proteste

  • Proteste per il ritorno della corrida a Città del Messico

    “La tortura non è arte, non è cultura”. E’ il grido lanciato dagli animalisti, riunitisi vicino all’arena di Plaza de México, per protestare contro il ritorno della corrida a Città del Messico.

    La pratica, di cui un giudice aveva decretato la sospensione a tempo indeterminato nel 2022 d’accordo con gli animalisti che avevano intentato una causa, è ritornata a Città del Messico dopo quasi due anni.

    La Corte Suprema ha però revocato la decisione il mese scorso e così gli attivisti si sono dati appuntamento davanti all’arena per corrida più grande del mondo. E’ probabile che questo sia l’inizio di una battaglia legale tra sostenitori e oppositori.

    Secondo i media locali i giudici si sono pronunciati solo sugli aspetti tecnici e devono ancora decidere nel merito del caso.

    Malgrado le protese all’esterno, dove alcuni sventolavano striscioni con lo slogan “Niente più morti di innocenti” ed altri indossavano maschere da toro e si dipingevano di rosso, all’interno migliaia di persone hanno celebrato il ritorno della corrida con canti inneggianti “Lunga vita alla libertà”.

    Il presidente Andrés Manuel López Obrador ha proposto intanto un referendum sul futuro della corrida a Città del Messico.

    Secondo la Humane Society International, ogni anno nel mondo vengono uccisi circa 250.000 tori nelle corride.

    La corrida è ancora legale in molte zone del Messico, che è uno dei pochi paesi che ne consente ancora la pratica risalente al XVI secolo.

  • In Iran tornano le pattuglie per il controllo del decoro

    A meno di un anno dalla morte Mahsa Amini, la giovane uccisa in Iran perché non indossava
    correttamente l’hijab, le pattuglie della polizia morale, istituite dopo la Rivoluzione islamica del 1979, potranno nuovamente sanzionare coloro che non portano il velo correttamente nei luoghi pubblici.

    L’assurdo omicidio aveva portato moltissime persone a manifestare in maniera veemente contro il regime, la maggior parte erano donne che avevano tolto il velo e tagliato i capelli in segno di ribellione. Dopo centinaia di arresti e condanne a morte, l’Iran aveva sospeso le forze della polizia morale poiché gli agenti di sicurezza, durante le proteste, avevano picchiato, torturato, ucciso e fatto sparire delle persone. Nonostante il regime iraniano, le proteste sono andate avanti a lungo. Adesso però gli agenti ripristineranno il controllo capillare sui civili, in particolare sul corretto utilizzo dell’hijab da parte delle donne, avvalendosi anche di
    telecamere in strada.

  • Non solo il velo

    A muovere le proteste in Iran, rese ogni giorno più difficili dalla sanguinosa e crudele repressione del regime, non c’è soltanto la ribellione al velo e l’ira ed il dolore per le tante donne ed uomini, specialmente giovanissimi, che sono stati trucidati in questi mesi ma anche una tragica situazione del Paese dove le caste di chi governa e dei pasdaran, che hanno in mano l’amministrazione, vivono nel privilegio.

    La popolazione, ormai da tempo, è in condizioni di gravi difficoltà economiche oltre che in inaccettabili costrizioni delle libertà individuali.

    La realtà del Paese è una inflazione che arriva a più del 50% con aumenti dei prezzi di frutta, verdura, carne che impediscono alla maggior parte delle famiglie un’alimentazione minimamente corretta.

    Secondo il Fondo Monetario Internazionale quasi un terzo della popolazione è sotto la soglia della povertà estrema mentre non demorde la crisi energetica dovuta alle scelte sbagliate del governo, nonostante l’Iran sia ricco di gas.

    Le proteste dilagano in ogni parte del Paese, giovani e meno giovani si trovano insieme a reclamare libertà e condizioni di vita degne ma ricevano in cambio morte e continua violenza mentre troppa parte del mondo occidentale dimostra la propria impotenza.

    La gran parte della popolazione iraniana dovrà presto decidere tra un salto di qualità delle proteste o il lasciar soccombere la propria gioventù. Il salto di qualità della lotta contro il regime può essere deciso solo dagli iraniani ma, se lo decideranno, dovranno trovare aiuti concreti da parte di coloro che oggi trovano difficoltà anche ad organizzare manifestazioni di solidarietà nei paesi liberi.

  • Iran protests: Security forces intensify deadly crackdown in Kurdish areas

    At least 30 anti-government protesters have been killed by security forces in Kurdish-populated cities in west Iran in the past week, a rights group says.

    Hengaw reported that seven had died since Sunday in Javanroud alone, amid an intense crackdown by Revolutionary Guards armed with heavy weapons.

    On Monday, the funerals of two protesters turned into a mass rally.

    In one video, a protester can be heard saying the Revolutionary Guards are firing machine guns at people’s heads.

    The footage, which has been verified by BBC Persian, also appears to show people covered in blood lying on a street and someone shouting that a girl has been shot in the head. Automatic gunfire can also be heard.

    A mother who was worried about the fate of her young daughter and son protesting in the town posted an emotional appeal to people elsewhere in Iran, saying: “Please help us, they are killing everyone, killing our youth. Why aren’t people in Tehran coming out to the streets? Please help Kurdistan, help our youth.”

    The BBC also obtained on Monday a video showing a convoy of Revolutionary Guards with machine guns mounted on pick-up trucks heading to Mahabad, which has also witnessed intense confrontations recently.

    The city’s member of parliament, Jalal Mahmoudzadeh, said at least 11 people had been killed there in the past week.

    In Piranshahr, another small town, tens of thousands participated in the funeral of Karvan Ghadershokri, a 16-year-old-boy who was killed at a protest. A crowd earlier gathered in front of his parents’ house to prevent security forces from stealing his body.

    Every such funeral has turned into a mass rally against the clerical establishment. In response, security forces have taken away a number of protesters’ bodies and buried them in secret, without the presence of their families and friends.

    The protests that have spread across Iran like wildfire over the past two months started in the Kurdish region.

    They were sparked by the death in custody of Mahsa “Zhina” Amini, a 22-year-old Kurdish woman who fell into a coma after being arrested by morality police in the capital Tehran for allegedly wearing “improper” hijab.

    The Kurdish region has remained an epicentre of the unrest and has been a focus of the deadly crackdown by security forces.

    Iranian authorities have accused armed Kurdish opposition groups based in neighbouring Iraq of instigating “riots” in the region, without providing any evidence. The videos posted on social media have shown unarmed protesters confronting security personnel.

    Hengaw, which is based in Iraq’s Kurdistan Region, said last week that more than 80 protesters had been killed and 4,000 others detained in Kurdish-populated areas alone.

    The Human Rights Activists News Agency (HRANA), which is based outside Iran, has put the nationwide toll at 419 and also reported the deaths of 54 security personnel.

  • Pericolosa indifferenza ed errori del passato

    In Iran le ragazze continuano ad essere uccise mentre con tanti altri, non solo giovani fortunatamente, chiedono giustizia per chi è stato assassinato dal regime e lottano per avere un minimo di diritti e di libertà.

    Dispiace che le piazze italiane rimangano vuote e fredde su questo dramma e che tanta parte politica dimostri un’indifferenza pericolosa. Scaldarsi, anche in modo scorretto, sugli immigrati non assolve dal silenzio che è stato lasciato cadere su altre tragedie.

    Sull’immigrazione le parole del Santo Padre tolgono ogni dubbio su cosa è giusto fare.

    Anche sull’Ucraina il Papa è stato chiaro: vi è il diritto di difendersi da aggressioni e violenze.

    Altrettanto evidente è che senza l’aiuto delle armi occidentali gli ucraini non avrebbero che potuto soccombere al fuoco russo e sarebbero ora sotto il giogo di Mosca mentre i miliziani della Wagner e i sanguinari ceceni avrebbero avuto tutto l’agio di violentare, stuprare, rubare, saccheggiare su tutto il territorio ucraino così come hanno fatto nei territori che hanno occupato.

    Continua la doppia verità di certa politica, una politica che ha stancato definitivamente coloro che hanno ancora il coraggio di pensare con la propria testa, per questo i partiti al governo stiano attenti a non ripetere errori già fatti da alcuni di loro o dagli avversari ed il terzo polo se vuole veramente, come ha più volte dichiarato, pensare al futuro del Paese senza posizioni precostituite si avvii alle elezioni regionali con idee nuove e non rimestando acqua nel mortaio.

  • Hong Kong’s ‘Grandma Wong’ jailed over 2019 protests

    A prominent Hong Kong protester has been jailed for 32 weeks for taking part in anti-government protests in 2019.

    Alexandra Wong, 66, nicknamed Grandma Wong, denied the charges earlier this year, but changed her plea to guilty on Wednesday, the first day of her trial.

    Ms Wong was regularly seen at the protests three years ago, usually waving a British union jack flag.

    Prosecutors charged her in connection with two flash mobs on 11 August 2019.

    They accused Ms Wong of shouting “offensive words” at an unlawful assembly, adding that her flag-waving and slogans encouraged an illegal gathering.

    Hong Kong Principal Magistrate Ada Yim said the protests had caused “disruption to social order”.

    Ms Wong disappeared half way through the 2019 protests, but re-emerged in October 2020, saying she had been detained in the border city of Shenzhen and forced to renounce her activism.

    Her jailing comes a day after Hong Kong authorities sentenced a veteran activist and terminal cancer patient to nine months in jail for his attempt to protest against the Beijing Olympics.

    Koo Sze-Yiu, 75, was arrested by police in February before he could carry out a solo demonstration criticising China.

    He was charged with sedition, which he has denied. He has said he will appeal against the sentence.

    Hong Kong was rocked by months of anti-government protests in 2019 and 2020. They were initially sparked by plans to allow extradition to mainland China, and then grew to include several issues, including anger over a controversial new security law brought in by China which cracks down on dissent.

  • La ribellione contro le dittature è un sacrosanto diritto e dovere

    La disobbedienza, agli occhi di chiunque abbia letto la storia,

    è la virtù originale dell’uomo. È attraverso la disobbedienza che il

    progresso si è realizzato, attraverso la disobbedienza e la ribellione.

    Oscar Wilde

    Sono tanti, tantissimi gli insegnamenti della storia dell’umanità, i quali ci testimoniano che i regimi totalitari, le dittature non si affrontano, non si combattono e non si vincono con dei comportamenti e mezzi democratici. La storia, quella grande e infallibile maestra, da secoli ormai ci insegna che le dittature si sconfiggono e si sradicano solo e soltanto con la disobbedienza, con le rivolte e con la ribellione degli oppressi. Siano quelle classiche, oppure le “dittature moderne” camuffate sotto le apparenze ingannatrici di pluralismo e di democrazia. Ovunque i sacrosanti diritti vengono meno, il dovere di disobbedire e di ribellarsi diventa, altresì, sacrosanto e giustificato. Se adesso ci sono dei Paesi evoluti, dove funziona lo Stato democratico, dove si garantisce quella che Montesquieu, nel 1748, chiamava la divisione dei poteri e dove quella divisione è reale e funziona, è anche perché in alcuni di loro e nel corso dei secoli, i diritti sono stati difesi con determinazione. Quanto è accaduto in Francia dal 1789 in poi né è una significativa testimonianza. Ma anche quanto è accaduto, prima ancora, in Inghilterra. Molto significativa è stata la disobbedienza al re Giovanni da parte di un gruppo di nobili, ormai noti anche come i “nobili ribelli”, che si sopo opposti al re e alla dinastia dei Plantageneti che controllava tutto e tutti. Era il 15 giugno del 1215 quando i “baroni ribelli” hanno presentato al re Giovanni un documento allora chiamato Magna Carta libertatum (Grande Carta della libertà; n.d.a.) e comunemente nota come Magna Carta. Proprio così, da allora i “baroni ribelli” pretendevano che alcuni diritti fossero stati rispettati. Il re, dopo alcune resistenze, cercando anche l’appoggio del Papa Innocenzo III, è stato costretto ad accettare le richieste dei “baroni ribelli”. Richieste che prevedevano e dovevano garantire la tutela dei diritti della chiesa, la protezione dei civili dalla detenzione ingiustificata, il funzionamento di una rapida giustizia e la limitazione dei diritti di tassazione feudali della monarchia. Da allora molta acqua è passata sotto i ponti. Ma se in Inghilterra adesso la monarchia, rappresentata da settant’anni ormai dalla regina Elisabetta II, rispetta i diritti e la divisione dei poteri, è anche grazie a quello che fecero i “baroni ribelli’, circa otto secoli fa. Un significativo esempio del funzionamento della democrazia nel Regno Unito è stato dato anche la scorsa settimana. Giovedì scorso, 7 luglio, il primo ministro è stato costretto a dare le proprie dimissioni, non solo come capo del governo, ma anche come dirigente del Partito conservatore. Lui è stato accusato di ammettere, dopo averlo negato prima, che un suo fedelissimo, l’ex vice capogruppo parlamentare del partito conservatore, era stato indagato in passato “per comportamento inappropriato nei confronti degli uomini”. Ma sul primo ministro pesavano anche le clamorose sconfitte durante le ultime due elezioni di circoscrizione. Non è stato da meno neanche il cosiddetto “scandalo delle multe”, legato a varie multe prese per i festeggiamenti a Downing Street durante la chiusura dovuta alla pandemia, nonché le accuse di aver mentito in Parlamento. Una significativa dimostrazione che testimonia come i politici eletti e rappresentanti del popolo, esercitando con grande responsabilità il loro potere conferito, riescono a costringere il capo del governo a dimettersi. E lo hanno fatto in tanti, ministri e altri rappresentanti del governo, i quali da lunedì scorso, dando le proprie dimissioni, hanno chiesto anche al primo ministro di fare altrettanto. E tutto questo perché nel Regno Unito le regole della democrazia funzionano e si rispettano.

    La scorsa settimana sono ricominciate con forza e determinazione le proteste in Sri Lanka. Era dal marzo scorso che i manifestanti pacifici chiedevano le dimissioni del presidente del Paese e di suo fratello, il primo ministro. Proteste quelle di marzo e aprile scorso che hanno costretto il presidente a “convincere” suo fratello, il primo ministro, a dare le dimissioni. Proteste che però non si sono placate con quelle dimissioni. Anzi! Durante le proteste della scorsa primavera era accaduta una cosa del tutto inattesa. Hanno protestato insieme anche i rappresentanti dei diversi gruppi religiosi del Paese e cioè i buddisti, i musulmani, gli induisti e i cattolici. Una cosa inattesa quella perché le profonde divisioni ed i conflitti tra le varie comunità religiose hanno causato in passato anche dei violenti scontri tra di loro e dei loro sostenitori. Dopo le proteste della passata primavera, la scorsa settimana sono state annunciate nuove proteste pacifiche. Proteste che si sono svolte sabato scorso. Migliaia di manifestanti, arrivati nella capitale da tutte le parti dello Sri Lanka, hanno circondato il palazzo presidenziale ed altri edifici governativi. Il motivo della protesta era sempre lo stesso; la peggiore crisi finanziaria che da tempo sta affliggendo il Paese e la mancanza della liquidità in moneta straniera, che ha reso impossibile l’importazione di carburante, di cibi essenziali e di medicine. Una crisi dovuta agli abusi di potere e alla continua corruzione ai più alti livelli istituzionali, a partire dal presidente dello Sri Lanka e della sua famiglia. Una vera e propria dinastia quella, che annovera sette fratelli i quali hanno avuto degli incarichi importanti politici ed istituzionali. Famiglia che spesso è stata accusata di abuso di potere, di corruzione e di nepotismo. Il solo fatto che nell’aprile scorso lo Sri Lanka aveva, come presidente e come primo ministro, due fratelli né è una molto significativa ed inconfutabile testimonianza di tutto ciò. Sabato scorso, per dissuadere i manifestanti pacifici, sono stati usati gas lacrimogeni e cariche delle truppe speciali, ma niente è servito a fermare la determinazione dei cittadini. Sabato scorso i manifestanti sono riusciti finalmente a passare i cordoni di sicurezza militare e di polizia che circondava gli edifici tra i più importanti del Paese, tra cui la casa del Presidente, quella del primo ministro, data poi alle fiamme, ed il ministero delle Finanze. Durante la giornata sono state annunciate sia l’allontanamento dalla capitale ad uno “sconosciuto posto sicuro” del presidente, sia la sua disponibilità a dimettersi il 13 luglio prossimo. In seguito, nel pomeriggio di sabato scorso, anche il primo ministro ha dato le sue dimissioni dall’incarico avuto dal presidente tre mesi fa. Un altro significativo esempio che dimostra come la disobbedienza popolare contro un regime corrotto si possa trasformare in proteste. Ed in seguito, durante sabato scorso, anche in ribellione. Nel frattempo, dalle immagini trasmesse dai media e in rete, si vedevano gli ambienti lussuosi della casa presidenziale. E si vedevano anche decine di manifestanti che si tuffavano nella piscina del presidente. Dalle immagini si evidenzia molto chiaramente il lusso esagerato nel quale viveva la famiglia presidenziale, mentre la gente soffriva la fame. Adesso, dopo quanto è accaduto sabato scorso in Sri Lanka, rimane da seguire, nel prossimo futuro, ma anche oltre, come si evolveranno sia la situazione politica, sia quella economica e finanziaria nel Paese asiatico.

    La scorsa settimana, e proprio la sera di giovedì 7 luglio, nella capitale dell’Albania si è svolta una massiccia protesta pacifica. Decine di migliaia di cittadini, arrivati da tutte le parti del Paese, hanno riempito la viale principale della capitale, quella che porta all’edificio del Consiglio dei Ministri. Un edificio che quel giorno, dietro ordini ben precisi, era stato “sigillato” con delle porte e finestre metalliche per paura di essere preso d’assalto. Ma non era quella l’intenzione degli organizzatori della protesta. Almeno non quella volta, la sera di giovedì scorso. La protesta è stata organizzata dal maggior partito dell’opposizione, il ricostituito partito democratico. Il primo partito di opposizione che, dal dicembre 1990, ha organizzato tutte le proteste contro la dittatura comunista che hanno portato poi alla caduta del regime. Un partito però, che, sfortunatamente e vergognosamente, per alcuni anni era diventato “un’impresa familiare” della persona che dal 2013 aveva usurpato la direzione del partito ed una “stampella” del primo ministro. Un partito che poi, dal settembre 2021, ha cominciato un impegnativo percorso di ricostituzione. Un processo quello che nonostante la ricostituzione delle strutture locali e centrali del partito, continua ancora. Il nostro lettore è stato informato di tutto ciò nei mesi precedenti.

    I cittadini che hanno partecipato alla protesta massiccia e pacifica di giovedì scorso nella capitale albanese avevano tanti e ben validi motivi per disobbedire e protestare. Da anni in Albania si sta soffrendo una grave e preoccupante realtà. Realtà determinata da una galoppante corruzione che sta coinvolgendo tutti quegli che gestiscono la cosa pubblica. Partendo dal primo ministro e dai suoi “fedelissimi leccapiedi”. Realtà causata da un pauroso abuso di potere da parte di tutti quelli che esercitano dei poteri pubblici. Partendo dal primo ministro e dai suoi “fedelissimi leccapiedi”. Realtà che ha determinato, tra l’altro in questi ultimi anni, un continuo flusso demografico verso altri paesi dell’Europa. Si tratta soprattutto di giovani, di persone istruite e professionalmente abili, che lasciano tutto e tutti e vanno via, in cerca di una vita migliore. Solo in questi ultimi anni, dati ufficiali alla mano, i richiedenti asilo in diversi Paesi europei provenienti dall’Albania sono tra i primi, insieme con i siriani e gli afgani. Mentre in termini relativi, e cioè tenendo presente il numero complessivo della popolazione, gli albanesi diventano i primi. Il che ormai sta provocando degli effetti drammatici e non solo demografici, ma anche economici ed altro. Solo questo fatto verificato e facilmente verificabile rappresenta una pesante accusa per il malgoverno. L’Albania si sta paurosamente spopolando! Solo questo fatto dovrebbe essere un assordante campanello d’allarme per tutte le persone responsabili, per tutti gli albanesi patrioti. Solo questo fatto dovrebbe essere un buon motivo, non solo per protestare, ma per ribellarsi contro il nuovo regime restaurato in Albania. L’autore di queste righe ha spesso informato il nostro lettore di questa preoccupante realtà e delle sue paurose conseguenze, che hanno già cominciato ad evidenziarsi.

    Nonostante la vera, vissuta e sofferta realtà albanese, il primo ministro continua a governare. Ovviamente non sarebbe il caso di paragonare la realtà albanese con quella del Regno Unito, dove il primo ministro il 7 luglio scorso ha rassegnato le proprie dimissioni. Ma il primo ministro albanese non ha nessuna intenzione di dimettersi. Come hanno fatto sabato scorso il presidente ed il primo ministro dello Sri Lanka, paragonabili con il loro simile in Albania per il modo di abusare del potere. E guarda caso, sia in Albania che in Sri Lanka, tutte le fallimentari riforme sono state promosse e sostenute da una persona (e/o da chi per lui), da un multimiliardario speculatore di borsa statunitense e fondatore delle Fondazioni della Società Aperta. Quelle economiche promosse in Sri Lanka nel gennaio 2016. Mentre, allo stesso tempo, si promuovevano la “riforma” del sistema della giustizia ed altre “iniziative” in Albania. Ma anche nei Balcani occidentali.

    L’11 luglio, Papa Francesco ha inviato un messaggio ai partecipanti alla Conferenza della Gioventù dell’Unione europea che si sta svolgendo a Praga. Riferendosi alla guerra in Ucraina, il Pontefice ha detto: “Ora dobbiamo impegnarci tutti a mettere fine a questo scempio della guerra, dove, come al solito, pochi potenti decidono e mandano migliaia di giovani a combattere e morire. In casi come questo è legittimo ribellarsi!”.

    Chi scrive queste righe è fermamente convinto che la ribellione contro le dittature è un sacrosanto diritto e dovere. La storia, quella validissima maestra, ci insegna che nessuna dittatura è stata vinta con dei mezzi democratici. Le dittature si rovesciano con la ribellione. L’autore di queste righe non smetterà mai di ricordare la convinzione di Benjamin Franklin, secondo il quale ribellarsi ai tiranni significa obbedire a Dio. Condividendo anche quando scriveva Oscar Wilde e cioè che è attraverso la disobbedienza che il progresso si è realizzato, attraverso la disobbedienza e la ribellione.

  • L’estrema destra dà fuoco al Corano, s’infiamma la Svezia

    L’estrema destra provoca e la Svezia si infiamma nel weekend di Pasqua. Vi partecipano poche centinaia di persone, ma l’immagine che trasmettono al mondo è di una sommossa: da Örebro a Norrköping e Linköping, da Malmö a Stoccolma, tre giorni e tre notti violenti scontri oppongono polizia e manifestanti che lanciano sassi e bottiglie molotov e bruciano auto, pneumatici, cassonetti della spazzatura e tutto quanto capita loro a tiro, con un bilancio provvisorio di almeno 26 poliziotti e una quindicina di manifestanti feriti, alcuni colpiti di rimbalzo da proiettili di avvertimento sparati dagli agenti, varie decine di arresti. Il tutto in risposta a un ‘tour’ del leader di estrema destra danese Rasmus Paludan, che brucia pubblicamente copie del Corano, il testo sacro dell’Islam, in ogni centro della Svezia dove risieda una forte comunità di musulmani.

    La polizia svedese non ha per ora descritto la provenienza politica dei manifestanti, che però dalle testimonianze che si accumulano sui media appaiono comprendere cittadini musulmani, militanti antirazzisti e, in alcuni casi, dice la polizia, anche delinquenti comuni.

    Dopo essere iniziati venerdì a Örebro, nella domenica di Pasqua gli scontri sono tornati per la seconda volta a Norrköping, dopo essersi spostati nella vicina Linköping sabato, seguendo l’itinerario delle provocazioni di Paludan, ma approdando anche alla capitale Stoccolma.

    Domenica il leader di estrema destra ha rinunciato polemicamente al pubblico rogo del Corano dopo che la polizia lo ha obbligato a spostarlo a un luogo isolato, come aveva già fatto sabato, relegando la sua provocazione dal centro della cittadina di Lanskroma alla periferia della vicina città di Malmö, la terza più grande della Svezia, nel sud, in un parcheggio recintato da barriere. Su Facebook Paludan ha scritto polemicamente che la polizia e il governo svedesi “hanno dimostrato di essere assolutamente incapaci di proteggere se stessi e me. Se io venissi ferito gravemente o ucciso per colpa dell’inadeguatezza dell’autorità di polizia, sarebbe veramente triste per gli svedesi, i danesi e altri popoli del Nord”.

    Politico e avvocato danese di 40 anni, ma anche con passaporto svedese, Rasmus Paludan vuole lanciarsi in politica in Svezia nelle elezioni di settembre con il partito di estrema destra anti-immigrati e islamofobo Stram Kurs (Linea Dura) da lui fondato nel 2017, che si autodefinisce il “partito più patriottico della Danimarca”.

    Il governo socialdemocratico svedese della premier Magdalena Andersson ha duramente condannato tanto le dimostrazioni di Paludan, quanto le violenze di reazione, tenendo fermo il punto che uno dei principi fondanti della democrazia svedese è la libertà totale di espressione. Principio che Stoccolma ha difeso di fronte alla grandinata di proteste provenienti dai Paesi a maggioranza islamica del mondo contro “l’offesa deliberata al sacro Corano”, dall’Iraq all’Egitto, dagli Emirati arabi alla Giordania. Chi scatena la violenza nelle strade, ha fatto capire Andersson, si presta al gioco dell’estremista Paludan e della sua agenda razzista. Il ministro della Giustizia, Morgan Johansson, si è rivolto ai dimostranti invitandoli ad “andare a casa”, dopo aver definito Paludan un “buffone di estrema destra il cui unico fine è la violenza e la divisione”, ma ricordando come la Svezia sia una democrazia e che in democrazia “anche i buffoni hanno libertà di parola”.

  • Una protesta pacifica che ha fatto cadere delle maschere

    La maschera, quando è portata a lungo, non vuol più staccarsi dal volto

    Leone Ginzburg“Imparerai a tue spese che, nel lungo tragitto della vita, incontrerai tante maschere e pochi volti”. Era convinto di ciò che diceva Vitangelo Moscarda, detto Gengè, il personaggio principale del noto romanzo Uno, nessuno e centomila, scritto da Luigi Pirandello, che nel 1934 ha avuto il premio Nobel per la Letteratura. Un romanzo sul quale l’autore ha lavorato e riflettuto per circa quindici anni prima di pubblicarlo nel 1926. Lui stesso lo ha definito come il romanzo della scomposizione della personalità. Ed è proprio Gengé, proprietario benestante di un banco di pegni, il quale, per delle dirette, vissute e tormentate esperienze di vita personale, si convince che l’essere umano, essendo uno, diventa nessuno nella moltitudine sociale, ma per gli altri si disgrega in centomila immagini, esseri differenti l’uno dall’altro. Tutto cominciò un giorno, quando la moglie disse a Gengé, mentre lui si stava guardando allo specchio, che aveva il naso storto. Non essendosi mai accorto e convinto del contrario, da quel momento Gengé cominciò a dubitare di tante cose e le sue ferme convinzioni cominciarono a vacillare. Ragion per cui cominciò a riflettere su tutto e tutti. E riflettendo arrivò alla conclusione che siccome non era stato in grado di accorgersi di un così banale difetto fisico, come il naso storto, allora chissà quanti altri difetti caratteriali, anche importanti, erano però sfuggiti a lui, ma non agli altri. In preda a questi tormenti, Gengé cominciò a cambiare continuamente atteggiamento, tanto che nessuno riconosceva più in lui quella persona agiata che viveva la sua vita tranquilla e beata. Dopo tante sue ossessioni, dopo tante decisioni prese da lui ma non condivise dagli altri, che l’hanno reso pazzo agli occhi dei sui amici, dopo aver subito anche l’abbandono della sua moglie, Gengé si ritira in un ospizio per i poveri, da lui costruito. Ed in quell’ospizio cominciò a vivere come uno dei tanti ospiti, non usando più neanche il suo nome e diventando perciò un nessuno. Ma era proprio così, in quell’ospizio, che finalmente Vitangelo Moscarda, detto Gengè, si sentì libero dalle tante, tantissime maschere con le quali, durante la sua tormentata vita, aveva dovuto aver a che fare.

    Affrontarsi con le maschere purtroppo rappresenta una realtà quotidiana in ogni parte del mondo. Anche in Albania. Ma soprattutto durante questi ultimi mesi, quando tutta l’attenzione pubblica e mediatica è stata concentrata sugli sviluppi dentro il partito democratico albanese. Si tratta proprio del primo partito che si è opposto alla dittatura comunista dal dicembre 1990, che ha organizzato e ha guidato tutte le massicce proteste che hanno portato, in seguito, alla caduta di quella spietata e sanguinosa dittatura. Si tratta del maggior partito di quella che dovrebbe essere stata, dal 2013, una vera opposizione contro la nuova dittatura sui generis che si sta consolidando in Albania. Una dittatura che, camuffata da una fasulla parvenza di pluripartitismo, rappresenta una reale pericolosa alleanza tra il potere politico, rappresentato istituzionalmente dal primo ministro, la criminalità organizzata e certi raggruppamenti occulti locali ed internazionali. Una dittatura che, purtroppo, ha avuto anche il sostegno “taciturno”, ma non di rado anche pubblico, di alcuni “rappresentanti internazionali” in Albania. Quanto è accaduto e sta accadendo in Afghanistan, soprattutto dal 15 agosto 2021, ne potrebbe rendere l’idea al nostro lettore del “contributo” di quei “rappresentanti”. Un partito, quello democratico in Albania, che non dovrebbe e non potrebbe essere mai proprietà del suo dirigente e di alcuni suoi “fedelissimi”, come purtroppo è diventato, anno dopo anno e partendo dal 2013. Anno in cui, dopo le non revocabili dimissioni del suo capo storico, il dirigente diventò colui che, fino all’11 dicembre scorso, rappresentava ufficialmente il partito democratico. Colui che, fatti accaduti, documentati, verificati e verificabili alla mano, più che il dirigente del partito era diventato da anni, per il modo con il quale esercitava il suo ruolo istituzionale, il suo usurpatore. E sempre dai fatti accaduti, dai dati ufficialmente documentati, emersi e che stanno emergendo anche durante questi ultimi giorni, purtroppo, il partito democratico albanese era diventato una molto rimunerativa impresa familiare del suo usurpatore, avendo, tra l’altro ed in cambio dei servizi resi, anche un “generoso appoggio” da parte delle istituzioni governative. Servizi che, secondo le cattive lingue, erano parte integrante degli “oblighi” che doveva rispettare l’usurpatore del partito democratico albanese. Tra i quali due erano i più importanti e di valore strategico. Sgretolare e rendere inefficienti le strutture del partito per permettere al primo ministro di non avere ostacoli reali nella sua irresponsabile e folle corsa, con tutte le drammatiche e sofferte conseguenze. Ma anche di annientare, oppure, per lo meno, di indebolire lo spirito di protesta dei sostenitori del partito democratico e dei cittadini albanesi. E, come è accaduto da anni, le cattive lingue hanno avuto quasi sempre ragione.

    Ma questa drammatica situazione nel partito democratico albanese cominciò a cambiare con la nascita del Movimento per la ricostituzione del partito. Un Movimento capeggiato dal capo storico del partito, allo stesso tempo ex presidente della Repubblica (1992-1997) ed ex primo ministro (2005-2013), che ha motivato di nuovo la base del partito. Un movimento che è diventato sempre più ampio e che ha attirato tutta l’attenzione pubblica e mediatica, mettendo in serie e vistose difficoltà anche l’usurpatore del partito. Ma non solo lui. Perché insieme con lui ha cominciato a preoccuparsi seriamente anche il suo “benefattore”, il primo ministro albanese. Ne è una significativa testimonianza il coinvolgimento, dietro ben precisi “orientamenti” partiti dalle “stanze del potere”, dei media controllati direttamente dal primo ministro e/o da chi per lui. Una sempre più ampia schiera di analisti e di opinionisti a pagamento, gestiti dalla propaganda governativa, che fino a poco tempo fa ridicolizzavano l’usurpartore del partito democratico, adesso fanno i suoi avvocati difensori. In una simile realtà e in pieno rispetto dello Statuto del partito, la maggioranza assoluta dei delegati eletti del congresso ha convocato l’11 dicembre scorso, per la prima volta in assoluto in Albania, il Congresso straordinario del partito ed ha approvato quasi all’unanimità alcuni emendamenti dello Statuto. Il congresso, con i diritti riconosciuti dallo Statuto, ha altresì esonerato l’usurpatore da tutti i suoi incarichi dirigenziali. Ed insieme con lui anche i rappresentanti non eletti, come prevede e sancisce lo Statuto, ma selezionati e nominati dall’usurpatore nelle strutture dirigenziali del partito. Dall’11 dicembre 2021 e fino al 22 marzo 2022, ha assunto tutte le funzioni istituzionali, sempre dietro una decisione presa dai delegati del Congresso, una Commissione transitoria per la ricostituzione del partito democratico albanese. La decisione relativa all’esonero dell’usurpatore è stata in seguito riconfermata da un referendum aperto a tutti gli iscritti e svolto il 18 dicembre scorso. Durante questi ultimi mesi in Albania sia l’usurpatore del partito che alcuni suoi “fedelissimi” sono stati costretti a cambiare maschera. Il nostro lettore è stato informato continuamente di tutto ciò, soprattutto durante questi due ultimi mesi (Il doppio gioco di due usurpatori di potere, 14 giugno 2021; Usurpatori che consolidano i propri poteri, 19 Luglio 2021; Meglio perderli che trovarli, 13 settembre 2021; Agli imbroglioni quello che si meritano, 1 novembre 2021; Un misero e solitario perdente ed un crescente movimento in corso, 22 novembre 2021; Il vizio esce con l’ultimo respiro, 13 dicembre 2021; Importanti decisioni, vergognose manipolazioni e una protesta, 20 dicembre 2021).

    In pieno rispetto dei suoi diritti istituzionali, riconosciuti dallo Statuto del partito, la Commissione transitoria per la ricostituzione del partito democratico albanese ha inviato ufficialmente una lettera all’usurpatore del partito, con la quale lo informava delle decisioni prese dal Congresso del partito e confermate anche dal referendum. Con la stessa lettera chiedeva a lui di rispettare la volontà della grande maggioranza degli iscritti del partito e, perciò, di fare, entro il 5 gennaio scorso, le dovute e previste consegne istituzionali. L’usurpatore del partito però, non solo non ha rispettato il verdetto del Congresso e del referendum, ma ha ordinato di cominciare, in fretta, a blindare la sede del partito. Sì, di blindare la sede, nel vero senso della parola, mettendo nuove porte di ferro a tutti gli ingressi dietro quelle esistenti che servivano semplicemente come facciata. Ha oscurato anche tutte le finestre. Per non permettere a nessuno di entrare e di vedere quello che accadeva dentro la sede. Non permettere neanche di vedere che dentro la sede si erano radunate alcune decine di criminali evidenziati e ben noti anche alla polizia di Stato. Il compito a loro affidato era quello di impedire, con l’uso della forza e di altri mezzi, l’ingresso nella sede dei membri della Commissione transitoria per la ricostituzione del partito e degli iscritti. E, allo stesso tempo, sia l’usurpatore, che alcuni suoi “fedelissimi” hanno “indurito” anche il tono della voce, durante le poche dichiarazioni registrate o in diretta. Facendo così cadere altre loro maschere. Nel frattempo e visto quanto stava accadendo, la Commissione transitoria per la ricostituzione del partito ha invitato tutti gli iscritti a svolgere una protesta pacifica sabato scorso, 8 gennaio, presso la sede.

    Ebbene quello che è accaduto sabato scorso ha messo a nudo non solo il vero volto di tutti coloro che continuano ad usurpare la sede del partito democratico, ma anche il “rapporto di reciproco sostegno” tra il primo ministro e l’usurpatore del partito democratico. Altre maschere sono cadute. Nella mattinata di sabato scorso migliaia di iscritti del partito si sono radunati davanti alla sede. Un raduno pacifico dei veri azionisti del partito che chiedevano semplicemente venisse rispettato il loro sacrosanto diritto di entrare a casa propria. Purtroppo dall’interno della sede hanno risposto con dei gas lacrimogeni. Uso del tutto vietato dalla legge in vigore. Ma non solo; ad un determinato momento davanti alla sede sono stati schierati reparti delle forze scelte della polizia di Stato che hanno cominciato ad aggredire e spingere i protestanti pacifici. Invece di entrare nella sede ed arrestare coloro che facevano uso del gas in palese violazione della legge, hanno cominciato ad aggredire i manifestanti! Così come, invece di entrare nella sede del partito e fare i dovuti controlli previsti dalla legge, dopo che la Commissione transitoria per la ricostituzione del partito aveva ufficialmente depositato la denuncia per la presenza di criminali armati dentro la sede, la polizia di Stato non ha fatto niente, violando clamorosamente la legge in vigore. Ma, allo stesso tempo, hanno dimostrato da chi prendevano gli ordini. In più, per compiere fino in fondo quello che era stato loro ordinato, hanno fatto un uso sproporzionato e criminale di gas lacrimogeni sparati ad altezza d’uomo, ferendo molti manifestanti pacifici, di spray a peperoncino di forte concentrazione e di cannoni d’acqua. Dopo aver finalmente allontanato i manifestanti dalla sede del partito, li hanno inseguiti, usando sempre in modo vistosamente sproporzionato i gas nocivi e l’acqua. Dopo avere “liberato” la sede dai manifestanti pacifici, le truppe scelte della polizia di Stato sono rimaste ancora per alcune altre ore intorno alla sede del partito democratico albanese. Nel frattempo hanno approfittato sia il ministro degli Interni, fedelissimo del primo ministro, che l’usurpatore del partito e alcuni suoi fedelissimi, per elogiare il “comportamento esemplare” della polizia di Stato. Ma anche per “incolpare i manifestanti aggressivi e criminali” di aver distrutto tutto! Cercando di colpevolizzare una protesta pacifica che ha fatto cadere delle maschere, tante maschere.

    Chi scrive queste righe seguirà ed informerà il nostro lettore di tutti gli attesi sviluppi nel partito democratico albanese. Anche perché ci saranno altre proteste massicce e pacifiche ad oltranza. Proteste che faranno cadere altre maschere le quali, parafrasando Leone Ginzburg, essendo portate a lungo, non vogliono più staccarsi dal volto.

  • Idee diverse sì, ma nel rispetto delle regole

    E’ possibile avere idee diverse? Sì, e spesso è utile confrontarsi su idee diverse. E’ possibile manifestare per difendere e fare conoscere le proprie idee diverse da quelle della maggioranza? Certamente sì ma senza violenza, fisica e verbale, e senza mettere a rischio la propria e altrui incolumità. L’aumento esponenziale di contagi, proprio a seguito delle molte manifestazioni no vax con i partecipanti senza mascherina e senza rispetto del distanziamento sono e restano una violazione del diritto alla salute, diritto che abbiamo tutti, come singoli e come collettività. Sia il governo che le regioni ed i comuni avrebbero dovuto, fin dai primi cortei, ribadire quanto era stato sancito e che dovrebbe essere ancora in vigore, e cioè che all’aperto, in caso di assembramento, è obbligatoria la mascherina. Ancora oggi nei mercati all’aperto molti comuni controllano che le persone portino la mascherina e perciò non si comprende perché, fin dall’inizio, non sia stato chiaramente ribadito che per partecipare ad ogni tipo di manifestazione i partecipanti dovessero indossare idonea protezione. Passare dall’eccessivo permissivismo iniziale a parziali interventi non solo non ha impedito il diffondersi del virus in modo esponenziale ma ha inasprito gli animi di tutti creando nuovamente un clima che non giova alla serena convivenza. Circoscrivere le manifestazioni in luoghi specifici per non intralciare il traffico ed il commercio, come sembra sia stato ora deciso dal governo, non risolverà il problema del diffondersi del virus se non sarà ricordato, in forma inderogabile con adeguati controlli, che anche all’aperto, quando vi è assembramento, la mascherina è obbligatoria e che chi non rispetterà le regole potrebbe essere denunciato per danni alla salute pubblica. Chi dissente deve poter manifestare il proprio dissenso ma non ha il diritto, per difendere la propria presunta libertà, di ledere la libertà e la salute altrui.

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