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  • Poste Italiane e la speculazione finanziaria

    Gli scandali del Banco di Napoli e del Banco di Sicilia convinsero il mondo della politica della necessità di privatizzare il sistema bancario. In teoria la scelta sembrava inevitabile e persino corretta, ma non teneva nella giusta considerazione l’impatto delle volontà di speculatori con interessi di corto raggio.

    Una miopia che ha determinato nel 2023 ad avere oltre 3.300 comuni privi di uno sportello bancario, cioè 41,5% dei comuni italiani, con un gravissimo disservizio per l’utenza e conseguente aumento dei costi.

    All’interno di un sistema privato, infatti, il servizio reso alla comunità non può che presentare i connotati di un costo anche quando venga sostenuto da un ritorno economico a carico dell’utenza.

    Quindi nella annosa questione relativa alle privatizzazioni rimane fondamentale valutare quanto sia necessario tener conto dell’obiettivo finale di un investitore privato, che difficilmente si identifica con quello di assicurare un servizio alla comunità.

    Tornando ai tempi nostri, la scelta definita “strategica” di privatizzare Poste Italiane assume dei connotati decisamente simili in rapporto a quanto avvenuto per il sistema bancario, ma probabilmente con una conseguenza molto più importante rispetto allo stesso sistema bancario.

    Attualmente lo Stato detiene il 29,26% delle Poste attraverso il Ministero dell’Economia ed il 35% con la Cassa Depositi e Prestiti (CDP). La quota che verrà messa sul mercato nei prossimi anni sarà relativa a quel 29,6%, i cui valori attuali risultano tra i quattro e mezzo (4,5) ed i cinque (5) miliardi.

    La giustificazione addotta dall’attuale Ministro dell’Economia e dall’intera maggioranza è quella di utilizzare queste risorse finanziarie aggiuntive per una riduzione del debito pubblico. Francamente andrebbe ricordato come i cinque miliardi ridurrebbero di poco più del 6,3% la sola spesa corrente per un anno dei soli interessi sul debito pubblico (79 miliardi) .

    Ovviamente, a maggior ragione, i cinque miliardi appaiono decisamente influenti se confrontati con l’ammontare del debito pubblico che si attesta a 2.872 miliardi e persino in rapporto alla spesa corrente pubblica annuale che è di oltre 1100 miliardi.

    Da questa semplice confronto di cifre si può immaginare come le motivazioni possano essere diverse e probabilmente molto più torbide ed inconfessabili per una classe politica e governativa che dovrebbe pensare ad accrescere il patrimonio di un paese invece di liquidarlo.

    Seguendo quindi lo storytelling governativo, avvenuta la cessione del 29% lo Stato, attraverso Cassa Depositi e Prestiti, manterrebbe la maggioranza relativa, ma non più assoluta, di Poste Italiane.

    All’interno, quindi, di questo rinnovato equilibrio delle quote azionarie sarebbe sufficiente un semplice accordo tra gli altri azionisti, magari rappresentati da qualche fondo privato estero, che non solo potrebbero porre in minoranza lo Stato italiano, ma soprattutto assumere un ruolo operativo in previsione di una modifica della strategia e degli obiettivi di Poste Italiane.

    Nel caso in cui venisse adottato lo schema utilizzato per il sistema bancario non sembra difficile immaginare , successivamente alla creazione di una nuova maggioranza azionaria, con un CdA espressione proprio del nuovo equilibrio il quale, legittimamente, potrebbe disinvestire nel settore “core” delle Poste Italiane in vista di una cessione ad un concorrente privato, tipo Amazon, del servizio di recapito della posta.

    Una volta ultimata l’operazione e liberi da questo servizio a bassa redditività, i nuovi azionisti potrebbero concentrarsi sul vero business che rappresenta già oggi il vero obiettivo, il quale è rappresentato dall’ammontare del risparmio privato dei cittadini depositato presso le casse di Poste Italiane. Una risorsa finanziaria che ad oggi viene quantificata in trecentodiciotto (318) miliardi di risparmi.

    Questo ammontare di risorse finanziarie potrebbe cosi essere utilizzato come leva finanziarie per il conseguimento dei più disparati obiettivi speculativi finanziari. Sempre all’interno di questa ipotesi potrebbe risultare funzionale per l’acquisizione a prezzi stracciati di una parte di quel patrimonio immobiliare italiano,  il cui valore fosse decaduto in quanto i proprietari non fossero stati in grado economicamente di armonizzarsi alle direttive Green imposte dalla Commissione Europea.

    Uno scenario decisamente disastroso in quanto determinerebbe l’effetto paradossale di una depatrimonializzazione del settore immobiliare privato italiano la cui acquisizione speculativa, quindi a prezzi molto inferiori alla valutazioni precedenti l’attuazione della direttiva europea, risulterebbe finanziata dalle risorse finanziarie dello stesso risparmio privato italiano.

    La storia ci ha insegnato come la cessione degli asset strategici, qualora gestiti per il conseguimento di interessi puramente speculativi, diventi veicolo di riduzione del patrimonio nazionale, come per le vittime innocenti nel caso di Autostrade e la tragedia del ponte Morandi.

    Con la sostanziale privatizzazione di Poste Italiane l’esito finale non sarà diverso,forse anche peggiore.

  • Il primato del pubblico azzoppa ricostruzione e sviluppo del territorio

    C’è poco da stare allegri pensando che l’amministrazione pubblica sta per ricevere 209 miliardi dalla Ue. La ricostruzione ampiamente incompiuta delle aree del centro Italia colpite dal terremoto del 2016 attesta che laddove lo sviluppo del territorio non è affidato all’iniziativa privata, tale sviluppo resta soltanto sulla carta. A quattro anni dal sisma che ha danneggiato circa 79mila edifici, infatti, sono stati presentati solo 13.948 progetti e ne sono stati approvati appena 5.325, gli immobili riparati sono 2.544. La situazione è solo un po’ migliore per quel che riguarda i danni lievi (10.000 progetti circa e 4.500 approvazioni), mentre per le scuole risultano completati 17 interventi a fronte di 250 complessi scolastici su cui agire e per le chiese sono state portate a termine 100 ristrutturazioni su 944.

    La subordinazione dell’interesse dei cittadini a tornare alla normalità alle regole della pubblica amministrazione ha fatto sì che su 2.357 opere pubbliche finanziate quelle recuperate in 4 anni siano 186 ed intanto oltre 30mila persone vivono ancora in affitto con sussidi pubblici per un importo di 150 milioni l’anno.

    Il Ponte Morandi resta insomma un’eccezione più che un battistrada e qualunque sia il contesto nel quale si parla di opere pubbliche – ricostruzione post-sisma o utilizzo del Recovery fund – le buone intenzioni devono fare i conti con la realtà, lo strapotere che negli anni ha assunto la pubblica amministrazione in un Paese che crede al di là dell’evidenza nell’equazione secondo cui non c’è salvezza fuori dal pubblico.

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