Regno Unito

  • Amsterdam supera Londra per appeal agli occhi degli investitori

    Londra non è più la capitale europea della finanza. Con la Brexit, Amsterdam attira più investimenti ed è diventata il nuovo principale ‘hub’ finanziario del Vecchio Continente. E questa è una diretta conseguenza della Brexit, in quanto la causa principale dello ‘shift’ è il divieto imposto alle istituzioni finanziarie con sede nell’Ue di investire oltremanica, perché Bruxelles non ha riconosciuto alle Borse e alle sedi di negoziazione del Regno Unito lo stesso status di vigilanza del suo. Il motivo? Essenzialmente perché Londra, a sua volta, non ha riconosciuto alcuna vigilanza europea alle aziende Ue che operano nella City. Ora si punta a riaprire il negoziato, ma non sarà facile farlo. E nel frattempo i capitali sono volati da Londra ad Amsterdam.

    Tuttavia, ci si chiede: perché questi capitali si sono rivolti principalmente ad Amsterdam e non a Francoforte o a Parigi? Secondo gli esperti esistono almeno due ragioni. La prima è che Amsterdam è molto più simile a Londra di Francoforte e Parigi, non solo per la lingua ma anche perché culturalmente l’Olanda è più simile alla City di Londra. Gli operatori finanziari si sentono più a loro agio lì che nelle altre sedi europee. La seconda ragione è più sostanziale: perché l’Olanda ha una fiscalità nettamente più vantaggiosa per il mercato dei capitali rispetto a quella delle altre capitali europee.

    L’Olanda viene equiparata cioè a un ‘paradiso fiscale’. Insomma, le grandi aziende, le cosiddette corporate, riescono ad avere accordi ad hoc, soprattutto per quanto riguarda le tasse sugli utili societari, con le autorità olandesi. Inoltre anche per quanto riguarda il trading azionario conviene di più spostarlo ad Amsterdam perché si pagano meno tasse. E questo indubbiamente pone un problema di fondo all’Unione europea: come fare a rendere più equo il ‘campo di gioco’? Ovviamente Amsterdam ha tutto l’interesse a lasciare le cose come stanno, visto che è diventata la calamita che attira la maggior parte dei capitali in uscita da Londra. Il Financial Times ha stimato uno spostamento immediato di 6,5 miliardi di euro verso l’Ue, non appena il periodo di transizione della Brexit si è concluso alla fine dello scorso anno. Si tratta di circa la metà del volume d’affari che le banche e gli intermediari londinesi avrebbero normalmente gestito se il Regno Unito fosse stato ancora un Paese membro. Come nota lo stesso Ft la strada verso l’unione dei mercati dei capitali in Europa è “ancora lunga”. A Bruxelles, il fulcro di questa strategia è l’Unione dei mercati dei capitali da tempo promessa, che mira a sbloccare i flussi di investimento transfrontalieri e ad aumentare l’accesso ai finanziamenti per le imprese europee.

    Il piano d’azione sull’Unione dei mercati dei capitali (Cmu) è stato lanciato dall’Ue a settembre del 2015 e deve ancora essere completato. In un rapporto, citato dal Ft, e preparato dal chief financial officer della Cmu, Kalin Anev Janse e da Rolf Strauch, il suo chief economist, si chiede un notevole potenziamento dei poteri di vigilanza dei due regolatori europei esistenti, l’Autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati e l’Autorità europea delle assicurazioni e delle pensioni aziendali e professionali. Questi due organismi, oltre ad avere un ruolo guida nella definizione delle normative su settori come la finanza verde e digitale, dovrebbero aumentare i loro poteri esecutivi e ottenere l’autorità di supervisionare direttamente i grandi partecipanti finanziari internazionali. “La sfida per l’Ue è definire e costruire un modello di vigilanza efficiente che armonizzi i mercati e garantisca la trasparenza e la protezione degli investitori”, afferma il documento. “Attualmente, pratiche di vigilanza divergenti nell’Ue ostacolano gli investimenti transfrontalieri”.

    Tutto ciò concorda con le ambizioni della Commissione europea, poiché l’Ue persegue la cosiddetta autonomia strategica nei servizi finanziari. Mairead McGuinness, commissario europeo per i servizi finanziari, ha assicurato che Bruxelles “punta sulla Cmu” e sta facendo “un sacco di lavoro” in questo senso.  Ovviamente esistono numerose raccomandazioni da parte di Bruxelles contro il dumping fiscale, dirette contro l’Olanda, ma anche contro Cipro, Ungheria, Irlanda, Lussemburgo e Malta. L’obiettivo è quello di contestare le pratiche fiscali “aggressive”, che vanno a vantaggio delle grandi società, incentivandole a spostare la loro sede in Olanda. Uno strumento essenziale per Bruxelles per ridurre il dumping fiscale di Paesi come l’Olanda è il Recovery Plan. Tra gli obiettivi del Recovery infatti c’è una clausola, in base alla quale viene sostenuto che l’emissione di ingenti quantità di debito dell’Ue potrebbe aiutare a promuovere l’integrazione dei mercati dei capitali. In altre parole si tratterebbe di un ‘do ut des’: aiuti contro la pandemia in cambio di misure in favore di un più equo mercato europeo dei capitali. Ovviamente anche questa strada è stretta e lunga. Tuttavia non c’è dubbio che in una fase come questa, in cui l’agenda europea è dominata dalle questioni legate alla pandemia, uno scambio di questo tipo potrebbe servire ad ammorbidire la posizione delle autorità olandesi.

  • Il Parlamento inglese ratifica l’intesa Johnson-von der Leyen sull’addio alla Ue

    Partita chiusa e vittoria netta per il premier britannico Boris Johnson. Mercoledì 30 dicembre la Camera dei Comuni ha infatti approvato l’accordo commerciale post-Brexit tra Regno Unito e Ue con 521 voti favorevoli e 73 contrari. A sostenere il ‘deal’ una maggioranza schiacciante di 448 deputati, in modo compatto il partito conservatore del primo ministro, e i laburisti di Keir Starmer, con una pattuglia di ‘ribelli’ che non si sono allineati. Contrari, per ragioni diverse, gli indipendentisti scozzesi, i libdem, i partiti nordirlandesi e il gallese Plaid Cymru. Il provvedimento è stato così indirizzato, già in giornata, verso la promulgazione reale (royal assent) dopo un passaggio procedurale alla Camera dei Lord. E BoJo esulta, parlando di “nuovo capitolo” nella storia del Paese.

    L’estenuante maratona negoziale e politica (interna ed esterna al Regno) apertasi dopo il referendum del 2016 sull’addio all’Ue si è quindi conclusa con un accordo raggiunto in extremis e che riceve i fondamentali via libera, britannico ed europeo, a poche ore dalla fine del periodo di transizione post-Brexit. Se Westminster chiude in giornata i suoi lavori sul complesso dossier europeo, da Bruxelles arriva la firma al ‘deal’ dei presidenti del Consiglio Ue e della Commissione, Charles Michel e Ursula von der Leyen, per conto dei 27 leader europei. Lo stesso ha fatto Johnson a Downing Street, commentando così su Twitter: “Firmando questo accordo, soddisfiamo il desiderio sovrano del popolo britannico di vivere secondo le proprie leggi, stabilite dal proprio Parlamento eletto”. Mentre il Parlamento dell’Unione deve ancora ratificare il trattato ma il passaggio appare piuttosto scontato e non ci dovrebbero essere insidie lungo il cammino finale.

    Dal primo gennaio, quando la Brexit entrerà nella sua piena fase, la Gran Bretagna lavorerà a stretto contatto con l’Ue all’insegna di una “nuova relazione tra eguali”, ha assicurato il premier Tory, spiegando che si andrà avanti “mano nella mano ogni volta che i nostri valori e interessi coincideranno”. Ai parlamentari Johnson ha ricordato che l’accordo di libero scambio con Bruxelles è stato negoziato a una “velocità sorprendente”. In meno di un anno, in piena pandemia, “perché creare certezza sul nostro futuro offre le migliori possibilità di battere il Covid e di riprendersi in modo ancora più forte l’anno prossimo”, ha aggiunto il primo ministro. In termini politici, il premier Tory può vantare di aver mantenuto le promesse, arrivando a una intesa con l’Ue entro la fine del periodo di transizione. Intesa che trova se non il plauso almeno il sostegno dell’opposizione laburista, finita col dividersi (ancora una volta) in materia di Brexit. Il loro leader Starmer ha parlato di un accordo “con molti difetti” ma l’alternativa sarebbe stata quella di lasciare il mercato unico e l’unione doganale senza alcun ‘deal’, facendo salire i prezzi e mettendo a rischio le imprese. La ribellione interna al Labour ha proporzioni comunque limitate: 36 deputati astenuti e uno solo contrario. Di avviso opposto, invece, gli indipendentisti scozzesi dell’Snp, la seconda forza di opposizione ai Comuni, e da sempre su posizioni anti-Brexit. Il loro leader a Westminster, Ian Blackford, ha condannato l’accordo come “un atto di vandalismo economico” e ha attaccato i laburisti per non essersi opposti.

    I giochi comunque sono fatti e, come ha ricordato lo stesso Johnson nel suo intervento, è giunto il tempo della libertà, da un controllo legislativo esterno al Regno, ma anche della responsabilità, per quello che Londra potrà fare contando solo sulle sue forze.

  • Downing Street decide spese militari da record

    Un piano multimiliardario di spese militari extra come non si vedeva da 30 anni: per tutelare “la sicurezza dei britannici”, per condividere di più “le responsabilità globali con gli alleati” della Nato e per “estendere l’influenza del Regno Unito” del dopo Brexit in un mondo “mai così pericoloso e intensamente competitivo dal tempo della Guerra Fredda”. Boris Johnson chiama alle armi i sudditi di Sua Maestà e promette una pioggia di sterline sia per “modernizzare” gli arsenali convenzionali e il deterrente nucleare, sia per affrontare con “tecnologie all’avanguardia” le nuove sfide della cyber difesa, della competizione spaziale e dell’intelligenza artificiale applicata agli apparati bellici.

    L’annuncio – secondo colpo a effetto in due giorni dopo quello della rivoluzione industriale verde che dovrebbe segnare la fine dell’era delle auto a benzina e diesel per il 2030 – arriva di fronte alla Camera dei Comuni. Con il premier Tory costretto al collegamento video dall’isolamento imposto dalle cautele Covid, ma deciso comunque a provare a ridare lustro all’immagine del proprio governo a dispetto delle faide interne, delle polemiche sull’emergenza coronavirus, delle incognite sui cruciali negoziati con l’Ue sulle relazioni future. Sul piatto spuntano 16,5 miliardi spalmati in 4 anni da sommare ai 24,1 previsti nel medesimo arco di tempo come incremento base del budget per le forze armate di uno 0,5% superiore all’inflazione: fino a un totale di oltre 40 miliardi aggiuntivi e a una somma finale stimata da qui al 2024 a 190 miliardi di sterline (212 miliardi di euro), ossia al 2,2% del Pil. Una quota superiore al 2% chiesto dall’Alleanza Atlantica a tutti gli Stati membri e destinata a consolidare tanto il primato europeo del Regno quanto il suo secondo posto dietro ai soli Stati Uniti negli stanziamenti per la difesa in cifra assoluta fra i partner Nato. Non senza la prospettiva parallela di stimolare 40.000 posti di lavoro grazie alle commesse militari, dalla cantieristica navale all’industria aerospaziale.

    Per BoJo ne va della necessità di “fermare il declino” e della possibilità di difendere gli interessi e i valori del Regno come dello scacchiere occidentale in una realtà nella quale – seguendo la sua narrativa – vi sono “nemici” (non citati apertamente, ma fra cui sembra scontato evocare il profilo fra gli altri di Cina o Russia) che tramano “in modo sempre più sofisticato, incluso nel cyberspazio”.  “Ho preso la decisione” di avviare questo programma “generazionale”, epocale, “in faccia alla pandemia poiché il settore della difesa è prioritario”, ha proclamato il premier ai deputati, elencando fra i vari progetti in nuce la creazione di un’agenzia militare ad hoc che si occuperà d’intelligenza artificiale, lo sviluppo di una National Cyber Force, la costituzione di una nuova struttura di comando delle Forze Spaziali incaricata di lanciare un primo razzo vettore con l’Union Jack nel 2022.

    Limitarsi a “sperare in bene” dinanzi alle minacce del “terrorismo” o degli “Stati ostili” non è del resto un’opzione prudente, nel messaggio di Johnson. Che intanto non esita a snobbare il ritiro dall’Afghanistan annunciato dall’amico uscente Donald Trump, riservandosi di discutere della sicurezza di quel Paese e del futuro dei contingenti britannici in altre aree di conflitto con i nuovi “amici americani dell’amministrazione eletta” di Joe Biden.

    Il tutto sullo sfondo di una retorica da neo-guerra fredda, o quasi, che neppure l’opposizione laburista – passata dalle mani del pacifista Jeremy Corbyn a quelle dell’uomo d’ordine sir Keir Starmer – contesta, salvo rimproverare a Boris di essere carente nella “strategia” al netto dei “grandi annunci”. E che nelle parole di plauso del deputato Tom Tugendhat, imitatore Tory dei neocon Usa modello George W. Bush, diventa l’occasione per riesumare lo spauracchio del pericolo rosso. “Non potremo spendere più dei comunisti” neppure con queste risorse, sospira Tugendhat riferendosi apparentemente al bilancio militare di Pechino; ma “abbiamo il dovere di essere più aggiornati” di loro.

  • Faida a Downing Street, cade lo spin doctor di Johnson

    Una faida che ha tutti gli ingredienti dello scontro interno per il potere, ma anche della pochade. Esplode la resa dei conti a Downing Street, al cuore del cerchio magico di Boris Johnson, nel pieno del lockdown nazionale bis imposto per frenare la seconda ondata d’una pandemia da coronavirus che ha appena fatto salire a oltre 50.000 il totale dei morti censiti nel Regno Unito: e a cadere per prima è la testa di Lee Cain, ex cronista di tabloid vicino da anni al premier conservatore britannico e veterano al suo fianco della vittoriosa campagna di Vote Leave al referendum sulla Brexit del 2016, dimessosi all’improvviso da direttore dell’ufficio stampa del governo quando era ormai a un passo dalla promozione annunciata a capo di gabinetto.

    Promozione inizialmente offertagli dallo stesso BoJo, ma avversata secondo i media dall’ambiziosa futura terza moglie del primo ministro, Carrie Symonds, madre da pochi mesi del piccolo Wilfred, la quale ha a sua volta alle spalle una carriera di rampante spin doctor nel nido di serpenti di casa Tory. Cain – azzoppato di recente dal sospetto fatto circolare dai rivali interni di aver spifferato a mezzo stampa i piani per il secondo confinamento prima del tempo – ha gettato la spugna con una lettera in cui ha evitato polemiche pubbliche, dicendosi “onorato” di aver potuto servire il governo. Mentre Johnson gli ha risposto ringraziandolo con un peana a tutto tondo. La vicenda sembra tuttavia poter indebolire Dominic ‘Dom’ Cummings, potente quanto controverso super consigliere ed eminenza grigia brexiteer di Downing Street, al quale Cain era legato a doppio filo. E con la cui copertura non aveva esitato nei mesi scorsi a sfidare l’ira dei giornalisti accreditati, facendo buttar fuori dal portoncino al numero 10 un pugno di reporter di testate “ostili” con un veto paragonato da più parti a una mossa alla Donald Trump.

    Cummings – a dar credito a Laura Kuenssberg, political editor della Bbc e insider dell’entourage johnsoniano – intende per ora resistere nel “braccio di ferro” con Carrie. E restare al suo posto, confidandosi insostituibile per un premier che non volle sacrificarlo nemmeno di fronte al clamoroso scandalo della violazione familiare delle regole del primo lockdown anti-coronavirus nella primavera passata. Ma per il Times il vero bersaglio della Symonds appare proprio lui, sullo sfondo di una partita sotterranea in gioco da tempo, non senza colpi bassi, con in palio in sostanza l’incoronazione di chi debba avere l’influenza decisiva su Boris (e sui destini del governo).

    Intanto Lee Cain sarà sostituito come Direttore della Comunicazione da James Slack, ex firma del Daily Mail e attuale portavoce del primo ministro, il cui ruolo è destinato a essere svuotato dalla cooptazione di Allegra Stratton nella veste di nuovo volto ufficiale dell’esecutivo per i futuri briefing tv concepiti sul modello Usa: ossia di un’ex giornalista Bbc “amica” – guarda caso – della 32enne first lady in pectore che BoJo, 56 anni, dovrebbe impalmare a maggio.

    La guerra intestina semina del resto imbarazzo e malcontento fra alcuni deputati conservatori, sempre meno a loro agio in questo clima da tardo impero. Mentre l’opposizione laburista coglie la palla al balzo per accusare il governo di mostrarsi “incompetente e diviso”, con consiglieri impegnati a “combattersi come ratti” per una promozione. “E’ patetico e infantile – twitta Angela Rayner, numero due del leader Keir Starmer in un Labour di nuovo in ascesa nei sondaggi – che questo succeda nel mezzo di una pandemia in cui il Paese ha raggiunto il traguardo tragico dei 50.000 morti

  • Londra non dimentica Hong Kong nelle mani di Xi Jinping

    Il Regno Unito ha sospeso gli accordi di estradizione con Hong Kong ed esteso alla sua ex colonia l’embargo sulle armi già in vigore per la Cina continentale dal massacro di piazza Tienanmen. Dopo il colpo inferto al colosso della telefonia cinese Huwaei e la promessa di visti a pioggia per gli Hong Kongers, Londra ha deciso di intensificare lo scontro con Pechino seguendo l’esempio, e la volontà, degli Stati Uniti. Le misure erano già state anticipate nelle scorse ore dallo stesso premier britannico Boris Johnson che ha espresso timore per la violazione dei diritti umani in Cina, anche se, ha sottolineato, questo non lo spingerà a diventare “sinofobo su ogni questione”. La conferma delle misure è arrivata dal ministro degli Esteri Dominic Raab. Parlando alla Camera dei Comuni, il ministro ha espresso preoccupazione per la nuova legge sulla sicurezza nazionale varata da Pechino e per i presunti abusi, perpetrati in particolare nella provincia dello Xinjiang, ai danni della minoranza uigura. Raab ha descritto le misure come ragionevoli e proporzionate: “Proteggeremo i nostri interessi vitali, difenderemo i nostri valori e faremo in modo che la Cina rispetti i suoi obblighi internazionali”. La decisione di Londra segue quella già presa da Usa, Australia e Canada che hanno sospeso gli accordi di estradizione perché la nuova legge sulla sicurezza “erode l’indipendenza giudiziaria di Hong Kong” permettendo alle persone estradate nella regione amministrativa speciale di essere processate nei tribunali continentali. L’embargo disposto da Londra vieta poi alle società britanniche di esportare armi potenzialmente letali, i loro componenti o munizioni, nonché attrezzature che potrebbero essere utilizzate per la repressione delle manifestazioni interne. Pechino ha contestato le nuove misure ancor prima che fossero state formalmente annunciate da Raab. L’ambasciatore cinese nel Regno Unito, Liu Xiaoming, ha detto alla Bbc che Londra si è fatta “comandare” dagli Stati Uniti e ha respinto le accuse delle violazioni dei diritti umani del popolo uiguro. “La gente dice che la Cina sta diventando molto aggressiva. È totalmente sbagliato”, ha detto Liu, “La Cina non è cambiata. Sono i paesi occidentali, guidati dagli Stati Uniti, che hanno iniziato questa cosiddetta nuova guerra fredda contro Pechino”. Il portavoce del ministero degli Esteri cinese, Wang Wenbin, ha “condannato con forza” le misure e ha chiesto al Regno Unito di “non fare ulteriori passi falsi per evitare altri danni alle relazioni tra Londra e Pechino”. Wang in particolare ha difeso la legge sulla sicurezza nazionale che, secondo il governo britannico, lede il principio ‘Un Paese due sistemi’ sui cui dal 1997 si è basata l’autonomia di Hong Kong.

  • Il Regno Unito ha sottovalutato le interferenze russe nei suoi referendum

    I funzionari britannici non hanno agito e hanno sottovalutato la minaccia russa. E’ quanto emerge dal rapporto dell’Intelligence and Security Committee (ISC) del Regno Unito sull’attività russa in UK. L’indagine dell’ISC, iniziata nel 2017 dopo le dichiarazioni sulle interferenze russe nelle elezioni presidenziali statunitensi del 2016, fa riferimento a campagne di disinformazione, tattiche informatiche e presenza di espatriati russi nel Regno Unito, concludendo che i ministri avrebbero chiuso un occhio sulle accuse di coinvolgimento russo. Il rapporto critica le agenzie di intelligence per non aver intrapreso alcuna azione durante il referendum sull’uscita dall’UE, nonostante ci fossero voci attendibili che parlavano di “campagne di influenza” da parte dei russi durante il referendum sull’indipendenza scozzese nel 2014. “Il governo del Regno Unito ha attivamente evitato di cercare prove sulle interferenze russe. Ci è stato detto che non avevano visto alcuna prova, ma non ha senso se non ne hanno cercate”, ha dichiarato Stewart Hosie, membro dell’ISC, che ha aggiunto: “Non ci è stata fornita alcuna valutazione post referendum dei tentativi di interferenza da parte della Russia”. Il Cremlino ha respinto le affermazioni definendole ‘russofobia’ in perfetto stile fake news.

  • No alla quarantena per i passeggeri in arrivo: le compagnie aeree criticano la decisione di Londra

    Le compagnie aeree condannano la decisione del Regno Unito di introdurre una quarantena di 14 giorni per i viaggiatori. Il mese scorso, infatti, il governo ha annunciato che, dall’8 giugno tutti i passeggerei in arrivo con voli internazionali, compresi i cittadini britannici di ritorno in patria, devono autoisolarsi e fornire dettagli sul luogo in cui alloggeranno. Le critiche al Governo di Londra partono dal fatto che la proposta di introdurre la quarantena sia arrivata troppo tardi e si rivelerebbe perciò inefficace. All’inizio di questa settimana, il CEO di Ryanair, Micheal O’Leary, ha affermato che la sua compagnia aerea non cancellerà i voli da e per il Regno Unito e ha accusato i ministri di aver elaborato il piano di quarantena mentre in gli inglesi continuano ad ignorarla. British Airways, EasyJet e Ryanair hanno scritto congiuntamente al governo chiedendo un controllo giurisdizionale, ritenendo sproporzionate le regole imposte. L’International Airlines Group ha lamentato inoltre il fatto che le compagnie aeree non sono state consultate in merito a tale mossa.  Il governo britannico è stato da più parti pesantemente criticato per la sua lenta risposta alla pandemia: non ha chiuso i confini, non ha controllato gli arrivi internazionali né testato i viaggiatori durante il periodo più critico della diffusione del Covi-19, insistendo invece fino a maggio che porre restrizioni al confine non avrebbe avuto un impatto significativo sulla diffusione del virus.

  • Boris Johnson programma colloqui sulla Brexit con la Presidente della Commissione Ursula von der Leyen

    Il Primo Ministro britannico Boris Johnson ha in programma nuovi colloqui sulla Brexit con la Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, nel tentativo di raggiungere un accordo commerciale prima dell’autunno.

    Intanto il principale negoziatore della Brexit per l’UE, Michel Barnier, ha invitato il Regno Unito a “mostrare più realismo” nei colloqui commerciali, se il Paese punta a raggiungere un accordo post-Brexit. Parlando al quotidiano The Times, Barnier ha infatti sottolineato che il Premier Johnson dovrebbe “ricordare” le promesse fatte nella Dichiarazione politica, poiché “il Regno Unito ha fatto tre passi indietro rispetto agli impegni assunti in origine”. Il negoziatore dell’UE ha spesso invitato le due parti a trovare un accordo commerciale dato che la pandemia di Coronavirus ha ritardato i colloqui bilaterali e il periodo di transizione dovrebbe concludersi il 31 dicembre.

    Martedì intanto le due parti hanno partecipato alla quarta tornata di negoziati sulla relazione post-Brexit, poiché i colloqui precedenti hanno portato a una situazione di stallo nei settori chiave. Indiscrezioni dicono però che nessuna delle due parti si aspetta una “svolta” nei colloqui, confidando in un incontro di “alto livello” nel corso del mese che potrebbe sbloccare l’enigma post Brexit.

  • Anche i marmi del Partenone di Atene nelle trattative sull’implementazione della Brexit

    Anche la cultura finisce al centro del confronto post-Brexit fra Regno Unito ed Europa. In particolare la questione che da tempo divide Londra e Atene: la restituzione dei marmi del Partenone, conservati da oltre duecento anni al British Museum nella capitale britannica.

    La stampa anglosassone ha rilanciato allarmata la notizia di una bozza di intesa redatta dai diplomatici di Bruxelles in vista delle trattative post-divorzio che devono aprirsi a marzo e nella quale è contenuta una clausola a protezione di “oggetti culturali rimossi illegalmente nei loro Paesi di origine”. E’ in particolare il Times che sottolinea come i colloqui sull’accordo commerciale potrebbero essere utilizzati dal governo greco per portare avanti la causa della restituzione, sempre sentita come motivo di orgoglio nazionale. Immediatamente a Londra si è pensato a un modo per riaprire la vecchia diatriba legale ellenico-britannica e il governo conservatore del premier Boris Johnson ha ‘alzato le barricate’ a scanso di ogni equivoco.

    Un portavoce di Downing Street si è affrettato a precisare che la bozza è ancora in fase di definizione e soprattutto ha escluso che i celebri marmi recuperati da Lord Elgin all’inizio del 1800 possano rientrare all’interno delle trattative con l’Ue. Anche fonti diplomatiche di Bruxelles hanno confermato che la clausola non riguarderebbe i tesori artistici arrivati dalla Grecia, ma è rivolta a contrastare il commercio illegale di antichità.

    Le opere – di cui Atene chiede di tornare in possesso dal 1981, quando era ministro della Cultura l’attrice Melina Mercouri – sono 15 metope, 56 bassorilievi di marmo e 12 statue (quasi l’intero frontone Ovest del tempio), oltre a una delle sei cariatidi del tempietto dell’Eretteo. I marmi, che ornavano il tempio di Athena Parthenos (vergine), gioiello architettonico del V secolo a.C., furono asportati e trafugati fra il 1802 e il 1811 da Lord Thomas Bruce Elgin, allora ambasciatore britannico presso la Sublime Porta, e venduti al British Museum nel 1816 per 35mila sterline oro dell’epoca.

    L’istituzione museale di Londra ha sempre ribadito il suo diritto di possedere le opere al centro della diatriba. Diatriba che ha avuto una serie di capitoli: Atene ha prima tentato le vie legali, per poi concentrarsi su un’offensiva più politica e diplomatica. La Gran Bretagna ha sempre risposto con un secco ‘no’ alle richieste di restituzione in arrivo dalla Grecia e la sua posizione è difficile che cambi in particolare dopo il divorzio dall’Ue.

  • Cambia il numero e la distribuzione dei seggi al Parlamento europeo dopo la Brexit

    Dal 1° febbraio il Parlamento europeo ha 705 seggi, rispetto ai 751 (il massimo consentito dai trattati UE) precedenti al ritiro del Regno Unito dall’UE, il 31 gennaio 2020. Dei 73 seggi del Regno Unito, 27 sono stati ridistribuiti ad altri Paesi, mentre i restanti 46 sono posti in riserva per eventuali futuri allargamenti. I deputati entranti sono stati eletti alle Elezioni europee del maggio 2019.

    A seconda delle procedure nazionali, alcuni nomi sono già stati confermati, mentre altri sono ancora in attesa di notifica.

    La ridistribuzione dei seggi assicura che nessun paese dell’UE perda alcun deputato, mentre alcuni paesi guadagnano da uno a cinque seggi, per far fronte alla sotto-rappresentazione dovuta ai cambiamenti demografici. La nuova distribuzione tiene conto delle dimensioni della popolazione degli Stati membri e della necessità di un livello minimo di rappresentanza per quelli più piccoli.

    Il principio di “proporzionalità degressiva” significa che i paesi più piccoli hanno meno deputati rispetto ai paesi più grandi, ma anche che i deputati di un paese più grande rappresentano più elettori, rispetto ai loro omologhi dei paesi più piccoli.

    Il Parlamento continuerà a influenzare i negoziati UE-Regno Unito per le future relazioni, mentre la Brexit avrà un impatto anche sulla composizione delle commissioni e delle delegazioni interparlamentari.

     

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