutto  questo anche se dell’operazione si era avuta certezza nemmeno dieci giorni prima.

    Eh! ma erano venuti i testi… e per il tribunale (le minuscole sono tutte volute), un cancro metastatizzato, da solo non basta, nemmeno se documentato. Vergogna, ammesso che sia un turbamento possibile per certi soggetti.

    Di fronte ad esempi  come questi – e la rubrica ne offre più di quanti vorrebbe e meno di quanti potrebbe – si affievolisce la speranza di avere un giudice equanime e distaccato, al di sopra delle parti, sensibile solo alla delicatezza del ministero che gli è affidato e sereno di fronte al tormento del giudizio mentre il popolo italiano, quello nel cui nome viene esercitata la giustizia, assiste abbacinato solo dal fascino mediatico di chi si pone come un pubblico vendicatore.

  • In attesa di Giustizia: facciamo chiarezza

    Ormai da settimane gli indignati in servizio permanente effettivo, affiancati da pseudo giuristi in mala fede e dai ben informati tramite Google sproloquiano in materia di intercettazioni censurando ogni parola spesa sull’argomento dal Ministro della Giustizia: sia chiaro da subito che non è consentito a tutti di parlare di qualsiasi argomento. C’è un limite naturale, che è dato dalla complessità della discussione e non c’entra nulla la libera espressione del pensiero: a Bonafede, per esempio, dovrebbe essere permesso commentare, tutt’al più, l’almanacco di Topolino ma, per fortuna, sembra sparito dal proscenio.

    Quello delle intercettazioni telefoniche è un tema delicatissimo sul quale occorre evitare infuocati rodei in tv, sui media e sui social. Proviamo, invece, a mettere ordine per una corretta informazione.

    Partiamo dalla Costituzione, articolo 15: la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili. Per limitare quel diritto fondamentale occorre un atto motivato dell’autorità giudiziaria nel rispetto delle “garanzie stabilite dalla legge”. Queste ultime, proprio perchè derogano ad un canone costituzionale, non potrebbero mai essere governate dal principio di utilità. Certo che ascoltare persone sospette di commettere reati torna utile agli investigatori; ma poiché questo interesse confligge con un diritto di rango costituzionale dovrà necessariamente essere assistito da una tutela affievolita rispetto al primo. I tifosi della sicurezza – che è cosa diversa dalla giustizia, e qui si parla di giustizia – vista come interesse primario occorre se ne facciano una ragione, fino a quando si intenderà rispettare il patto costitutivo della nostra società.

    Le intercettazioni possono essere autorizzate solo durante le indagini per alcuni reati, considerati di maggiore allarme sociale e solo quando già sussistano “gravi indizi” (non il mero sospetto) che quei reati siano in fase di commissione o siano stati commessi; hanno una durata limitata nel tempo ed eventuali  proroghe devono essere motivate; gli esiti degli ascolti sono inutilizzabili se non pertinenti e rilevanti. Quanto alle cosiddette ambientali, le “cimici” non possono essere piazzate in luoghi di privata dimora, se non vi è fondato motivo di ritenere che proprio in quei luoghi si stia svolgendo un’attività criminosa con  eccezione per alcuni gravissimi delitti, principalmente di  criminalità mafiosa. Quanto poi al c.d. trojan, che trasforma il cellulare in un microfono, così da rendere impossibile predeterminare in quali luoghi esso intercetterà, questa micidiale intrusione, ancora una volta, potrà riguardare solo reati di eccezionale gravità.

    La domanda che sorge spontanea è se queste regole sono effettivamente rispettate e la risposta è negativa: essenzialmente per la scarsa indipendenza e terzietà del giudice delle indagini preliminari, che tende ad assecondare acriticamente la richiesta del P.M., soprattutto delle Procure forti politicamente e mediaticamente (i dati sulle percentuali di rigetto delle richieste dei PM sono, ad oggi, un segreto inviolabile); vi è, poi, una costante deriva all’uso indebito delle intercettazioni “a strascico”, quelle che vanno oltre l’ambito autorizzativo del giudice; vi è anche un uso disinvolto della nozione di “rilevanza” della conversazione. Per non farsi mancare nulla ecco, infine, la furia giustizialista del legislatore che ha esteso smisuratamente il catalogo dei reati per i quali è consentita la captazione e l’uso del trojan. Dunque, un quadro che necessita interventi mirati a restituire questo strumento investigativo ai confini della sua eccezionalità, sanzionando efficacemente la pubblicazione delle intercettazioni, almeno nella fase delle indagini. Si tratta di proposte che, diversamente non sono avanzate da fiancheggiatori della criminalità ma appartengono ad ampi strati del pensiero giuridico liberale e democratico, anche nella magistratura. Se i polemisti di accatto leggessero, insieme alla migliore dottrina processual-penalistica, qualche recente sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione o qualche altrettanto recente intervento di magistrati come Nello Rossi o Alberto Cisterna, la discussione potrebbe prendere la piega giusta. Il fatto è che, oltre a leggere quegli scritti -cosa che già non fanno- dovrebbero poi anche comprenderli. E qui l’impresa diventa disperata.

  • In attesa di Giustizia: mani pulite in salsa belga

    Non è vero che mettiamo in carcere gli indagati per farli confessare, è vero – però – che li scarceriamo quando confessano”. Così parlò, ai tempi di Mani Pulite, il Procuratore della Repubblica di Milano Francesco Saverio Borrelli.

    Ebbene, gli obbrobri e le forzature della legge nella gestione di quella indagine (che, forse, sarebbe più corretto denominare “mani ammanettate”), di cui scontiamo tutt’ora le conseguenze, sembrano aver trovato degli emulatori esteri.

    O, forse, sarà  in ossequio ai principi che regolano i rapporti tra le diverse Autorità Giudiziarie dell’UE, basati sul principio del mutuo riconoscimento delle decisioni che trova il suo fondamento nella reciproca fiducia che ogni Stato dell’Unione può riporre nella legislazione degli altri partner: fatto sta che Pubblici Ministeri e Giudici Istruttori belgi stanno dimostrando di avere imparato la lezione di Davigo e Di Pietro;  ovvero, se preferite, di Alberto Sordi nei panni del magistrato Annibale Salvemini nel predittivo film “Tutti dentro” del 1984, che oggi  fa amaramente sorridere.

    Stiamo parlando, ovviamente, dell’inchiesta soprannominata “Qatargate” della quale molto si parla e molto altro si ignora o – comunque – è blandamente evidenziato dalle cronache.

    Sappiamo, per esempio, che l’ex europarlamentare Antonio Panzeri ha scelto di confessare (anche, presunte, altrui malefatte: altrimenti la confessione vale poco…) e ciò gli vale un liberatorio patteggiamento alla pena di un anno, che nemmeno sconterà, per reati che in Italia ne valgono una decina malcontati e – questo sì –  la confisca di una considerevole somma di denaro…magari una quota sacrificabile del totale.

    Sembrerebbe, dunque, che la lectio magistralis impartita dal Procuratore di Milano negli anni ’90, richiamata all’inizio, sia stata seguita con la dovuta attenzione, soprattutto per quello che andremo subito ad illustrare.

    Tra le cose di cui si tratta meno, infatti, c’è che alla ex vice presidente dell’Europarlamento Eva Kaili dopo ben ventotto giorni di detenzione è stato consentito di trascorrere un paio d’ore con la figlioletta di soli venti mesi (il cui padre, pure, è detenuto), rigorosamente in carcere neanche fosse una madre che debba rispondere di avere trucidato il fratellino o che vi sia il fondato sospetto che la bimba sia una pericolosa complice da istruire per inquinare le prove.

    La netta sensazione è che – insieme alla privazione della libertà – sia questo un metodo per effettuare pressioni e conquistare l’agognata ammissione di responsabilità…possibilmente condita da qualche accusa nei confronti di altri compartecipi.

    Il termine da utilizzare, di fronte a ciò è uno solo: vergogna. Allora, tanto valeva rinchiudere questa indagata in una vergine Norimberga o strapparle le unghie per vedere se confessava invece di paludarsi da Stato di diritto quando dello Stato di diritto vengono ignorate o infrante regole fondamentali; allora è fuor di luogo puntare l’indice proprio contro il Qatar perché laggiù non vi sarebbe rispetto dei diritti umani.

    Ebbene, sì: par proprio che una identità culturale ed una tradizione giuridica comune tra Italia e Belgio si possano riconoscere traendo spunto da un caso come questo.

    Questa è l’Europa dalle comuni radici cristiane, dell’agognato ravvicinamento dei sistemi penali dei Paesi Membri, la Mani Pulite in salsa belga.

  • Il 23 febbraio la decisione sugli anni di carcere per Weinstein

    Harvey Weinstein dovrà ancora aspettare settimane per conoscere la sua sentenza. La giudice Lisa Lench della Superior Court di Los Angeles ha rinviato al 23 febbraio la decisione sull’ammontare della pena che l’ex ‘re di Hollywood’ dovrà scontare dietro le sbarre per aver aggredito e stuprato una ex modella nel febbraio 2013, ai margini del festival Los Angeles Italia.

    La Lench ha rinviato la sentenza per dar tempo ai legali di Weinstein di presentare una mozione per la revisione del processo. La procura a sua volta deve ancora decidere se tornare alla carica con le accuse di due delle quattro donne al centro della vertenza su cui la giuria non è riuscita a trovare un accordo: una di queste è la produttrice Jennifer Siebel, moglie del governatore della California Gavin Newson.

    Weinstein, 70 anni, è stato portato in aula in sedia a rotelle, addosso la tuta della prigione, e non l’abito giacca e cravatta che aveva ottenuto di indossare durante il processo. L’ex produttore di ‘Shakespeare in Love’ era stato riconosciuto colpevole il 19 dicembre nel secondo processo dell’era #MeToo che lo riguarda: demiurgo, per averli prodotti o distribuiti, di film che hanno vinto 81 premi Oscar, l’ex capo della Miramax rischia un massimo di altri 18 anni, oltre i 23 a cui era stato condannato per vicende analoghe a New York nel 2020.

    La pena decisa a Los Angeles è ritenuta cruciale, perché assicurerebbe che il 70enne ex re di Hollywood resti in carcere nel caso di un ribaltamento in appello della sentenza del processo di New York. Quattro donne avevano stavolta accusato Weinstein di molestie e stupri: la giuria lo aveva riconosciuto colpevole solo per quelle di una ex modella europea che aveva testimoniato anonimamente come ‘Jane Doe 1’. L’ex produttore era stato assolto dalle accuse di un’altra donna, mentre i giurati non erano riusciti a trovare accordo sulle accuse delle altre due, né sulle circostanze aggravanti che avrebbero alzato a un massimo di 24 il numero di anni della sentenza losangelina.

  • In attesa di Giustizia: non scrutate nell’abisso

    Chi lotta con i mostri deve guardarsi di non diventare, così facendo, un mostro. E se tu scruterai a lungo un abisso anche l’abisso scruterà dentro di te. Così scriveva Friedrich Nietzsche nel saggio filosofico “Al di là del bene e del male”

    E’ quello che deve  essere accaduto alla Ministra Marta Cartabia ed ai componenti delle sue Commissioni di studio quando hanno riguardato  – di necessità virtù – il sistema giudiziario italiano ponendovi mano per riformarlo: dallo sprofondo in cui giaceva (e giace tutt’ora)  uno stregonesco maleficio deve avere infettato le menti degli estensori della riforma lasciando inascoltate le voci di studiosi del processo del rango di Paolo Ferrua e Giorgio Spangher – solo per citarne un paio – che hanno da subito ammonito sulla necessità di più che un ripensamento.

    Niente da fare: avanti tutta con due progetti, perché si è intervenuti sia sul processo penale che su quello civile, destinati più che ad un banale fallimento ad accelerare il decesso e la decomposizione di un apparato disfunzionale ed agonizzante da decenni.

    La corsa era contro il tempo per il conseguimento entro fine anno dei fondi del PNRR di cui le esauste casse dello Stato hanno costantemente un bisogno estremo: e allora poco importa se gli Uffici Giudiziari hanno strutture inadeguate ad affrontare le novità, meno ancora se queste ultime presentano profili di autentica schizofrenia come nel caso della pezza messa all’obbrobrio della riforma della prescrizione sostanziale, voluta da quei raffinato giurista che risponde al nome di Alfonso Bonafede, che non è stata abrogata ma continuerà a convivere, almeno per un po’, con quella processuale.

    E non è tutto: da quest’anno avremo anche pene semi detentive per scontare le quali mancano le apposite sezioni penitenziarie e per realizzare le quali – come al solito – non ci sono né i soldi né il tempo.

    Il processo di appello è diventato (nelle ridotte ipotesi in cui si potrà celebrare) una burletta ma in compenso ed in molti casi, anche per reati di un certo rilievo, non avrà luogo neppure ad un giudizio essendo state cambiate alcune regole perché l’azione penale possa essere avviata. Il tutto, rigorosamente, senza la predisposizione di norme transitorie.

    Ah, già: le norme transitorie. Un tempo si diceva che la loro redazione fosse riservata ai giuristi migliori perché regolare il diritto intertemporale  non è  affar semplice dovendosi  bilanciare esigenze e garanzie tra un regime pregresso ed uno innovativo senza creare pregiudizi ai cittadini: ebbene, nella riforma “Cartabia” o non vi sono o sono semplicemente incomprensibili e già oggi, ad una settimana dalla entrata in vigore e tanto per fare un solo esempio, ci si confronta con il desolato stupore di cancellieri che non sanno se devono ricevere un atto manualmente o se deve essere spedito via pec.

    L’elenco potrebbe essere lungo ed i dettagli dello scempio difficili da illustrare perché a volte anche il giurista si interroga se stia leggendo un testo di legge o un numero speciale della Settimana Enigmistica.

    Questo, in sintesi, è quanto è riuscito a partorire in tema di giustizia il cosiddetto Governo dei Migliori: figuriamoci se fossero stati anche solo modesti e non i peggiori.

    Complimenti vivissimi, infine, anche alla Commissione Europea che, dopo qualche iniziale e timida critica al progetto di riforma, gli ha dato in ogni caso il via libera invece che affossarlo; salvo, poi, nella relazione annuale 2022 sullo Stato di diritto e nel capitolo dedicato all’Italia esprimere critiche durissime affermando che con perle normative di questo tipo si mette a rischio l’effettività stessa del sistema giudiziario.

    Nel frattempo, però, è stato tagliato il traguardo di fine anno vittoriosamente conquistando il premio in fondi europei ed  il futuro della giustizia è già iniziato presentandosi a mani vuote.

  • In attesa di Giustizia: impuniti

    L’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico è un ente internazionale di studi economici per trentasei Paesi Membri (tra cui l’Italia) che dispongono di un sistema di governo democratico ed un’economia di mercato e svolge prevalentemente le funzioni di organo consultivo offrendo opportunità di confronto delle esperienze politiche per la risoluzione di problemi comuni, l’identificazione di pratiche commerciali ed il coordinamento di politiche locali ed internazionali in ragione dell’impatto che la corruzione ha sullo sviluppo economico ponendo il focus sugli strumenti di contrasto.

    In tempi recenti, l’OCSE ha bacchettato l’Italia per il tasso eccessivo di assoluzioni nei processi per reati contro la Pubblica Amministrazione e lo spunto è stato dato dal processo ENI-Nigeria in esito al quale gli imputati sono stati tutti assolti, un po’ quello che era già successo nell’altra vicenda giudiziaria, Finmeccanica – India, altri se ne sono aggiunti proprio sotto Natale al termine di procedimenti per (presunta) corruzione in ambito sanitario.

    Peccato solo che l’OCSE abbia arrestato il suo esame all’appello della Procura della Repubblica (rinunciato, successivamente, dalla Procura Generale) senza degnare di uno sguardo le motivazioni del Tribunale né considerare la circostanza che Fabio De Pasquale titolare dell’indagine ENI – Nigeria sia finito a sua volta sotto processo per aver barato con le prove al fine di conseguire condanne a tutti i costi…bazzecole, quisquillie, pinzillacchere, direbbe Totò suggerito dal P.M.: ma non c’è nulla da ridere.

    No, non c’è proprio nulla da ridere: evidentemente siamo un popolo di impuniti e, probabilmente, lo siete anche voi, tutti voi, lettori pazienti di questa rubrica. E c’è un perché.

    Alzi la mano chi, viaggiando in auto con un amico o un parente, non ha mai prestato aiuto al guidatore  fermandosi in piedi ad occupare un parcheggio miracolosamente trovato libero: ebbene, cari criminali, vi è andata bene se nessuno vi ha denunciato: impuniti! Questo comportamento può integrare un orrendo delitto: il “parcheggio trattenuto” che può essere qualificato come invasione di terreni altrui pubblici o privati.

    Già, vi è andata proprio bene perché sarebbe bastato incappare in un vigile particolarmente zelante e versato nelle discipline penalistiche piuttosto che nel codice della strada o nel classico “cittadino che si ribella” e sareste finiti sotto processo attendendo anni – tra ipotesi di depenalizzazione e tempi della giustizia – prima di porre fine al calvario giudiziario.

    Ma, in fondo, avreste anche potuto cavarvela perché, come lamenta l’OCSE, questo è il Paese delle troppe assoluzioni: sul punto si sono dovuti affrontare tre gradi di giudizio finché  la Cassazione, con una decisione ancora fresca di stampa, ha stabilito che, sia pure a determinate condizioni,  non sussiste reato nell’ ipotesi di “parcheggio trattenuto”.

    Non è questo, per taluni un bel modo di concludere l’anno: immaginate la sofferenza dello sventurato Marco Travaglio al cospetto di questo profluvio di assoluzioni che per lui sono altrettante pugnalate: pare addirittura che la moglie si sia confidata riferendo che, ormai, nel marito si ridesta un certo interesse, qualche pulsione ormonale ed è in condizioni di adempiere al debito coniugale solo se lei indossa le manette.

    Meno grazia e più giustizia sembra invocarsi dagli indignati in servizio permanente effettivo dimentichi che, come ha ricordato proprio Benedetto XVI,  la giustizia per essere tale deve essere messa in relazione con la giustizia poiché quest’ultima non è assoluta ma mitigata dalla prima la quale a sua volta non rinnega la giustizia ma la supera conservandola in un corretto collegamento interiore.

    Comunque sia, buon 2023 a tutti, anche a malvissuti impuniti.

  • In attesa di Giustizia: cenacoli delle bestialità, tra malafede ed ignoranza

    Prima di iniziare la lettura dell’articolo di questa settimana può essere utile farsi delle domande e darsi delle risposte; per esempio, se si volesse commentare ed avere chiarimenti sulla trama che regge “2001 Odissea nello spazio” sarebbe preferibile come interlocutore un docente di fisica capace di illustrare con semplicità i fondamenti della teoria della relatività o affidarsi ad un direttore di banca il cui corso di studi si è bastato sull’approfondimento di temi prevalentemente economici? E se si dovesse affrontare una fastidiosa carie affidarsi alle cure un amico veterinario equivarrebbe a rivolgersi ad uno specialista in odontostomatologia?

    Ed infine: volendo un confronto autorevole su argomenti di diritto costituzionale la scelta migliore potrebbe essere Marta Cartabia o un sedicente drammaturgo che ha conseguito la laurea in lettere moderne con una tesi sui cantautori dal titolo “Amici fragili”?

    Anche no, vero? Invece al Fatto Quotidiano la pensano diversamente e ad uno così, tal Andrea Scanzi, oltre a farlo interessare di sport e musica, hanno affidato anche il commento a recenti affermazioni del Ministro della Giustizia.

    Ex editorialista di “Grazia” e “Donna Moderna”, Andrea Scanzi dopo aver sostenuto che Carlo Nordio sarebbe atterrito all’idea di confrontarsi con Marco Travaglio poiché ne teme tanto la capacità dialettica quanto la preparazione in diritto, ha sferrato a sua volta un temibile attacco al Guardasigilli sostenendo  che sia una sorta di pericoloso eversore, nemico della Costituzione (e quindi della democrazia e dei diritti fondamentali) avendo affermato che quest’ultima è in contrasto con il nostro sistema giuridico e, pertanto, sarebbe opportuna qualche modifica volta ad aggiornarla.

    Carlo Nordio, invero, ha detto una cosa un po’ diversa ed assolutamente corretta e cioè che è il codice che regola il processo penale a soffrire di incoerenza con la Costituzione e ciò per un motivo molto semplice: il codice vigente, di impostazione anglosassone e tendenzialmente accusatoria, è stato promulgato nel 1989 mentre la Carta fondamentale dello Stato è stata definitivamente approvata nel dicembre 1947 e – quanto alle garanzie processuali – si riferiva al codice del 1930, tipicamente inquisitorio.

    Certo, se uno ha nel curriculum il ruolo di Direttore Artistico del Premio Pigro ed una serie di comparsate a Tiki Taka – la Repubblica del pallone è, forse, meglio che continui ad occuparsi, come del resto ha fatto, del Processo del Lunedì con Enrico Varriale e non di processi penali.

    Certamente, con queste referenze non gli si può fare una colpa se ignora la circostanza che – proprio per le ragioni illustrate da Nordio – la Corte Costituzionale, a far tempo dal 1990 ha demolito pezzo dopo pezzo il codice di procedura penale facendogli perdere completamente l’assetto iniziale e lo spirito che avevano inteso infondergli gli ottimi giuristi che lo avevano scritto.

    Appare anche ovvio che se uno, quanto ad esperienza di giurie, ha trascorsi personali  al Club Tenco ed al Festival di Sanremo può non essere al corrente del fatto che nel 1999 (per la verità è passato un po’ di tempo: forse bastava chiedere ad Alexa al fine di aggiornarsi) per porre fine al martirio del codice è stata modificata proprio la Costituzione all’articolo 111 che oggi richiama pedissequamente l’articolo 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Qualcosa d’altro, come ha suggerito Nordio, ci sarebbe da fare volendo allinearla ai principi cardine che regolano il processo “alla Perry Mason” e come avviene nelle principali democrazie occidentali: facoltatività dell’azione penale e separazione delle carriere tra Pubblici Ministeri e Giudici.

    Concludendo, se uno è ignorante, nel senso letterale della parola, e cioè a dire ignora completamente l’argomento di cui sta trattando, rispeditelo a condurre Futbol su La 7 insieme ad Alessia Reato che, oltre ad essere una bella ragazza, nonostante il cognome con i crimini non c’entra nulla come i vaneggiamenti di Scanzi.

    Ma se uno è ignorante e pretende ugualmente di dire la sua  – seppur riferendosi ad un pubblico, quello dei lettori de Il Fatto Quotidiano che non si danno pace persino perché il Commissario Basettoni non è ancora riuscito a far prendere l’ergastolo alla Banda Bassotti – calando sugli ascoltatori il proprio verbo che è più storpiato dei congiuntivi di Antonio Di Pietro allora al peccato originale se ne aggiungono  altri:  si tratta di arroganza miscelata con mala fede.

  • In attesa di Giustizia: inimicizia con Dio

    E’ Natale e siamo – o  dovremmo essere – tutti più buoni. Invece no: il Ministro della Giustizia, con la illustrazione della sua agenda per la riforma della giustizia ha portato Travaglio ben oltre lo sbocco di bile, alle soglie del colpo apoplettico.

    Allineato perfettamente ai maitre à pensèr  pentastellati, delle cui fonti di intelletto si abbevera, ha chiarito in un editoriale la sua contraria opinione con la classica formula che prevede l’odio e l’insulto mescolati al nulla: “non vogliamo credere ad un amico avvocato, secondo il quale il P.M. Carlo Nordio era simpaticamente noto negli ambienti giudiziari veneziani come el Mona. Ma sappiamo che è molto spiritoso. Infatti le sue riforme fanno scompisciare dal ridere”.

    Il riferimento era non solo al tema della separazione delle carriere ma anche a quello delle intercettazioni telefoniche sul quale il Guardasigilli ha già iniziato a muoversi lamentandone l’eccessivo impiego ed, in particolare, la diffusione arbitraria e pilotata (spesso di stralci decontestualizzati e perciò insidiosamente equivoci).

    Parlando di imbecilli (che è la traduzione dal veneto di “mona” o, almeno, una delle due) Il Direttore de Il Fatto Quotidiano sembra dimenticare che tra i suoi “editori” vi sono personalità dello standing di Toninelli e Bonafede e suggeritori di impiego dei banchi a rotelle, delle primule e dei monopattini per contrastare la diffusione del covid: un esemplare di ognuno dei quali andrebbe esposto in tutti i musei a perenne memento di quanto sia rischioso affidare il potere ad una combriccola di politici improvvisati e cervelli disabitati scelti su una piattaforma online.

    Per fortuna, ad elevare il tono del dibattito ci ha pensato uno dei suoi più autorevoli sodali:  Piercamillo Davigo.

    L’ex P.M. di Mani Pulite – in maniera meno volgare ma comprensibile ha dato dell’ignorante a Carlo Nordio che farebbe uso di parole errate vaghe e strumentali – ospite di una ospitale rete televisiva ha esordito ricordando che la National Security Agency fa molte più intercettazioni delle nostre Procure e per di più non necessita nemmeno di autorizzazione dell’autorità giudiziaria.

    Esempio non del tutto calzante ma andiamo oltre: ha in seguito sostenuto che il segreto investigativo tutela le indagini ma non la reputazione degli intercettati. Bene ma non benissimo perché se è vera la prima affermazione la seconda non può costituirne un corollario: in due parole, seppure un’intercettazione sia lecita perché autorizzata nel rispetto dei presupposti di legge non è conseguente il farne impiego con possibile pregiudizio della onorabilità anche di persone estranee all’indagine ovvero coinvolte ma non indagate né tantomeno ancora condannate. A tacer del fatto che ciò costituisce un reato, per quanto quasi mai genetico di avvio di accertamenti giudiziari e ancor meno di sanzioni.

    Gli esempi di vittime della propalazione indebita di conversazioni captate con effetti devastanti sono innumerevoli; Nordio in un suo intervento recente in Commissione Giustizia della Camera ne ha ricordati due significativi: quello del Consigliere del Presidente della Repubblica, Loris D’Ambrosio e della Ministra Guidi che tutti ricorderanno. Secondo Davigo la loro tutela risiederebbe nella possibilità di proporre querela per diffamazione: non è neppure così per la verità e sarebbe in ogni caso come evocare la classica chiusura della stalla dopo che i buoi sono scappati.

    Siano il lettori di questa rubrica a trarre le conclusioni: una potrebbe essere che se Travaglio e Davigo hanno oltrepassato il confine della crisi di nervi, forse, con le ipotesi di riforma siamo sulla buona strada; l’altra è che l’attuale Ministro della Giustizia sia colpevole di inimicizia con Dio se si è messo dialetticamente e concettualmente in conflitto con una delle divinità pagane di Mani Pulite, nume protettore di Marco Travaglio e della redazione del suo quotidiano.

Pulsante per tornare all'inizio