In un reportage di novembre il settimanale Sette, del Corriere della Sera, affronta, con articoli e dati, il problema dell’immigrazione in varie aree del Pianeta. Nell’articolo si parla dei 7.000 migranti che dal centro America si affollano presso le frontiere degli Stati Uniti, dei 21.000 entrati in Bosnia da inizio anno, dei 178.000 sfollati maliani e nigeriani ai 164.000 sfollati interni del Niger che hanno lasciato i loro villaggi a causa della violenza, e dei 500 venezuelani che ogni giorno attraversano a piedi i confini per sfuggire alla fame e alla disperazione che ormai da tempo attanaglia un paese che potrebbe ‘essere florido’. A questi dati noi aggiungiamo le decine di migliaia di migranti che hanno già raggiunto il cuore dell’Europa e l’Italia, le migliaia che sono reclusi nei lager libici e le decine di migliaia che vivono in condizioni disumane, da tantissimi anni, nei villaggi e nei campi profughi e pensiamo a coloro che hanno subito e subiscono la guerra in Siria ed il terrorismo islamista in Somalia, solo per fare qualche esempio.
La situazione è drammatica a livello mondiale e la globalizzazione della disperazione e della paura è ormai evidente, le conseguenze saranno drammatiche: territori spopolati ed altri sovraffollati, famiglie distrutte, intelligenze e forza lavoro perdute, intere generazioni decimate, i superstiti delle quali resteranno segnati per sempre da quanto hanno vissuto.
Molte volte abbiamo cercato di proporre ipotesi di lavoro, alle autorità europee ed italiane, per evitare l’espandersi di quel terrorismo che ha impedito la costruzione di sistemi più moderni ed umani sia in termini di governo che di economia e che ha portato alla fuga milioni di persone. Ma le cose dette sono dette e gli errori fatti sono fatti ed oggi non sarà con le recriminazioni e neppure con le battute o i proclami che si potrà affrontare il problema di una emigrazione globalizzata che ripropone quanto nella storia si è già più volte verificato modificando, stravolgendo, culture e modi di vita. Dagli esodi biblici alle conquiste militari della Grecia, dell’Egitto e di Roma, da Alessandro a Cesare, dalle invasioni di barbari, di longobardi e visigoti, dagli unni ai tartari, fino al secolo scorso, siamo stati abituati, di generazione in generazione, a vedere l’invasione di nazioni libere da parte di eserciti che cambiavano in parte il loro modo di vita.
Un detto popolare, e vox popoli è vox dei, diceva viva la Franza viva la Spagna basta cas’ magna, ed in Italia spagnoli, francesi, austriaci sono stati in parte i nuovi Attila, in parte i promotori di nuovo sviluppo culturale e sociale. Per molti anni italiani, spagnoli, portoghesi, irlandesi hanno trovato, in altre nazioni lontane, quelle opportunità che in patria erano state negate e ciascuno di quei migranti ha dovuto lottare contro pregiudizi e difficoltà di accoglienza ed integrazione. Il problema che si pone oggi rimane ancora quello di trovare regole che possano essere immediatamente conosciute e rispettate da chi arriva con la necessità di clausole che portino all’espulsione chi non le rispetta. Queste regole se fossero conosciute prima, anche con i mezzi di comunicazione che ormai raggiungono qualunque paese via internet o via televisione, potrebbero dissuadere molti, che non si sentono di condividerle e di accettarle, a cercare di entrare in Italia, in Europa.
Il divieto alla macellazione rituale, il divieto a coprirsi il volto o ad esercitare per strada le proprie credenze, l’obbligo alla conoscenza della lingua sono solo alcune delle leggi che sarebbe facile promulgare e far applicare ma la verità è, che ancora oggi, manca l’esatta presa di coscienza dell’enormità del problema e la conseguente volontà politica di affrontarlo seriamente.