Processo

  • In attesa di Giustizia: la certezza della pena ai tempi del diritto illiberale

    Qualcosa si muove sul piano delle riforme della Giustizia, almeno così pare, sebbene il fallimento annunciato degli elaborati della Commissione Cartabia conosca per il momento solo un poco utile rinvio a fine anno e le prime iniziative del Governo appaiano meno che convincenti, costringendo la Corte Costituzionale ad evitare di decidere sull’ergastolo ostativo rinviando alla Cassazione il compito di interpretare “gli effetti della normativa sopravvenuta sulla rilevanza delle questioni di legittimità sollevate”; nel frattempo sono già iniziate le audizioni dei tecnici per rimediare – in sede di conversione – allo sconclusionato decreto di contrasto ai rave parties.

    Il Ministro Nordio, tuttavia, tenendo fede ad una promessa frutto di una sua antica (e condivisibile) convinzione, incontrerà tra pochi giorni i rappresentanti dei Sindaci per dare avvio ai lavori di modifica dell’abuso di ufficio: un reato che negli anni è stato modificato almeno quattro volte senza mai pervenire ad una formulazione che non consista in vaghe fumisterie da cui origina quella che è stata definita “burocrazia difensiva” e cioè a dire un immobilismo operativo degli enti locali volto ad evitare facili incriminazioni, sebbene assai raramente seguite da condanne ma accompagnate da blocco di lavori pubblici e dispersione di fondi. Sarebbe un piccolo passo ma foriero di effetti positivi.

    Ed è proprio il timore di Sindaci ed Assessori di essere prima indagati e poi sottoposti, prima di una condanna, al maglio della “Severino” che paralizza anche l’impiego di risorse del PNRR destinati ad importanti opere sul territorio; come se non bastasse il TAR della Puglia che ha fermato i lavori locali per l’alta velocità – finanziati con denari europei – accogliendo un ricorso di associazioni ambientaliste che invocano la salvaguardia di alcuni mandorli e carrubi presenti sul tracciato. Degni del massimo rispetto, però…

    Quello che manca nel nostro sistema e l’abuso d’ufficio è un esempio eclatante – prima ancora degli operatori in numero adeguato che lo facciano funzionare – sono la certezza del diritto e della pena venuti meno negli anni per la marginalità culturale del legislatore e la debolezza della politica quali concause della destituzione dello Stato di diritto cannibalizzato da una magistratura intesa a dilatare e mantenere la propria acquisita posizione di potere sul presupposto di una supposta superiorità morale che – come si è visto ed accertato oltre ogni ragionevole dubbio – non c’è.

    Ben venga, allora, per dare inizio ad una stagione di autentiche riforme quella dell’abuso di ufficio che avrebbe anche il merito di proporsi come una normativa bandiera finalizzata a porre un primo argine al tempo del terrore giudiziario, fondato sulla brutalità proterva della cultura del sospetto.

    Certezza del diritto, dunque: principio giuridico cardine in base al quale una norma deve essere formulata in modo chiaro ed essere soggetta ad una interpretazione univoca, un obiettivo cui il legislatore deve tendere in fase di produzione delle leggi e certezza della pena da intendersi non come certezza del carcere quanto prossimità della sua espiazione il più vicino possibile al delitto commesso ed attribuito: solo così sarà giusta ed utile.

    Come si nota, risalendo al pensiero illuminista alle teorizzazioni di Beccaria e Cattaneo, tali concetti risultano assai diversi e lontani dalle opzioni di politica sanzionatoria illustrate, da ultimo nel c.d. Contratto del “Governo del Cambiamento”: un  autentico manifesto del diritto illiberale che poteva essere partorito solo da cervelli disabitati come quelli dell’azzimato damerino di Volturara Appula e del buffo Muppet travestito da Guardasigilli

    Ora ad un cambiamento vero bisogna credere, anzi, più che crederci  bisogna pretenderlo.

  • In attesa di Giustizia: contraddittorio cartolare a battute asincrone

    Questa definizione, che intimorisce solo a pronunciarla, è quella che maschera la effettiva mancanza di contraddittorio tipica del giudizio di Cassazione riservato a quei ricorsi nel settore penale che, in base ad un primo sommario esame, sono stati ritenuti inammissibili e – quindi – destinati ad una sezione, la Settima,  addetta a funzioni di bassa macelleria giudiziaria. Alla Settima non si va a discutere, si possono tutt’al più mandare delle memorie scritte per contestare una requisitoria scritta con richiesta di inammissibilità: quest’ultima, di regola, consiste in un pre stampato a risposta multipla con la crocetta apposta su una voce dal Sostituto Procuratore Generale di turno. Quanto alle memorie difensive, salvo casi statisticamente irrilevanti, nessuno le leggerà neppure: in una sola giornata di udienza la Settima mette a ruolo decine di ricorsi, figurarsi se ci può essere il tempo anche di studiare le contro deduzioni degli avvocati.

    Non dissimile appare il destino riservato dalla “riforma Cartabia” per il giudizio di appello che avrà come regola non più la trattazione orale – se non tempestivamente richiesta – bensì un garbato scambio di mail tra il difensore, la Corte e la Procura Generale: anche la sentenza verrà graziosamente spedita via pec.

    In nome di una ritrovata efficienza del sistema – che è cosa ben diversa dalla efficacia – e del conseguimento degli agognati  fondi del PNRR, la mortificazione del secondo grado di giudizio è servita: non senza intercettare il compiacimento di quella componente della magistratura che lo considera un inutile orpello nonostante la percentuale elevata di riforme che lo caratterizza. O, forse, proprio per quello.

    Tutto ciò ammesso che si arrivi alla fissazione di un’udienza perché la riforma – già contestatissima per altri e condivisibili motivi e rinviata di due mesi con poca utilità, salvo quella di incassare ugualmente le risorse europee – fissa anche altri paletti rigidi per poter chiedere l’appello e tra questi ne spicca uno che riesce nella non facile impresa di risultare incoerente con almeno due diversi canoni costituzionali: stiamo parlando della necessità che l’imputato che sia rimasto assente (come, tra l’altro, è suo diritto) durante il giudizio di primo grado munisca il proprio difensore di un mandato specifico per impugnare la sentenza. La regola colpisce, soprattutto e massicciamente,  tutti coloro che hanno sottovalutato i rischi di un processo e sono rimasti affidati ad un difensore di ufficio con il quale non si sono mai messi in contatto sebbene sollecitati, magari a causa di indisponibilità economiche: perché anche il difensore d’ufficio deve essere remunerato. Ecco, tutti costoro resteranno privati della possibilità di ricorrere in appello e con ciò la geniale disposizione viola l’articolo 3 della Costituzione creando una disparità di trattamento davanti alla legge tra chi ha coltivato un rapporto con il difensore e chi (talvolta incolpevolmente) no e l’articolo 24 che riconosce la difesa come diritto inviolabile in ogni stato e grado di giudizio.

    Complimenti vivissimi a tutti: alla ex Ministra – con trascorsi alla Corte Costituzionale – agli estensori della riforma, al legislatore delegante e, perché no, al Garante della Costituzione che l’ha promulgata ed alla Commissione Europea che nella Relazione sullo Stato di Diritto 2022 ha rivolto diverse critiche sia alla riforma italiana del processo penale che dell’ordinamento giudiziario ma, infine, ha concluso che può andar bene così.

    E così ci avviciniamo sempre di più ad un modello americano che non ci piace: un sistema classista nel quale Perry Mason non si occupa del cliente povero e quest’ultimo rischia di finire assistito da un difensore che può essere poco motivato e fors’anche poco preparato, un sistema cervellotico e irto di trappole processuali nel quale – proprio come dicono negli USA – è meglio essere ricchi, bianchi e colpevoli piuttosto che neri, poveri e innocenti.

    Siete in attesa di Giustizia? No? Meglio per voi ma se la risposta è sì, il giudizio vi attende con strutture inadeguate, organico di personale amministrativo e magistrati insufficiente e norme confuse e contraddittorio cartolare a battute asincrone: è ciò che si verifica quando anche le riforme strutturali sono ragionate in ossequio ad idee fisse come quella, non potendolo eliminare tout court,  di ridurre il giudizio di appello ad un simulacro.

    E come scriveva Emile Chartier –   nulla è più pericoloso di  un’idea quando se ne ha una soltanto.

  • In attesa di Giustizia: il giudizio del TVibunale

    Il suicidio di un ragazzo è già, di per sé, un evento altamente drammatico quali che ne siano le ragioni e  non si è ancora compreso perché si sia suicidato – ormai più di un anno fa – il giovane innamoratosi perdutamente “on line” di un falso profilo femminile messo, viceversa, in rete da un uomo di sessantaquattro anni, né perché costui lo abbia fatto: forse un  cervellotico gioco d’amore, un tentativo di truffa finito male, un passatempo  idiota? Sta di fatto che, al di là dello squallore di fondo ed in mancanza di altri elementi da cui dedurre la prova di un’istigazione a togliersi la vita (che, esaminata tutta la “corrispondenza” tra i due) pare non vi siano, quell’uomo avrebbe dovuto rispondere di un reato minore: sostituzione di persona.

    Ma è stato proprio quello squallore di fondo a suscitare morbose curiosità  mettendo in moto la macchina della giustizia mediatica, pronta ad enfatizzare la vicenda per offrire un tributo alla divinità pagana dello share. Ore ed ore al giorno a chattare, oltre ottomila struggenti messaggi con una sedicente Irene Martini conclusi dalla impiccagione di un giovanotto, la cui rete sociale era evidentemente molto debole, non possono liquidarsi con l’incriminazione per un reatuccio…e allora parte la caccia volta ad infiorettare il tutto mettendo alla gogna e citando in giudizio davanti al tribunale della TV il reprobo di turno. Che certamente nascondeva qualcosa di oscuro nella sua personalità, ma non è dato accertare se quella morte fosse il fine che si proponeva.

    Braccato e linciato in favore di telecamera dai giornalisti de “Le Iene” (è il caso di dire: tanto nomine nullum paret  ossequium) il successivo suicidio anche di quest’uomo dovrebbe, più che porre interrogativi, segnare semplicemente un punto di non ritorno. Dovrebbe, perché questo non accadrà. Se ne parla, sì, con qualche sommessa riflessione, tanto sarà uno sporcaccione, un di meno: il massimo che si è ottenuto è un intervento dell’editore che naturalmente difende il modo di fare giornalismo della sua trasmissione concludendo che il suicidio disperato della preda dei cronisti è qualcosa che “non deve più succedere”, che  è successa perché “capita di andare oltre ciò che è editorialmente giusto”. Conclude, infine, con un autorevole monito: “dire basta ad un certo tipo di giornalismo sarebbe come tornare indietro invece che andare avanti. Ma il punto è come viene fatto, servono attenzione e sensibilità, non è facile …dico che quella cosa lì non mi è piaciuta”.

    “Quella cosa lì”, come la chiama Piersilvio Berlusconi, è invece la cifra e la ragione stessa di quel giornalismo e se qualcuno che viene esposto al linciaggio si suicida è questione eventuale. C’è chi riesce a sopravvivere e chi no, presunto responsabile o innocente che sia.

    E in cosa consiste questo “certo tipo di giornalismo”, rinunciando al quale cadremmo nelle tenebre più profonde della inciviltà? Va bene la prima parte: raccogliere notizie, riscontrarle, rendere pubbliche le testimonianze raccolte, sollecitare l’attenzione dell’autorità giudiziaria, ma il veleno è in coda e arriva dopo, ed è la presa al laccio del presunto colpevole per offrire quella spettacolarizzazione che alimenta l’interesse per l’inchiesta. E quel momento è lo sputtanamento: chi sia un colpevole, quanto sia colpevole, come e perché sia colpevole, lo decide una redazione e ne demanda il giudizio al TVibunale.

    Inchieste che si alimentano di rimproverabilità solo ipotizzata: sono la riprovazione, la indignazione popolare tossica, che funzionano nel senso di  creare ascolti, il tutto alimentato dalla cultura della intolleranza e del sospetto. Che inchiesta sarebbe, del resto, se si dovesse stanare un colpevole vero, cioè accertato come tale in un giudizio? È il sospetto che ci inferocisce, è l’idea di avere stanato e dato in pasto ai guardoni un bastardo. Mostratelo, si celebrino tutti i rituali di degradazione proponendo in diretta in che modo si giustifica, balbetta, e suda un po’ come Arnaldo Forlani, trent’anni fa al processo “ENIMONT”: in fondo Mani Pulite fu la madre di qualsiasi sovversione dei parametri costituzionali e di elementari  sentimenti di umanità e, le sentenze non sono in nome del popolo italiano ma a furor di popolo, schiumando rabbia e sbavando.

    Il Tribunale mediatico esercita così la sua giustizia ed infligge le sue sanzioni senza tanti inutili orpelli come quell’altra, celebrata da giudici e avvocati, che è una legalità soporifera, formalistica.

    Panem et circenses, gladiatori contro leoni, questi sono gli spettacoli graditi e l’unica giustizia che funziona, quella – appunto – a furor di popolo. Ci scappa il morto? Pazienza, “quella cosa lì non ci è piaciuta”: tutto sommato è solo  la fine della vita di un essere umano.

  • In attesa di Giustizia: cahiers de doleances

    Non c’è pace tra gli ulivi: tutti si lamentano di qualcosa che non funziona nella amministrazione della Giustizia; d’altronde, anche questa rubrica costituisce, in un certo senso, il bollettino settimanale delle storture che caratterizzano quel settore e, proprio nel numero precedente, si è occupata di una vicenda paradigmatica trattando il caso di un processo per gravi reati in corso a Roma nel corso del quale il Tribunale ha cambiato composizione ad ogni udienza, con buona pace della conoscenza effettiva dei fatti da giudicare da parte di chi è stato, infine, chiamato a decidere.

    Dopo, ma solo dopo “Il Patto Sociale”, ne hanno parlato anche i quotidiani e la Camera Penale della Capitale è scesa in campo, lamentando l’incredibile accaduto e proclamando un’astensione di protesta per il 2 novembre. Giustissimo: peccato essersi dimenticati di fare la dovuta comunicazione all’Autorità Garante con la conseguenza che è stato necessario annullare l’iniziativa per quella data e rinviarla al  giorno 9…peccato anche che, nel frattempo, gli avvocati – fiduciosi del buon governo della protesta da parte dei propri rappresentanti – abbiano annullato le citazioni di testimoni e non si siano preparati per udienze che non si sarebbero dovute celebrare e invece si faranno. E lo stesso vale per i Pubblici Ministeri e i Giudici impegnati nel medesimo giorno. Il tentativo di far apparire il rinvio come giustificato dalla esigenza di rendere più articolata la giornata di protesta è stata la classica pezza peggiore del buco.

    Si lamentano anche i Procuratori Generali scrivendo al Guardasigilli Carlo Nordio chiedendo di rinviare  l’entrata in vigore quantomeno di una parte della “Riforma Cartabia” che dovrebbe entrare in vigore il 1° novembre creando significativi disagi organizzativi agli Uffici con la conseguenza di un ulteriore, catastrofico, aggravamento della gestione del carico di lavoro. Non hanno tutti i torti, va detto con chiarezza, tanto è vero che quando questo articolo verrà pubblicato sembra che lo sarà – in Gazzetta Ufficiale – anche un decreto d’urgenza volto ad accogliere le richieste della Magistratura.

    Certo, potevano anche accorgersene prima di una manciata di giorni dal “via”: la “Riforma Cartabia” tra luci ed ombre (forse queste ultime sono in numero maggiore) soffre del fatto che il lavoro è frutto di equilibrismi e compromessi per soddisfare quella componente della allora maggioranza che l’ha approvata e faceva rimpiangere i tempi in cui in Senato sedeva il cavallo di Caligola  e che rispondeva alle linee guida sulla giustizia dettate da un comico che non fa più ridere e di un disc jockey che è stato molto meglio rimandare alla consolle.

    Infine anche Antonio Ingroia si lamenta e proprio del fatto che sia Carlo Nordio  il nuovo Ministro della Giustizia affermando che “sa di muffa e di regolamento di conti”: un giudizio durissimo la cui opportunità e fondatezza dovrebbero essere posticipate ad un vaglio dell’operato del Governo e dei suoi Ministri e non espresso prima ancora che abbiano iniziato a lavorare.

    Da Ingroia, peraltro, non c’era da aspettarsi di meglio essendo un uomo facile al pregiudizio e – viceversa –  impermeabile a tutte le evidenze: come quelle che attestano i suoi personali fallimenti da quello come Pubblico Ministero, il cui ricordo è legato essenzialmente al ruolo di coordinatore dell’indagine per la cosiddetta “Trattativa Stato – Mafia”, finita come è noto in una bolla di sapone, a quello come politico di indiscutibile insuccesso, per finire con la professione di avvocato esercitata principalmente “correndo dietro alle ambulanze” nel tentativo di accaparrarsi la difesa delle vittime di qualche disastro, anche in questo caso senza molta fortuna: un triplete di cui non andare fieri e che suggerirebbe un più dignitoso silenzio abbandonandosi a quell’oblio che il destino ha già inesorabilmente segnato.

    Sipario.

  • In attesa di Giustizia: Circo Medrano a tre piste

    Habemus! Il Governo (per una volta) è frutto del voto dei cittadini e Carlo Nordio è Ministro della Giustizia come era negli auspici per tentare la via di riforme che diano slancio ad un sistema ormai più agonizzante che imballato…

    …come dimostra l’argomento di questa settimana affrontando il tema di una fondamentale quanto stravolta regola del processo penale che si chiama “immediatezza della deliberazione” secondo la quale il giudice che pronuncia la sentenza deve essere il medesimo che ha partecipato all’intero dibattimento,  ascoltando ed interrogando imputati,  testimoni e periti, ed  acquisendo documenti. In due parole, quello che ha raccolto le prove: quindi, se cambia occorre ripetere l’istruttoria.

    Si tratta di un elementare principio di civiltà e di buon senso prima ancora che di una regola sancita  dall’art. 525 del codice del processo penale che è stato letteralmente sovvertito da una interpretazione creativa della legge.  Di fatto, ora la situazione è l’opposto: se cambia il giudice, pazienza. Il giudice nuovo si legga i verbali (se ne ha voglia), si faccia un’idea – anche vaga – di quello che è successo, e pronunci la sentenza.  Inaccettabile è la logica che sorregge questa interpretazione: sono gli avvocati a pretendere che il giudizio non sia di un giudice diverso da quello che ha raccolto le prove, e così si attenta alla ragionevole durata del processo. Tutti zitti, invece, sulle ragioni per le quali il giudice cambia: una per l’altra considerate nobilissime ed insindacabili…sebbene nel 90% dei casi, siano legate a ragioni di carriera: cambio di sezione, funzioni, sede.  E coloro che attendono giustizia? Si arrangino.

    Complici anche le croniche carenze di organico – di cui la rubrica si è interessata la settimana scorsa – si assiste, pertanto, a sarabande indecorose; si inizia il processo con un giudice (o tre, se il giudizio è collegiale) e da quel momento  può accadere di tutto.

    Un esempio attuale, per quanto estremo, viene offerto dal Tribunale di Roma e riguarda un processo a carico di numerosi imputati per reati gravi aggravati dal metodo mafioso.

    Ebbene, è accaduto che in nessuna udienza il collegio fosse il medesimo di quella precedente ed almeno un giudice, ma a volte anche due su tre, erano nuovi. Eccone la cronaca fedele e sgomentevole: il Collegio che inizia a raccogliere le prove è già diverso da quello che le ha ammesse (o negata l’ammissione), si prosegue con  l’interrogatorio delle persone offese: due udienze, ed alla seconda cambia un giudice; segue l’esame degli agenti della Polizia Giudiziaria che hanno svolto le indagini e degli altri testi dell’accusa divisi in cinque udienze. Dopo la prima udienza, a quella successiva ne cambiano due; alla terza altri due; alla quarta altri due, alla quinta uno. Udienze per esame testi della difesa: quattro, e ad ognuna è cambiato uno dei tre giudici.

    In qualche modo si arriva alla discussione finale: il P.M. parla alla presenza di due giudici nuovi su tre (quindi, che non avevano mai partecipato nemmeno ad una delle udienze precedenti ed è inutile dire che da un’udienza all’altra passano settimane se non mesi, agevolando l’indiavolato turn over). Giunto il momento delle arringhe difensive, cambia nuovamente uno dei tre giudici, che però si rende conto di versare in una condizione di incompatibilità; quindi l’udienza viene sospesa, e si va alla ricerca di un qualsivoglia altro magistrato che possa comporre il collegio. Quando infine si è trovato un malcapitato (che non sa nulla di nulla del processo, ovviamente, e non ha nemmeno sentito la requisitoria del P.M.), i difensori hanno sollevato tutte le eccezioni possibili, peraltro superate ineffabilmente dal Tribunale: ad oggi il processo non è ancora finito e c’è spazio per altre sorprese.

    Detto fuori dai denti: la sacralità del giudizio non può confondersi con questo che sembra lo spettacolo messo in scena dal circo Medrano a tre piste dove domatori, nani e ballerine si alternano ed intersecano tra di loro per il diletto del pubblico.

    Facendo buon governo della onestà intellettuale, cosa provereste ad essere giudicati in queste  condizioni, ma anche a fronte di un cambio, seppur più contenuto, dell’organo giudicante durante il processo? Pensereste che l’attesa di Giustizia sia davvero una chimera, e non avreste torto.

  • In attesa di giustizia

    C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, anzi d’antico…ed è la speranza che qualcosa cambi davvero nel desolante scenario del sistema giustizia nostrano perché se Giorgia Meloni riceverà l’incarico di formare il Governo, come sembra ormai altamente probabile, proporrà Carlo Nordio quale Ministro della Giustizia.

    L’uomo – che per la verità, preferirebbe un posto nella Commissione Giustizia della Camera – è una garanzia assoluta: preparatissimo, colto, garantista, liberale. Posso dirlo perché lo conosco da una quarantina d’anni: con Carlo Nordio come magistrato ho avuto a che fare una volta sola, quando ci conoscemmo, poi abbiamo coltivato un rapporto crescente di stima ed amicizia attraverso esperienze condivise partecipando da relatori a numerosissimi convegni e seminari e lavorando fianco a fianco nella Commissione Ministeriale (2001-2006) da lui presieduta con il compito di proporre un progetto di riforma del Codice Penale; a Carlo Nordio devo anche la prefazione ad un mio manuale sulla legittima difesa ed in cambio io ho presentato un suo libro, o meglio un’intervista a due voci trasposta in un libro che si intitola “In attesa di Giustizia, dialogo sulle riforme possibili” e che – non a caso – ha dato il nome a questa rubrica e lo spunto per l’articolo di questa settimana.

    “In attesa di Giustizia” raccoglie le opinioni, il pensiero, le idee di riforma del sistema penale di Carlo Nordio – appunto – Magistrato del Pubblico Ministero di impostazione tradizionalmente liberale e mai (fino ad ora, che però è in pensione da cinque anni) lasciatosi affascinare dalla politica e d Giuliano Pisapia, avvocato difensore molto vicino a Rifondazione Comunista, più volte parlamentare e Sindaco di Milano: i due sono molto legati e la lettura di quel libro, a carattere divulgativo e non squisitamente tecnico, consente di verificare come la Giustizia non debba avere e non abbia appartenenze ideologiche preconcette o colorazioni partitiche come dimostra il pensiero in grande misura sovrapponibile di due operatori del diritto di altissimo profilo, che nella vita professionale oltre che nel sentire politico sono agli antipodi.

    Del resto, basta scorrere la nostra eccellente Costituzione per averne la prova verificando la impeccabile confluenza della ideologia cattolico-liberale con quella marxista che condividono con quella hegeliano-gentiliana il tratto comune della subalternità assiologica della persona rispetto ai valori superiori di Dio e dello Stato Sociale. E i Padri Costituenti erano giuristi di ineguagliabile spessore.

    L’auspicio è, dunque, che una personalità di elevata statura come Carlo Nordio possa assurgere ad un ruolo che gli consenta di dare spunto e vita a quelle riforme che ha sempre caldeggiato, frutto di profonda riflessione ed esperienza quotidiana nelle aule di Tribunale.

    La  prospettiva è ottima sebbene appaia motivo di ambascia per qualcuno: Fofò Bonafede – naturalmente intervistato da Travaglio – ha mostrato sconsolata preoccupazione che la maggioranza di centro destra abolisca le leggi promulgate durante la sua (incomprensibile in un paese civile) presenza in via Arenula; già che c’era ha criticato proprio Nordio per la posizione mostrata su alcuni argomenti di diritto penale e processuale, Nordio che, ovviamente, non si preso neppure la briga di rispondere a quello che è stato il peggior Ministro della Giustizia da quando la carta ha perso il posto del papiro.

    Vedremo cosa succederà al Quirinale e dintorni nei prossimi giorni ma, per una volta, possiamo dire che siamo davvero in attesa di Giustizia.

  • In attesa di Giustizia: sequel

    Questa settimana – non diversamente dalle altre – c’è stato solo l’imbarazzo della scelta circa l’argomento da trattare in questa rubrica; alla fine “in concorso” sono rimaste due vicende: la prima è quella di una donna condannata e incarcerata (ed è tutt’ora in galera, a Roma in attesa di una soluzione) per un reato prescritto da anni al momento della pronuncia della sentenza. Vicenda che, senza entrare nei dettagli, è sufficiente commentare “complimentandosi” con il P.M., il giudice, il Sostituto Procuratore Generale che ha posto il visto sulla decisione e – naturalmente – anche con il difensore per avere offerto un rarissimo (per fortuna) esempio di corale e fatale disattenzione (o ignoranza anche di banali nozioni aritmetiche?).

    La seconda, è stata prescelta perché è lo squallido sequel da B movie di una storia già raccontata tempo fa su queste colonne ed anche del più recente commento alla giustizia disciplinare “domestica” – e addomesticata – del C.S.M. Qualcuno, forse, ricorderà questo racconto di quanto accaduto al Tribunale di Asti dove si celebrava un processo per violenza sessuale di un padre sulla figlia, con la madre accusata di non averlo impedito: giunti alla conclusione e data la parola alle parti, discussero il PM, chiedendo una pena molto severa  ed i due difensori della madre, rinviandosi ad altra udienza per sentire quello del padre.

    Tuttavia, alla udienza successiva, il Tribunale entrò in aula per leggere direttamente il dispositivo di condanna degli imputati ad 11 anni di reclusione. Gli avvocati presenti e lo stesso P.M. fecero notare che il difensore del secondo (e principale) imputato non aveva mai discusso ed il Presidente, dettosi dispiaciuto dell’incidente, con impeccabile nonchalanche accartocciò il foglio contenente il dispositivo appena pronunciato per dare la parola all’ultimo difensore. Quest’ultimo,  ovviamente,  oppose un rifiuto, rilevando l’abnormità di quanto accaduto. Il Tribunale, che tanto aveva già deciso, depositò egualmente la sentenza, che ovviamente non potrà che essere annullata dalla Corte di Appello (con comodo, eh! Stiamo aspettando solo da un paio di anni).

    Questo scempio finì, comunque, al CSM e si apprende da notizie di stampa di questi giorni che si è concluso il procedimento disciplinare con la sanzione della censura, per di più – e il mistero si infittisce- nei riguardi del solo Presidente; prosciolti gli altri due giudici.

    Non è ancora nota la motivazione della bizzarra (è un eufemismo) decisione ma non può farsi a meno di rilevare che la censura è poco più di una tirata di orecchie che staglia impietosamente la considerazione che il CSM nutre delle questioni di principio messe in discussione.

    Questioni delicatissime: è inaccettabile che tre giudici abbiano potuto ritirarsi in camera di consiglio, discutere tra di loro della fondatezza dell’accusa condannando un imputato ad undici anni di reclusione senza averne mai ascoltato l’unico difensore.

    Una sola è la spiegazione dell’accaduto: totale indifferenza di quel Tribunale (dunque di tre giudici, non uno solo) alle argomentazioni nell’interesse di quell’imputato ed un Tribunale pronunzi una sentenza nei senza aver ascoltato e vagliato la sua difesa, nega in radice la propria stessa funzione perché non è uno sciamano, chiamato ad interpretare il giudizio  divino.

    Insomma, si tratta di un fatto di inconcepibile gravità punito con un buffetto sulla guancia di uno solo dei responsabili, pur avendo partecipato in tre allo scempio. La conseguenza che dobbiamo trarne è che, per il Consiglio Superiore della Magistratura, questa non è la condotta più grave che un giudice possa assumere, anzi, è una delle meno gravi, figurarsi le altre. Se qualcuno ha una spiegazione diversa…

  • In attesa di Giustizia: standard italiani

    Blogger, influencer, tik-toker,  trapper…tra le nuove professioni – ammesso che tali possano chiamarsi – è la desinenza “er” a definire un modello di impiego che, tra l’altro, fa anche tendenza (o, meglio: è trendy).

    Ammettiamolo: il trapper risulta, probabilmente, il più ostico da inquadrare perché non è il rapper (come dimenticarsene) ma neppure una tradizionale figura di escursionista anglofono ed a creare confusione soccorre, oltretutto, un’ulteriore nota caratterizzante: a quanto pare, e per quanto è dato apprendere dalle cronache, i trappers non sono per nulla estranei a forme di devianza criminale che con un genere musicale – altra parola grossa – non dovrebbero avere nulla a che fare. E’ il crepuscolo della società civile.

    Del resto, nel gergo invalso ad Atlanta, da cui il termine deriva, “trap” è il luogo di spaccio: dunque, non deve sorprendere che questi musicisti (??) oltre ad inneggiare alle droghe nelle loro composizioni ne facciano largo impiego e non solo a livello personale; come nel caso di tal Elia 17 Baby, nella cui abitazione romana, non più tardi di qualche mese fa, sono state trovate migliaia di bustine di stupefacenti ed una discreta collezione di coltelli a serramanico.

    Vi sarebbe da immaginarsi che un giovine così virtuoso trascorresse le vacanze estive a Regina Coeli ed invece era a Porto Cervo dove, per ingannare il tempo, ha pensato bene di usare una delle sue lame – per motivi assolutamente futili – contro un ragazzo di Sassari che ora rischia la paralisi. Pur restando nei pressi della Costa Smeralda, è ora (ed era ora) ospite del Ministero della Giustizia nel carcere di Tempio Pausania.

    Piuttosto che a Regina Coeli – che non dispone di una sezione femminile – bensì a Rebibbia è finita nei giorni scorsi la ex sarta ultraottantenne di Sofia Loren ed altri noti artisti per avere ferito in maniera non grave ed anche questa volta con un coltello, però uno di quelli trovati là per là in cucina, il marito che l’aveva aggredita: una storia che non ha di certo il sapore della tendenza a delinquere e della pericolosità sociale.

    Bizzarri standard italiani: lo spacciatore per il quale non sarebbe stato dannoso un periodo di riflessione nelle patrie galere era libero, una vecchietta che si è difesa come ha potuto è finita subito dentro.

    Ma…ma…da qualche parte non sta scritto che oltre una certa età non si può essere arrestati? Beh, la legge è fatta per essere interpretata, no? Basterà ricordarsi di Calisto Tanzi che quando finì sotto processo i suoi anni li aveva e veniva portato in tribunale con l’ambulanza, la maschera ad ossigeno e, naturalmente, i piantoni della Polizia Penitenziaria.

    A Londra, intanto, è iniziato un giudizio contro giornalisti del Corriere della Sera rei di avere pubblicato notizie sul presunto coinvolgimento di tal Raffaele Mincione un finanziare italo – inglese nella fosca vicenda degli immobili acquistati proprio a Londra dal Cardinale il cui nome ricorda uno starnuto: Angelo Becciu.

    La difesa ha provato a sostenere che gli articoli incriminati sono stati scritti in italiano e finiti solo sul Corriere, cioè in Italia per un pubblico italiano e che “in Italia si fa così”: Suo Onore il Giudice Davidson ha osservato che non solo quella britannica ma anche la legge italiana vieta la violazione del segreto istruttorio; facciano quello che vogliono nel Bel Paese ma un quotidiano – quale che sia la lingua in cui è scritto – è acquistabile ovunque e leggibile in rete ed in Gran Bretagna degli standard italiani non sanno che farsene: se si offende la reputazione di un cittadino, considerata intangibile sulla base di semplici ipotesi tutte da confermare, si  viene condannati.

    Ed, a proposito di standard italiani, e sorridere almeno un po’ viene da domandarsi perché nessuno finora abbia fatto notare a Flavio Briatore che sulla pizza il Pata Negra non ci va non solo perché viola il capitolato della ricetta tradizionale ma anche perché mettere quel prosciutto pregiatissimo su qualsiasi cosa calda è un crimine e significa rovinarlo. Fare il contrario è, tra l’altro, una cafonata da arricchiti ma a qualcuno va bene così: questione di standard.

  • In attesa di Giustizia: Giustizia, ma quale giustizia? Ma mi faccia il piacere!

    Governo balneare, non è la prima volta, ed una campagna elettorale contratta,  volta a screditare gli avversari più che ad illustrare programmi che dovrebbero orientare la scelta degli elettori e, soprattutto, stimolarli a recarsi alle urne; lo scenario non è confortante, in particolare per uno dei settori cruciali – ma anche più disastrati – della Pubblica Amministrazione del quale sembra che ci si sia quasi completamente dimenticati: la giustizia.

    Nessuno ne parla, probabilmente perché, come si è sostenuto altre volte in questa rubrica, la giustizia non genera consenso (fondamentale più che mai in vista di una tornata elettorale), diversamente dalla sicurezza con la quale – spesso – viene confusa.

    Non per nulla, una delle primissime iniziative della declinante legislatura è stata quella sulla modifica della disciplina sulla legittima difesa che a questa confusione si presta benissimo: il prodotto finale è stato una normativa pasticciata e non priva di profili di dubbia costituzionalità come il Presidente Mattarella non ha mancato di rimarcare in una insolita lettera di accompagnamento alla promulgazione della legge.

    Viene da chiedersi, allora, perché il Garante della Costituzione l’abbia firmata, non certo il motivo per cui la raccomandazione di rivedere alcuni punti sia rimasta inascoltata: perché è caduta nel vuoto in senso stretto, quel vuoto torricelliano di cognizioni (alcune basilari) che caratterizzava una consorteria di analfabeti di ritorno del diritto capeggiata dall’esilarante clown trapanese che risponde al nome di Fofò Bonafede.

    La materia rimane oscura come dimostra il caso recente dell’ambulante nigeriano aggredito ed ucciso senza motivo in pieno giorno a Civitanova Marche: i presenti che avrebbero ben potuto e dovuto intervenire hanno di gran lunga preferito filmare la scena con i telefonini e condividerne l’orrore su whatsapp.

    Ma, tant’è: a prescindere dall’irrisorio quoziente di senso civico in generale, la propaganda ha sicuramente prodotto ben altre riflessioni sul significato di difesa legittima nei non addetti ai lavori.

    A caccia di fondi del PNRR, nel frattempo, si è in qualche modo posto mano a riforme del processo sia penale che civile: in parte opinabili dovendosi – ahimè –  tenere conto del voto in aula della compagnia di giro del cabarettista genovese;  innovazioni, peraltro, apprezzate (ma non del tutto…) anche a Bruxelles e allora della giustizia ce ne si può serenamente dimenticare…o, forse, no perchè molto resta da fare.

    Vi è – innanzitutto – la condizione critica in cui versano gli uffici giudiziari a causa della scarsità di risorse umane: trascurando per un momento il tema dell’organico dei magistrati (che risultano difficili da reclutare anche per carenza di nozioni fondamentali della lingua italiana dei candidati, come dimostrato in un recente concorso), quello dell’indispensabile personale amministrativo non è da meno

    E’ storia attuale quella del Tribunale di Monza – il sesto d’Italia per bacino di utenza, quantità e qualità degli affari trattati – che ha visto avvocati e magistrati protagonisti di una agitazione congiunta causata della inefficienza degli uffici per mancanza di cancellieri e segretari.

    Medesima sorte sta avendo la Procura della Repubblica di Piacenza, il cui Capo ha dovuto emanare una circolare con cui prende atto che l’Ufficio è al collasso ed alcuni servizi sono stati, di necessità virtù, sospesi: basti dire che – senza che al momento sia prevista alcuna sostituzione – dodici addetti su trenta sono andati in pensione nel mese di maggio ed a breve toccherà ad altri tre.

    L’elenco potrebbe continuare ma limitiamoci a questi due casi emblematici, a restare in attesa di giustizia, a sperare almeno che qualcuno si ricordi por mano al settore con l’intensità e la competenza necessarie. Possibilmente, non solo in campagna elettorale ma anche dopo.

  • In attesa di Giustizia: liberté, egalité, ospitalité

    Pietrostefani, Tornaghi, Manenti ed altri ancora sono nomi noti alle cronache sebbene a lungo dimenticati, almeno fino a quando non è sembrato che la Francia – Paese nel quale avevano trovato da decenni  rifugio – si fosse determinata ad estradarli verso l’Italia per scontare le pene a cui erano stati condannati per gravi reati di sangue e di eversione contro l’ordinamento dello Stato.

    Hassan Iquioussen, invece, è un personaggio sicuramente meno conosciuto, almeno al di qua delle Alpi Graie, e si tratta di un Imam nei cui confronti il Ministro dell’Interno francese aveva recentemente emesso un decreto di espulsione in quanto considerato pericoloso: vicino ai Fratelli Musulmani, che in varie occasioni non ha mancato di manifestare apertamente antisemitismo, omofobia, xenofobia e di legittimare l’omicidio di chi avesse tradito la fede musulmana, spesso abilmente impiegando i termini usati salvo poco tempo fa quando gli è sfuggita la frase “taglieremo loro le teste prima che loro taglino le nostre”. Chi siano i destinatari di tale auspicio è piuttosto chiaro: siamo noi, gli infedeli.

    Dunque, una personcina che sarebbe stato di tutta opportunità rispedire al suo Paese di origine ma… grazie ad un tempestivo ricorso, il Tribunale amministrativo ha annullato la decisione ministeriale e l’Imam può serenamente continuare a risiedere nella sua zona prediletta, al confine con il Belgio.

    La sentenza è un inno all’ospitalità affermando che qualche parolina di troppo, per quanto di esplicita provocazione non può giustificare l’espulsione di chi mantiene il pieno diritto di condurre una normale vita famigliare con i suoi congiunti nella terra che ha scelto come sua residenza.

    Insomma, tiene famiglia ed i  francesi, si vede, non hanno il corrispondente diritto a sentirsi un po’ più sicuri di non incappare in qualche giovanotto (Iquioussen è un idolo nella fascia di età andante dai quindici ai quarant’anni) indottrinato al taglio delle teste.

    Molto ospitali, i giudici francesi: per chi non lo sapesse anche gli ex brigatisti italiani, alla fine, non sono stati consegnati alla nostra giustizia perché – in fondo – è ormai storia vecchia, questi gentiluomini si sono comportati bene per tanti anni, hanno messo su famiglia pure loro, hanno un lavoro e qualche ammazzatina a fondamento ideologico anni ’70 non può certo giustificare la prigione proprio adesso che sono dei miti pensionati o quasi. Figuriamoci, poi, in Italia! Dove – sempre secondo la Corte parigina – non vi è garanzia che siano stati sottoposti ad un giusto processo nel quale non hanno neppure potuto difendersi personalmente. E, certo: hanno preferito restare serenamente seduti in qualche barettino della Rive Gauche a sorbirsi un Pernod o a gustarsi un croque monsieur piuttosto che accomodarsi sulle panche di una Corte d’Assise.

    Liberi tutti, allora! Del resto siamo nella terra della libertà, della uguaglianza ed – evidentemente – della ospitalità.

    Far scontare una pena, tuttavia, non equivale a riparare le vittime di un delitto o i loro famigliari ma non è neppure vendetta sociale, anche se sono passati molti anni dai fatti: è semplicemente quella giustizia degli uomini che prima o poi ci si aspetta che arrivi e si manifesti con uno dei suoi esiti possibili.

    Non sempre è così, e i lettori di questa rubrica lo sanno bene: se poi il Presidente di un Collegio giudicante – come quello che si è occupato dei nostri terroristi – si chiama Belin, forse non ci si deve sorprendere più di tanto delle idee che gli passano per la testa. Una testa di Belin, appunto, con licenza parlando.

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