Regno Unito

  • Colpo finale della Corte Suprema britannica a Boris Johnson

    Non gliene va bene una a questo premier britannico fuori dalle righe. Dopo essere stato messo in minoranza su sei votazioni consecutive, ieri ha ricevuto il colpo finale dalla Corte Suprema, che all’unanimità ha giudicato illegale la controversa sospensione del Parlamento da lui decisa lo scorso agosto. La sospensione aveva provocato reazioni insolite da più parti ed aveva provocato anche manifestazioni di piazza. La decisione di Boris Johnson era stata considerata dalle opposizioni un bavaglio per coloro che si opponevano ad un’uscita “no deal” dall’UE, cioè senza un accordo. Johnson aveva evocato questa ipotesi in continuazione, nelle ultime settimane, come se fosse una minaccia verso chi non era d’accordo con la sua politica, che d’altro canto, fino a ieri, non consisteva in nessuna proposta alternativa da presentare a Bruxelles, in sostituzione dell’accordo negoziato da Theresa May ed approvato dal governo.  Ora la Corte Suprema ha sentenziato che “gli effetti sulla nostra democrazia sono stati estremi” ed ha aggiunto che il Parlamento è da considerarsi aperto. John Bercow, lo speaker della Camera dei Comuni, allora, ha immediatamente riconvocato tutti i deputati con una certa difficoltà, perché per esempio, i laburisti sono convocati a Brighton per la convenzione annuale del partito che terminerà oggi. La cosiddetta “prorogation” del Parlamento si è dunque rivelata un boomerang clamoroso per Johnson, che vede traballare la sua posizione. Fino a ieri ha detto di non volersi dimettere, ma dopo la sentenza di oggi, la sua posizione sembra essersi aggravata, poiché in teoria con il suo gesto avrebbe ingannato persino la Regina che ha controfirmato la sospensione. La gravità della cosa è data dal fatto che la Regina ha firmato un provvedimento illegale, cosa mai avvenuta prima. La Regina ha compiuto un atto riprovevole, ma la responsabilità risale al premier che con la sua testarda determinazione ha coinvolto anche l’indiretta responsabilità della Regina nella firma di un atto “illegale, nullo e privo di effetti” – dice la Corte Suprema. A Jeremy Corbyn, leader laburista, non pareva vero! Gli si offriva su di un piatto d’argento l’ennesimo motivo per chiedere le dimissioni di Johnson, assente da Londra perché impegnato a New York per l’Assemblea generale dell’Onu. Ma Johnson non mollerà la presa, nonostante il durissimo colpo ricevuto. Non rischia l’arresto per questo tipo di illegalità. Lo rischierebbe, invece, se ignorasse la legge anti “No Deal” approvata dal Parlamento, anche se a parole Johnson ha più volte affermato che non l’avrebbe rispettata se impediva di uscire alla data prevista del 31 ottobre. Quali carte potrebbe eventualmente giocare ancora? C’è chi dice che a questo punto potrebbe decidere di andare ad elezioni anticipate, dopo la storica decisione presa dalla Corte Suprema in difesa della democrazia britannica. Ma c’è il tempo necessario per l’organizzazione delle elezioni e lo svolgimento della campagna elettorale prima del 31 ottobre? Non abbiamo la risposta corretta, ma abbiamo un convincimento preciso: la premiership di Johnson è stata un disastro e la Brexit non ha ancora terminato d’offrirci il suo ultimo thriller.

  • La Brexit è sempre per aria mentre il giorno del ritiro si avvicina

    La Corte Suprema di Londra è riunita per decidere se la chiusura del Parlamento è legale, viste le incombenze che dovrebbero essere prese entro il 31 ottobre, data concordata tra RU e UE come termine ultimo per l’uscita. Il Parlamento ha votato una legge che vieta un’uscita senza accordo sul dopo.  Johnson continua ad affermare che l’uscita avverrà il 31 ottobre, con o senza “no deal”.  Ci si attendeva che lunedì scorso a Lussemburgo Johnson presentasse a Junker, ancora in carica come presidente della Commissione europea fino al 31 ottobre, le nuove proposte d’accordo che superassero quelle stabilite da Theresa May, sempre respinte dal Parlamento. Ma in realtà l’incontro di Lussemburgo è stato inutile perché Johnson non ha presentato proposte alternative e si è limitato a ripetere le cose che ripete da mesi: il 31 ottobre usciremo, con o senza accordo, la questione della frontiera tra Irlanda del Nord e Repubblica d’Irlanda deve essere risolta senza nuovi agganci con l’unione doganale europea, la responsabilità del non accordo sarà dell’Unione europea, ecc. Una risposta indiretta l’ha espressa il presidente Junker arrivando alla colazione di lavoro con il premier britannico a Lussemburgo, accompagnato dal capo delegazione della Ue per la Brexit Michel Barnier: “L’Europa non perde mai la pazienza”- ha affermato. E a Strasburgo, alla plenaria del Parlamento europeo di oggi  (18 settembre n.d.r.)ha aggiunto: “Il rischio di un “no deal” è reale e permane. “Magari – ha detto – il ‘no deal’ alla fine sarà la scelta del governo britannico, ma non sarà mai la scelta dell’Ue. Un accordo è sempre auspicabile e possibile”. “La scadenza del 31 ottobre si avvicina a grandi passi, e abbiamo di fronte a noi più incertezza, non meno. Questa situazione piuttosto cupa non ci deve distrarre: la nostra priorità resta avere un ritiro ordinato e spero che riusciremo ad averlo”, lo afferma Tytti Tuppurainen, ministro per gli Affari europei della Finlandia, Paese che attualmente ha la presidenza semestrale di turno dell’UE, intervenendo nella seduta plenaria del Parlamento europeo a Strasburgo. “In Gran Bretagna – continua la Tuppurainen – le opinioni restano divise. Solo il fermo rifiuto di un’uscita senza accordo ha aggregato una maggioranza. Malgrado ciò il governo britannico continua ad insistere sulle sue linee rosse, senza proporre soluzioni chiare alternative, per quanto riguarda le questioni più complicate, come il confine irlandese”. Johnson intanto continua ad aggrapparsi ad un unico ritornello, la promessa di portare a compimento la Brexit il 31 ottobre senza altri rinvii, a dispetto della legge anti “no deal”. Ma insiste anche a dire di volere una nuova intesa di divorzio con Bruxelles, senza “back stop” sul confine irlandese. Ma a giudicare dall’esito del suo deludente incontro a Lussemburgo con Jean-Claude Junker, ci sembra difficile raggiungere questo obiettivo. Johnson comunque sembra sperare in un aiuto di Angela Merkel, cancelliera di una Germania dove il mondo del business teme fortemente lo spettro di una Brexit dura e pesante, quasi come buona parte di quello britannico. Per telefono con la Merkel ha concordato l’impegno ad accelerare lo sforzo negoziale dell’ultimo minuto. Si farà in tempo prima del 31 ottobre, o bisognerà allungare ancora i tempi? Se in tre mesi il governo di Boris Johnson non è riuscito (o non ha voluto)a definire nuove proposte di negoziato, ci riuscirà a (o vorrà)  farlo in tre settimane?

  • Il Parlamento inglese sospende i lavori per cinque settimane

    Come era stato annunciato, il governo inglese ha deciso di sospendere i lavori del Parlamento fino al 15 ottobre, permettendo in questo modo al premier Johnson di avere il più ampio margine di manovra sulla Brexit, senza le interferenze dei parlamentari che dall’inizio del mese erano riusciti a ribellarsi alle sue imposizioni. Prima, togliendogli la maggioranza, sia pure di un voto, poi, votando una legge contro il “no deal”. Infine, impedendogli una maggioranza di due terzi per decidere di giungere ad elezioni anticipate. A tutto ciò si è aggiunta la decisione dello Speaker della Camera dei Comuni, John Bercow, di lasciare l’incarico a fine ottobre, come segno di dissenso nei confronti della politica distruttiva di Johnson. Cosa è possibile fare, dunque, in questa confusa e caotica situazione? Essendoci una legge che impedisce a Johnson di fare un “no deal” (di cui Johnson potrebbe non tenere conto) e non essendoci la maggioranza necessaria per indire nuove elezioni prima della scadenza della proroga per la Brexit, cioè il 31 ottobre, a Johnson non rimangono che due scelte: o negoziare un nuovo accordo con l’Unione europea, o chiedere l’estensione dell’art. 50 per una proroga che vada oltre la fine di ottobre. Johnson è contrario ad entrambe le ipotesi, ma essendo costretto dalla realtà a dover scegliere, egli preferirebbe la prima scelta, cioè l’apertura di un nuovo negoziato con l’UE per il raggiungimento di un accordo che superi quello stabilito con Theresa May e bocciato per ben tre volte dal Parlamento. Non a caso, ieri a Dublino in visita ufficiale, ha dichiarato inaspettatamente che la soluzione “no deal” sarebbe un fallimento. Fino al giorno prima il non accordo era uno sbocco inevitabile, una soluzione da perseguire se si voleva l’uscita dall’UE. I tre rifiuti parlamentari all’accordo raggiunto dalla May non esprimevano, forse, la volontà di una rottura netta con i legami europei? O erano soltanto un no netto al Primo ministro? I lavori del negoziato erano durati tre anni, a testimonianza dell’accuratezza con la quale entrambi i negoziatori avevano affrontato i punti dirimenti causati dall’uscita. Lo stesso punto relativo al confine tra l’Irlanda del Nord e la Repubblica d’Irlanda era stato affrontato nella preoccupazione di non creare una frontiera rigida. E l’accordo fu concluso proprio sull’accettazione provvisoria di una frontiera leggera, aperta, che non richiedesse il ripristino di una dogana, soluzione che fu respinta sempre dai Brexiteers. Come mai ora, a tempo quasi scaduto, si riparla di rinegoziare e si invia a Bruxelles, con il Parlamento chiuso per ferie, un interlocutore ufficioso per saggiare la possibilità di una riapertura delle trattative? E’ la forza delle cose concrete che spinge Johnson a ritornare sui propri passi, o è un barlume d’intelligenza politica che mostra in modo lampante l’eventuale fallimento del “no deal”? Comunque sia, soltanto a cose avvenute si può comprendere meglio le ragioni della May che non ha esitato a diventare il capro espiatorio di un accordo che probabilmente era il migliore che si potesse ottenere in quei frangenti, senza venir meno ai sacrosanti principi della sovranità e dell’indipendenza, nel rispetto della volontà degli inglesi espressa dai risultati del referendum del 2016.  Ora non si parla più della frontiera tra le due Irlande, ma di quella del canale che divide l’isola irlandese da quella inglese. La May non poteva sostenere questa proposta perché il partito nordirlandese Dup che le garantiva la maggioranza, non era d’accordo. Che ora si riparli della cosa dimostra che la May aveva visto bene e che il dissenso dimostratogli non poggiava su soluzioni alternative. Era un NO e basta. Riuscirà Johnson a evitare tutti gli scogli e a navigare in acque sicure per l’uscita? E’ ancora presto per dirlo, ma la dichiarazione rilasciata dal Premier a Dublino segna una svolta, non risolutiva ma almeno che tiene conto della realtà difficile e controversa della Brexit. Il vero problema – come afferma Paola Peduzzi su Il Foglio del 10 ottobre – non era la May, ma la Brexit stessa. A noi pare una verità sacrosanta.

  • Con Boris Johnson la Brexit diventa un rebus

    L’ipotesi più probabile è che l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea avvenga il 31 ottobre senza nessun accordo per il dopo (no deal). Boris Johnson, il primo ministro, punta a questa soluzione, pur di mettere la parola fine alla Brexit, che da tre anni infierisce sulla politica britannica, contando le dimissioni di due primi ministri e di numerosi ministri, senza, per ora, cavare un ragno dal buco. L’accordo raggiunto infatti da Theresa May con l’UE è stato respinto tre volte dal parlamento e l’attuale governo insiste per modificarlo entro la fine d’ottobre, non si sa bene se è perché ci crede o se ne fa finta, tanto per prender tempo. Il pomo della discordia è rappresentato dal confine dell’Irlanda del Nord con la Repubblica d’Irlanda. Nell’accordo con la May, l’UE garantirebbe un confine aperto, senza dogane, in attesa di trovare una soluzione definitiva comune con il R.U. dopo la sua uscita dall’Europa. Ma è proprio su questo tema che si sono scatenati i fautori della Brexit. Nessun legame, sia pure provvisorio, con l’Unione doganale europea. L’uscita deve essere netta, senza addentellati, sia pure provvisori, con le strutture dell’UE. L’atteggiamento di rifiuto del Primo ministro Johnson e la sua richiesta di un nuovo accordo sembrano provocatori. Come è possibile in due o tre settimane raggiungere un risultato che non è stato possibile raggiungere in tre anni di negoziati? Non a caso l’opposizione chiede una nuova proroga fino al gennaio dell’anno prossimo. Ma Johnson è irremovibile. Non solo ne ha fatto un’altra delle sue, chiudendo il Parlamento per cinque settimane, in modo da impedire dibattiti che potrebbero, forse, modificare la situazione; non solo ha perso la maggioranza, per un voto, sulla quale si reggeva il suo governo; non solo ha dovuto subire una legge che vieta un’uscita “no deal” dell’UE¸ non solo ha subito le dimissioni del ministro del Lavoro, Amber Rudd, una Tory moderata, che non condivideva le sue posizioni radicali, ma ha rimpiazzato seduta stante la dimissionaria e minaccia inutilmente elezioni anticipate da effettuarsi in ottobre, prima dell’uscita preventivata. Diciamo inutilmente perché i due terzi dei voti necessari per giungere alle elezioni Johnson se li sogna. Non esiste questa maggioranza in Parlamento e la minaccia fa parte di un inutile ricatto teso a confermare che in caso di elezioni lui ne uscirebbe vittorioso. È di ieri, infatti, il risultato di un sondaggio promosso dall’istituto YouGov che dà ai Conservatori il 35%  dei voti, con 14 punti di scarto sul Labour di Corbyn, indicato in calo al 21%, con i LibDem al 19% e il Brexit Party di Farage al 12%. Nessuna elezione in vista, quindi, e corsa verso l’uscita senza accordo. Il “no deal”, tanto temuto dal mondo economico e finanziario, potrebbe diventare realtà e rappresentare la scelta definitiva di Johnson per realizzare la Brexit. Le conseguenze di un’uscita senza accordo coinvolgerebbero anche i Paesi dell’UE con i quali il Regno Unito ha intensi rapporti commerciali, ma è indubbio che le conseguenze peggiori le subirebbe la Gran Bretagna, nonostante le offerte del presidente americano Trump per accordi commerciali privilegiati tra Usa e RU. La situazione è ingarbugliata, non c’è dubbio, e la politica del Primo ministro Johnson non tende a sbrogliarla, anzi! I britannici devono ringraziare i 92 mila iscritti al partito conservatore, responsabili della sua nomina in sostituzione di Theresa May, 92 mila contro 66 milioni di britannici. 92 mila che rappresentano il popolo sovrano. E’ certo comunque che questo tipo di sovranità lascia molto a desiderare e le conseguenze della sua scelta sono subite da una stragrande maggioranza di cittadini. E’ una sovranità che, mutatis mutandi, assomiglia un po’ a quella recentemente espressasi in Italia, con 79 mila cittadini “grillini” che hanno dato il via libera, tramite un voto elettronico, al governo Pd/M5s (79mila contro 60 milioni di cittadini italiani). Le rassomiglianze non finiscono qui. L’Italia ha scelto come prima forza politica un movimento fondato da un teatrante comico. Il Regno Unito ha scelto come Primo ministro un personaggio considerato da molti un guitto, un clown, capace di decisioni spassose e bizzarre. Dipenderà anche da questo se la situazione politica nei due Paesi si trova in uno stato confusionale?

  • Boris Johnson verso il “no deal”

    Boris Johnson, il nuovo premier del Regno Unito, ne spara una al giorno. Probabilmente sa che le sue sparate non vengono accolte, ma non rinuncia a lanciarle. La stampa ne parla e il suo nome figura in prima pagina dei giornali. Ieri ha ancora attaccato la May, dicendo per l’ennesima volta che l’accordo per l’uscita dall’Unione europea da lei sottoscritto è il peggiore che si potesse immaginare. Sarebbe facile ricordargli che Bruxelles, invece, con il suo capo negoziatore in testa, Mchel Barnier, continua a dichiarare che l’accordo non sarà rivisto e che, dato il contesto ed i problemi ad esso collegati, l’accordo risulta quanto di meglio è stato possibile convenire. E’ la stessa opinione più volte espressa dalla May. Sarebbe veramente un’ironia atroce se, a seguito della politica fallimentare di Johnson, fondata sulle proposte irrealizzabili di un premier che le spara grosse, col tempo si giungesse a riconoscere che effettivamente l’accordo May ora respinto, risultasse il minor male per l’uscita, molto minor male rispetto a quello che potrebbe provocare al Regno Unito un’uscita senza accordo. Nella proposta di ieri Johnson rifiuta per l’ennesima volta il cosiddetto backstop sui confini irlandesi, senza suggerirne un altro. Anche il ritardo del pagamento dei 39 miliardi di sterline dovuti da Londra all’UE contribuisce a creare nervosismo e a rendere il premierato un’occasione di ulteriore contrasto all’interno dei Conservatori e in generale nella politica britannica, perché questi atteggiamenti non meditati e queste proposte che non saranno accettate portano direttamente ad un’uscita “no deal”, non voluta da larga parte dei Conservatori e rifiutata anche dall’opposizione laburista. Il 31 ottobre si avvicina celermente ed è ancor più vicino se si considera che la politica inglese s’arresta un mese per le ferie estive. A ciò si deve aggiungere che sono pochi quelli che credono all’età dell’oro preannunciata da Johnson con l’uscita dall’UE e alla realizzazione di una nuova politica commerciale favorevole al Regno Unito dopo l’uscita dall’Unione doganale con l’Europa. Le sparate, le battute, le promesse dorate del nuovo premier non incantano nessuno, probabilmente nemmeno quelli che lo hanno scelto come leader dei Tory. Ma è brillante, dicono molti osservatori, e la sua estrosità verbale, oltre che comportamentale, riesce ad affascinare molti elettori. Dopo aver annunciato che in caso di nuove elezioni interne riuscirebbe a battere Corbyn, i sondaggi gli hanno conferito dieci punti in più. E un leader che riesce a far risalire i sondaggi in casa Tory, dopo la batosta elettorale delle elezioni europee, non è da disprezzare. Sembra che i voti in più gli siano venuti dal partito Brexit di Nigel Farage, che ha raccolto, non dimentichiamolo, 29 seggi al Parlamento Europeo. Intanto il premier sta preparando una campagna pubblicitaria di 100 milioni di sterline, probabilmente per abituare gli inglesi all’idea del “no deal”. Il ministro degli Esteri pensa che poi sarà più facile trattare con gli europei. Molti conservatori invece ritengono che il caos non potrà portare buoni frutti e che bisognerebbe fare quanto è possibile proprio per evitare il “no deal”. Nessuno però dice in che cosa consisterebbe questo “quanto è possibile”. Mentre gli amici della May ritengono che esso consiste nell’accordo da lei sottoscritto. Andremo incontro a mesi difficili, anche dopo aver risolto definitivamente, entro il 31 ottobre, le procedure previste per l’entrata in funzione ufficiale della nuova Commissione europea. L’Unione non potrà prorogare ulteriormente le sue riforme in attesa che Johnson compia i suoi miracoli. E se Johnson uscirà, come ha promesso, entro il 31 ottobre, i parlamentari europei del Regno unito dovranno abbandonare l’aula di Strasburgo e i loro 73 seggi verranno distribuiti fra gli aventi diritto. Ma sarà così? C’è chi scommette su altri avvenimenti che dovrebbero animare la politica inglese con le elezioni anticipate e con lo scontro definitivo tra Johnson e Corbyn. Ne sapremo di più dopo le vacanze.

  • Boris Johnson nuovo Premier del Regno Unito

    L’ultra della Brexit – come lo definisce “Il Sole 24 Ore” – ce l’ha fatta. La sua vittoria era prevista e la sua elezione non ha sollevato entusiasmi. E’ riuscito con il doppio dei voti rispetto al suo concorrente, l’attuale ministro degli Esteri Jeremy Hunt. Boris Johnson, 55 anni, allievo delle migliori scuole britanniche riservate alle élites, storico, giornalista, considerato “un gigante” dai suoi e “un clown” dai suoi detrattori,  sarà il nuovo leader dei Conservatori e il nuovo Primo Ministro britannico. Il suo bacino elettorale era rappresentato dai 160 mila iscritti al partito conservatore. La democrazia britannica! – si dice con ammirazione. Nella realtà, 160 mila Conservatori hanno scelto chi dovrà governare 66 milioni di cittadini. Lo smisurato rapporto dovrebbe far riflettere. Ma la democrazia britannica, altro mito inestinguibile, assicura stabilità al sistema e fiducia dei cittadini nelle istituzioni. L’elezione di Johnson, tuttavia, qualche perplessità la solleva. La sua vita privata, le acconciature della sua bionda chioma, il suo abbigliamento stravagante, i suoi svarioni ministeriali, le sue gaffe da ministro degli Esteri, hanno disseminato di chiacchiere i salotti londinesi e di gossip i giornali popolari. Anche la sua carriera è stata variegata e zigzagante: dal giornalismo, dove ha conosciuto licenziamenti e critiche feroci per la sua scorrettezza professionale, è passato alla politica. E’ diventato deputato conservatore nel 2001; tre anni dopo è stato licenziato come vicepresidente del partito da Michael Howard, allora leader Tory, per aver mentito su una relazione etra-coniugale e la nascita di una figlia illegittima. La sua disordinata vita personale non lo ha però danneggiato e nel 2008 è stato eletto sindaco di Londra e riconfermato per un secondo mandato nel 2012. Fu in questo periodo che la sua popolarità raggiunse alti livelli. Rieletto deputato nel 2015, è diventato ministro senza portafoglio nel secondo governo Cameron. Nel corso della campagna per il referendum del 2016 si è schierato a favore della Brexit e ha condotto una feroce campagna anti UE, paragonandola addirittura alla Germania nazional-socialista. Ha raccontato menzogne sui versamenti di Londra al bilancio dell’Unione e queste sue false notizie hanno certamente contribuito al successo della Brexit. Non ha dato tregua alla nuova leader Theresa May dopo le dimissioni di Cameron e si è dimesso egli stesso da ministro degli Esteri nel luglio del 2018, perché in disaccordo con il governo in ordine agli accordi negoziati con Bruxelles per l’uscita del Regno Unito dall’UE. L’accordo fu respinto per ben tre volte dal parlamento e nell’impossibilità di trovare altre soluzioni accettabili, la May è giunta alla sue dimissioni, avendo però sempre respinto l’ipotesi di una uscita no deal, senza accordo, ritenendola disastrosa. Ed è già storia di oggi. Johnson, al posto lasciato libero dalla May, si ritrova con gli stessi problemi e di fronte alle stesse scelte: uscire con o senza accordo? Rinegoziare o no l’accordo raggiunto dalla May? L’Europa non vuole rinegoziare, ma la nuova presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, ha dichiarato la sua disponibilità a concedere una nuova eventuale proroga al governo britannico, al di là del 31 ottobre, concordato con la May. Johnson dovrà vedersela con la questione che ha già bruciato due capi di governo e 43 fra ministri e sottosegretari. Ha davanti a sé cento giorni per sciogliere il nodo dell’uscita del Regno Unito dall’Unione europea. Ed un primo segnale l’ha dato ieri l’altro il cancelliere dello Scacchiere Philip Hammond, in diretta da una rete televisiva, annunciando la sue dimissioni. Domani, mercoledì, egli lascerà l’incarico di ministro delle Finanze, in totale disaccordo con la prospettiva di un’uscita no deal, che a suo parere sarebbe invece accettata dal nuovo premier, il quale ritiene che la scadenza del 31 ottobre è decisiva; ne va della tenuta delle istituzioni e dell’intero sistema politico, se non verrà rispettata – ha dichiarato. Entro quella data, per evitare il peggio, si dovrebbe anche trovare un’intesa sul back-stop, al fine di non creare un confine duro tra la Repubblica d’Irlanda e l’Irlanda del Nord, tema questo che non ha trovato d’accordo i negoziatori di Theresa May e quelli europei. Ci sarà il tempo per fare in poco tempo ciò che non è riuscito in tre anni? Anche sul fronte dell’opposizione, nel Labour di Jeremy Corbyn si intravvedono novità. Corbyn, la cui ambiguità con le soluzioni della May sono da considerare magistrali, ha scritto in una lettera indirizzata agli iscritti del suo partito che sarà opportuno sottomettere a referendum i risultati, qualunque essi siano, a cui giungerà il capo del governo Johnson entro il 31 ottobre. E’ normale che sia il popolo a decidere in definitiva! Molti osservatori, però, non sono rimasti convinti da questa progettata iniziativa, Ritengono invece che la proposta serva ancora una volta a mascherare ciò che vuole veramente il partito laburista, ammesso che voglia veramente una soluzione rispetto ad un’altra. La leadership di Corbyn, tra l’altro, è stata scalfita da una lettera firmata da 65 lord laburisti e a lui indirizzata, in cui si denuncia la sua indisponibilità ad esercitare la sua funzione di leadership nei confronti di dirigenti del Labour che praticano l’antisemitismo. Non si dice apertamente che anche Corbyn è un antisemita, ma ci si appella alla sua negligenza nei confronti di chi lo è, per dichiarare menomata la sua leadership. Non è un’accusa da poco, ma temiamo che per il momento nulla verrà a modificare l’equilibrio di potere all’interno del Labour prima che si giunga ad eventuali elezioni anticipate. Noi ci meravigliamo, in negativo, di come le cose politiche vanno in Italia. Certamente non c’è da consolarsi di come le cose vanno anche in Inghilterra, la patria della democrazia per eccellenza, se le eccellenze politiche odierne rispondono al nome di Johnson e di Corbyn.

     

  • Johnson e Hunt: i due candidati finali alla leadership del Regno Unito

    Dei dieci candidati che si erano proposti per la leadership nel partito conservatore britannico oggi ne restano due: l’ex sindaco di Londra e hard Brexiter Boris Johnson e l’attuale ministro degli Esteri Jeremy Hunt. La procedura delle elezioni per giungere ai due nomi del ballottaggio finale è terminata venerdì scorso, con un colpo disonesto e sleale che ha messo fuori gioco per un paio di voti Michael Gove, considerato fino a quel momento il candidato numero due. Gli amici di Johnson infatti avrebbero portato qualche voto a Hunt, facendolo prevalere su Gove, ritenendo quest’ultimo poco malleabile e non coincidente con la politica di Johnson. Gove, infatti, che è un ex suo grande amico, ha già fatto capire a tutti che se Boris verrà eletto primo ministro sarà sua compito perseguitarlo. Se questi sono gli obiettivi dei colleghi del futuro primo ministro non c’è da meravigliarsi che il partito conservatore sia sceso alla soglia del 9% dei voti e non ci si dovrà meravigliare neppure se il popolo britannico continuerà a dimenticarsi di lui. Il nome del vincitore si conoscerà soltanto dopo il 22 luglio, quando i 140 mila (alcuni giornali dicono 160 mila) iscritti al partito conservatore avranno votato. Gli osservatori puntano su Boris Johnson, ex sindaco di Londra, ex ministro del Esteri, tra i maggiori oppositori di Theresa May, uno dei personaggi più controversi della politica inglese. Chi lo ammira, apprezza il suo humour dissacrante, il suo carisma e le sue conoscenze ottenute anche studiando nelle migliori scuole dei Regno Unito. Chi lo disprezza, condanna le sue gaffe, il suo atteggiamento elitario, i suoi commenti razzisti e le sue bugie, come quando, durante la campagna elettorale del 2016 ha ripetuto che il Regno Unito inviava ogni settimana all’Unione europea 350 milioni di sterline, un’affermazione falsa per la quale è stato costretto a presentarsi in tribunale con l’accusa di cattiva condotta. Ma per molti ammiratori queste tendenze negative sono bazzecole, se continuano a votarlo, come lo ha votato fino ad ora anche la maggioranza dei parlamentari del suo partito. Non si lasciano impressionare nemmeno dalla notizia circolata sabato, di suoi vicini di casa che hanno chiamato la polizia perché sentivano urla provenire dal suo appartamento e rumore di stoviglie rotte. Un candidato alla guida del governo che malmena la donna con la quale convive non è una notizia di tutti i giorni, così come non è normale che lo stesso candidato non faccia sapere quanti figli ha. Quattro sono nati dal primo matrimonio, ma ne circolano altri due, non confermati dall’interessato, che si giustifica con il diritto alla privacy, nati al di fuori del matrimonio. Diciamo che è un personaggio un po’ chiacchierato, insomma! Nato a New York nel giugno del 1964 da genitori inglesi, trascorre l’infanzia negli Usa e si trasferisce in seguito, prima a Bruxelles e poi in Inghilterra a Eton, uno dei college più rinomati al mondo, frequentato anche dai membri della famiglia reale e dall’aristocrazia. Si laurea a Oxford e inizia a lavorare al Times. Fu licenziato nel 1988 perché redasse una notizia scorretta e assunto al Daily Telegraph, divenendone corrispondente da Bruxelles, dove si face notare per i suoi articoli fortemente euroscettici e critici nei confronti dell’allora presidente della Commissione europea Jacques Delors. Iniziò la carriera politica nel 2001, nel 2008 divenne sindaco di Londra e nel 2016 ministro degli Esteri tra le perplessità degli osservatori e degli stessi suoi colleghi di partito. Si è dimesso nel 2018 in segno di protesta contro il piano della Brexit presentato da Theresa May. Da allora è diventato uno degli esponenti più accaniti della hard Brexit, continuando ad attaccare le premier e collezionando figuracce. L’ultima si riferisce a qualche giorno fa, quando su internet è circolata la foto della sua automobile piena di cartoni di cibo vuoti, abiti sporchi, briciole di cibo e fogli sparsi. Ciò nonostante, nelle votazioni per la leadership ha sempre avuto la maggioranza dei voti rispetto ai suoi colleghi, non chiacchierati, senza scandali.

    Il secondo candidato, Jeremy Hunt, attuale ministro degli Affari Esteri, che ha sostituito il dimissionario Boris Johnson, è nato nel 1966. Sa parlare giapponese, ha una moglie cinese di dieci anni più giovane, una laurea a Oxford e prima di entrare in politica, nel 2005, ha fatto l’imprenditore e l’insegnante di lingua inglese all’estero. Nel 2001 venne nominato ministro della Cultura, dello Sport e dei Media, dopo essere stato ministro ombra per la disabilità. Divenne famoso tra gli sportivi perché raddoppiò il budget per la Olimpiadi di Londra del 2012, passando da 40 a 81 milioni di sterline. Nel settembre dello stesso anno venne nominato ministro della Sanità e rimase in carica fino al 2018, quando successe a Johnson agli Esteri. Non ha mai avuto grandi scandali, ma nel 2009 fu costretto restituire 9500 sterline dopo essere stato accusato di aver violato alcune norme sulle spese e i fondi dei politici. Fu in seguito coinvolto nell’inchiesta sulle pratiche scorrette adottate da alcuni media, per i suoi contatti troppo ravvicinati con la famiglia Murdoch. Infine venne molto criticato quando disse che i turni serali e di sabato dei giovani medici non sarebbero più stati considerati straordinari. E i medici scioperarono contro questa decisione. Hunt è considerato più moderato di Johnson, ma ha avuto una espressione molto infelice quando ha dichiarato che l’UE ha adottato tattiche simili a quelle della Russia sovietica durante i negoziati sulla Brexit. Molti politici si sono infuriati e Hunt fu costretto a ritrattare e a scusarsi. Vorrebbe una soft Brexit, ma importante per lui sarebbe il raggiungimento di un buon accordo, piuttosto che uscire il prima possibile, come invece vorrebbe Johnson, che si dice pronto a un no deal. Sarà che la politica europea è un po’ in crisi dappertutto, sarà che anche la democrazia britannica, madre di tutte le democrazie dopo la Grecia, è in crisi, sarà che l’attualità non offre più leader “come quelli di una volta”, sarà come voi giudicate i politici di oggi, ma a noi sembra che le due candidature suscettibili di offrire una leadership al Regno Unito siano molto al di sotto di ciò che il Regno Unito meriterebbe per il contributo da lui offerto alla civiltà occidentale. Ma forse ciò si spiega anche con il declino di quest’ultima.

  • Le prime nomine al Parlamento europeo

    Le riunioni dei nuovi gruppi politici eletti al Parlamento europeo cominciano a dare  i primi frutti. Quello che era il gruppo liberale ALDE, ora trasformatosi in gruppo “Renew Europe” con l’arrivo dei macroniani francesi, ha eletto il suo nuovo presidente nella persona del rumeno Dacian Ciolos, già premier a Bucarest e commissario europeo all’agricoltura. La sua nomina ha però diviso il gruppo. Da un lato i suoi sostenitori, tra cui Macron, dall’altro tutti coloro che non dimenticano le sue vecchie posizioni del 2016 contro il matrimonio tra persone dello stesso sesso e a sostegno della famiglia tradizionale. I malumori riguardanti la nomina del rumeno si concentrerebbero soprattutto nell’ala più legata ai valori liberali dell’ex ALDE, che avrebbero preferito la nomina dello svedese Frederick Federley o dell’olandese Sophie in’t Veld. Che la preferenza per la famiglia tradizionale rappresenti un discrimine, e sostanzialmente un ostacolo per la nomina a responsabilità politiche europee, la dice lunga sulla deriva culturale a cui si è giunti in Europa e addirittura in seno ad un gruppo politico detto liberale fino a ieri, se i suoi dirigenti non possono essere liberi di pensarla come vogliono a proposito di famiglia. Oggi quell’aggettivo qualificativo è stato tolto dalla denominazione del gruppo, pare per decisione di Macron, ma quell’eliminazione potrebbe voler dire “o la pensate così, o potete rinunciare a stare con noi”. Con buona pace della libertà di pensiero!

    Anche il gruppo dei Socialisti e Democratici al Parlamento europeo, secondo gruppo con 153 seggi, ha un nuovo presidente. Si tratta dell’eurodeputata spagnola Iratxe Garcia Perez, che dirigerà il gruppo S&D nella prossima legislatura. E’ la seconda donna a presiederlo in 20 anni, dopo l’ex eurodeputata Pauline Green. E’ stata eletta per acclamazione su proposta del capo delegazione italiano David Sassoli. “Siamo tutti d’accordo – ha dichiarato la nuova presidente  nel suo discorso inaugurale – che dobbiamo fornire ai cittadini risposte solide e innovative in questo momento cruciale per il progetto europeo e per la nostra famiglia politica, la socialdemocrazia europea”. Per la nuova eletta, l’Europa deve riacquistare la sua anima sociale e porre le persone e la lotta contro le disuguaglianze al centro della sua azione politica, “basata su standard sociali che ci portano avanti. Siamo in grado di guidare i cambiamenti necessari – ha continuato la Garcia Perez – per continuare a servire i nostri cittadini, garantire standard sociali equi, guidare la lotta contro il cambiamento climatico, migliorare i diritti del lavoro in un’economia sostenibile e essere un faro di libertà e democrazia nel mondo”.

    Ieri sera intanto, Boris Johnson, favorito nella corsa per diventare premier britannico e leader del partito conservatore, ha partecipato per la prima volta ad un dibattito con i suoi quattro contendenti conservatori. L’ex sindaco di Londra, in grande vantaggio nelle “primarie” dei Tory, non ha commesso gaffe, come gli succede spesso, ma nello stesso tempo non ha brillato per le sue idee e per le convinzioni espresse. L’ultima trovata di Johnson è che l’accordo sulla Brexit di Theresa May con l’UE (respinto per ben tre volte dal Parlamento) in realtà, secondo lui, può essere rinegoziato spostando le discussioni sull’annoso confine irlandese nel periodo di transizione, cioè nelle trattative sulle future relazioni che si dovrebbero tenere dopo l’uscita di Londra dall’UE. Forse Johnson dimentica, o fa finta di dimenticare, che Bruxelles e i 27 Paesi membri dell’UE, non accetteranno mai questo punto, come hanno già detto e fatto capire molte volte in passato. Il futuro dell’Irlanda va negoziato prima, non dopo. Secondo Johnson, poi, c’è un margine di manovra con l’UE prima del 31ottobre, la nuova data limite della Brexit. Ma anche questo è un wishful thinking: pare davvero improbabile che dopo due anni di trattative a vuoto, ora improvvisamente si trovi una soluzione, soprattutto con un euroscettico come Johnson, soluzione mai trovata con una May abbastanza moderata. Tutti pensano però che la sua strategia porti ad un’uscita no deal, con tutte le conseguenze che si temono, soprattutto sull’economia e sul confine irlandese. Il dibattito non è stato chiaro e non ha presentato proposte di soluzioni convincenti, diverse da quelle conosciute all’epoca della May. Pare insomma che i politici conservatori non abbiano fatto una gran bella figura. La novità è rappresentata da Rory Stewart, il più europeista di tutti, che al secondo turno a Westminster è balzato al quarto posto con 37 voti, dietro ai 41 di Gove, ai 46 di Hunt e agli inarrivabili 126 di Johnson. Stewart è però sembrato un candidato che difficilmente arriverà in fondo. Johnson insomma pare non avere rivali e ciò per il futuro del Regno Unito e dell’Europa potrebbe essere una cattiva notizia: con lui il NO DEAL è sempre più probabile.

  • Le dimissioni di Theresa May

    Come annunciato da lei stessa lo scorso 24 maggio, il 7 giugno Theresa May ha rassegnato le dimissioni da leader dei Conservatori inglesi, in una lettera consegnata ai notabili del suo partito. Si è aperta così la corsa alla sua successione, che non sarà facile e tanto meno senza scosse, in un partito dilaniato dalle divisioni sulla Brexit e dalla cocente sconfitta subita nel corso delle elezioni europee, passando dal primo posto ottenuto nelle elezioni politiche del 2017 con il 42,3% dei voti, al quinto posto con il 9,1%. Una sconfitta che lascerà segni incancellabili per molto tempo e che potrà mutare i tradizionali rapporti di forza tra i partiti inglesi, creando instabilità e incertezze a non finire. I candidati alla successione sono circa una decina, il più quotato dei quali, per ora, sarebbe l’ex sindaco di Londra ed ex ministro degli Esteri Boris Johnson, noto come anti UE e sostenitore della Brexit. La sua corsa alla successione incontrerà difficoltà nelle candidature degli attuali ministro dell’Ambiente, Michael Gove e ministro degli Esteri Jeremy Hunt, entrambi più inclini ad un compromesso per evitare una traumatica uscita no deal e per trovare un accordo. Si ripropone, in altri termini, la stessa situazione sulla quale Theresa May andò a sbattere, proprio perché una parte del suo partito, quella rappresentata dai vari Johnson, non accettò mai l’accordo che essa raggiunse con i leader dell’UE. Da qui la paralisi parlamentare che non riuscì a, o non volle mai, esprimere una maggioranza che permettesse di uscire dallo stallo politicamente malsano in cui si era cacciato in opposizione alla May. Anche ora, temiamo, i numeri parlamentari parlano chiaro e non cambieranno: il nuovo leader non avrà in parlamento una maggioranza conservatrice e dovrà trovare alleati al di fuori del suo partito. Anche la May li aveva cercati tra i Laburisti, ma i negoziati con Corbyn non hanno dato frutti. I Laburisti cercano in primis di giungere alle elezioni politiche anticipate, traguardo respinto dai Conservatori, che firmerebbero così il loro atto di morte. Sembrava che l’ostacolo maggiore per smuovere la politica inglese dallo stallo in cui si era cacciata fosse rappresentato dal personaggio della May. Si ha ora la riprova che l’ostacolo principale è sempre la soluzione da dare alla questione Brexit, vale a dire: uscita con o senza accordo. A meno che non si ritorni – ma l’ipotesi sembra da escludere – ad un secondo referendum, dato che le elezioni europee avrebbero permesso di esprimere una maggioranza anti Brexit. Nel frattempo il partito di Nigel Farage, pro Brexit, raccoglie consensi anche in elezioni suppletive, come quelle di Peterborough, nelle Midlands orientali e pretende di essere ammesso al tavolo dei negoziati con l’Europa. Il 22 luglio, data prevista per la fine della procedura in seno ai Tory per la scelta del nuovo leader, sapremo chi sarà il successore della May e come potrebbe orientarsi la ripresa dei negoziati con l’UE. Dopo Cameron, dimessosi in seguito al risultato del referendum del 2016, la vittima più illustre della Brexit è stata la May, coerente fino in fondo per rispettare la volontà espressa dal popolo inglese, sia pure a lieve maggioranza, per uscire dall’Europa, una coerenza che è stata maldestramente confusa con la testardaggine, ma che in realtà è stata un pretesto per combatterla da una parte importante del suo partito, che non ha mai accettato fino in fondo di essere guidata dalla figlia di un pastore di umili origini e proveniente dalla campagna. I lombi dei Tory sono sempre stati più nobili, ma anche per essi è giunto il momento di ricredersi. Se non lo faranno loro ci penseranno gli elettori a ricordarglielo. La May se ne va dopo aver raggiunto un primato: la disoccupazione, con lei al governo, ha raggiunto un minimo storico, al di sotto del 4%. Avessimo questo dato in Italia!

     

  • Lo sbarco in Normandia di 75 anni fa

    Il 6 giugno ricorreva il settantacinquesimo anniversario dello sbarco degli Alleati in Normandia, il leggendario e storico D-day. A Portsmouth, nel sud del Regno Unito, c’era tutto l’Occidente per i festeggiamenti.  Ed accanto ai leader politici c’era una rappresentanza  degli  ultimi veterani rimasti di quel fatidico giorno, tutti ultranovantenni con negli occhi e nel cuore le immagini della più grande operazione di sbarco della storia, iniziata alle 6.30 del mattino del 6 giugno 1944. Nel primo giorno i caduti  furono 4.400 e quasi 8.000 i feriti  fra le forze alleate. Per i tedeschi la stima è di 4-9mila vittime, fra morti e feriti. Fino all’arrivo in agosto dei liberatori a Parigi vi furono 70mila morti fra gli alleati e 200mila fra i tedeschi. In Normandia i combattimenti dello sbarco causarono 20mila morti fra i civili. Nell’operazione gli alleati impegnarono 150mila soldati: americani, britannici, canadesi, francesi e polacchi. Per lo sbarco furono impiegati 3.100 mezzi, provenienti da 1200 navi da guerra. Nel D-day furono anche impiegati 7.500 aerei. I tedeschi  erano dislocati sulle coste della Normandia con 50mila fanti della marina e pochi aerei. Essi erano convinti che lo sbarco sarebbe avvenuto a Calais dove avevano concentrato il grosso delle loro forze.

    “Non dobbiamo dimenticare” – ripetevano i veterani e la regina Elisabetta, anch’essa ultranovantenne, ha detto: “Con umiltà e piacere, dico a nome di tutto il Paese, anzi a nome di tutto il mondo libero: grazie!”. Trump, il leader del mondo libero, ha letto la preghiera rivolta nel 1944 dal presidente americano Franklin Delano Roosevelt ai soldati in partenza. Era il mondo libero riunito contro il nazionalsocialismo. Era una alleanza che dopo la guerra riunì anche la Germania e l’Italia per la difesa e la sicurezza dell’Occidente, contro un’altra terribile dittatura che era rappresentata da Stalin e dal mondo sovietico, al quale si unì quella cinese con Mao Tse.Tung. A Portsmouth c’erano gli eredi politici e militari di quell’avvenimento, che è stato l’espressione di una volontà comune contro la barbarie della dittatura e dei campi di concentramento, che annientavano gli ebrei e gli avversari del regime nazionalsocialista. Era, doveva essere, un giorno di festa. Ma c’era amarezza nell’aria. Era una festa che strideva con quanto era accaduto nei due giorni precedenti a Londra, in occasione della visita ufficiale del presidente americano. Scanzonato e senza tener conto degli elementari principi della diplomazia, ha invitato gli inglesi ad abbandonare senza accordo (no deal) l’Unione europea e offrendo un ipotetico e ottimistico avvenire commerciale al Regno Unito, mettendo zizzania non solo tra le forze politiche britanniche, che con la zizzania convivono da tre anni, ma anche tra i membri e le istituzioni dell’Unione europea, che di zizzania ne divora a josa, da quando ha a che fare con i populismi sovranisti. Seminar zizzania alla vigilia dei festeggiamenti del D day è un modo, non tanto indiretto, di venir meno al riconoscimento della positività rappresentata dal governo americano nell’impegnarsi in una guerra e in un sbarco costato moltissime vite di giovani americani per liberare l’Europa dal giogo nazionalsocialista. Non è tempo di zizzania tra gli Stati Uniti e l’Europa. Libero Trump di sentirsi solo presidente americano e non leader del mondo libero, come lo sono stati i presidenti americani dallo scoppio della seconda guerra mondiale. Il “First America” non dovrebbe diventare anche “Indietro Europa”. Qual è il vantaggio che gli Usa potrebbero ricavare dall’inimicarsi gli europei? La solitudine nel mondo di oggi non gioverebbe nemmeno agli Stati Uniti, come non giova all’Europea e, ancor meno, all’Italia. Nessuno può impedire agli Usa di giocare da soli nel mondo globalizzato. Ci sembra, però, inspiegabile un atteggiamento non amichevole nei confronti dell’Europa. Se tale atteggiamento fosse stato assunto anche negli anni quaranta, non ci sarebbe stato un “D day” e la storia avrebbe preso un’altra piega, certamente meno felice per i popoli europei e meno profittevole e gloriosa per il popolo americano. In fin dei conti, per Trump, essere solo presidente degli Usa e non dell’Occidente, significa una diminutio  che i suoi predecessori non hanno conosciuto. Lasciare che l’Europa se la sbrighi da sola in fatto di difesa e sicurezza è una visione “trumpiana” che non giova a una geopolitica ragionevole e affidabile. Che l’Europa si dia una difesa comune è un’esigenza avvertita ormai da molti leader politici. Ma un conto è provvedere a questo compito, nel quadro delle tradizionali alleanze politiche e militari, e un conto è sentirselo gridare scompostamente dal capo di quella che fino ad ora è ancora una alleanza militare. Questa alleanza è l’Occidente. I tempi cambiano, è vero! Ma la sicurezza è un’esigenza che si manifesta anche nei cambiamenti, i quali più sono razionalmente condotti, più offriranno giovamento agli attori che ne sono i protagonisti.

    Il 6 giugno 1944 è lontano, quel mondo non c’è più. Facciamo in modo che quello di oggi non diventi peggiore di quello d’allora e garantisca uno sviluppo democratico adatto ai tempi nuovi e alle nuove esigenze di sicurezza.

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