riforma

  • Il Consiglio Stato respinge il ricorso contro la riforma delle banche popolari

    Il Consiglio di Stato sblocca la riforma delle banche popolari targata governo Renzi che impone a quelle con attivo superiore a 8 miliardi di trasformarsi in società per azioni. Per i giudici di Palazzo Spada il decreto e le successive disposizioni attuative da parte della Banca d’Italia sono legittimi e il modello organizzativo della Spa è “idoneo e necessario per assicurare il celere reperimento di capitale sul mercato, anche al fine di prevenire crisi bancarie”.

    Si chiude così un contenzioso durato anni, finito davanti alla Corte Costituzionale e in sede europea, aperto da alcuni soci che ritenevano – senza successo – la nuova normativa incostituzionale, contestando il venir meno della vocazione mutualistica. Nel frattempo, in seguito al riassetto del sistema, con acquisizioni e fusioni, molte questioni sono venute meno, ma la decisione era particolarmente attesa dalla Popolare di Sondrio, ultimo istituto ad avere mantenuto la forma cooperativa, e che ora potrà diventare società per azioni. Il titolo ha chiuso in rialzo a +0,84%.

    Già la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, cui il Consiglio di Stato aveva girato il quesito, aveva ritenuto legittimo fissare una soglia di attivo oltre la quale le banche sono obbligate a trasformarsi in società per azioni, ma “a condizione che tale normativa sia idonea a garantire la realizzazione degli obiettivi di interesse generale”. A questo principio si è rifatto il Consiglio di Stato. Nelle 156 pagine delle sentenza sella VI Sezione, i giudici evidenziano che la scopo è stato adeguare la forma societaria alle dinamiche del mercato in modo da garantire alle banche “una maggiore competitività, un rafforzamento patrimoniale e di capitalizzazione, nonché una maggiore trasparenza dell’organizzazione, nell’operatività e nella loro funzionalità”: elementi “essenziali” per evitare il dissesto e “l’effetto contagio”. La normativa, secondo il Consiglio di Stato, è “idonea” al perseguimento dell’obiettivo, “dato dal rafforzamento patrimoniale delle banche di grandi dimensioni e, dunque, dalla mitigazione del rischio di una loro crisi, foriera di possibili pregiudizi alla stabilità del sistema finanziario e bancario, oltre che dei settori economici influenzati dalla concessione del credito bancario”. La soglia degli 8 miliardi è ritenuta “ragionevole” e “proporzionata”. A cascata, sono legittime anche tutta una serie di altre disposizioni funzionali: dai poteri attuativi attribuiti a Bankitalia alle modifiche sulle maggioranze per assumere le delibere assembleari.

  • Una riforma volutamente programmata fallita

    L’inganno è nel cuore di chi trama il male.

    Dal libro dei proverbi; 12/20

    Da migliaia di anni gli esseri umani si sono resi conto e, in seguito, sono diventati consapevoli della necessità di avere delle regole per gestire la loro vita in società. Regole che stabilivano i diritti e i doveri di ciascuno nei rapporti con gli altri. L’insieme di quelle regole, chiamate anche legislazioni e/o codici, hanno cercato di mettere ordine e di far rispettare i concetti del diritto e del dovere, delle libertà e degli obblighi in quelle società. Uno dei primi legislatori della storia si ritiene sia stato Zaleuco di Locri, vissuto nel VII secolo a.c. (Locri Epizefiri, città della Magna Grecia, secondo gli storici è stata l’ultima colonia greca in Calabria, n.d.a.). Da documenti scritti, risulterebbe che Strabone, uno dei più noti storici dell’antichità, considerava addirittura che le leggi stabilite da Zaleuco di Locri, riconosciute anche come il suo Codice o legislazione, sono state le prime leggi scritte ed applicate dagli antichi greci stabiliti nella Magna Grecia. Leggi che rispecchiavano anche le esperienze delle altre città dell’antica Grecia. Riferendosi ai documenti storici, risulterebbe che la legislazione di Zaleuco abbia consolidato il buon funzionamento del sistema giuridico, servendo come base per i secoli a venire. Secondo Demostene, noto oratore e politico ateniese, vissuto nel quarto secolo a.c., parte integrante della legislazione di Zaleuco era anche una legge, secondo la quale “…l’abrogazione o la modificazione di una legge poteva essere proposta solo dopo essersi presentati dinnanzi all’assemblea con un laccio al collo che, in caso di rifiuto della proposta, sarebbe diventato strumento di morte per il proponente”. L’esistenza di questa legge la confermerebbe anche lo storico Polibio, vissuto nel secondo secolo a.c. Secondo documenti storici, che si riferiscono a Polibio, risulterebbe che egli abbia affermato che “… nel caso in cui, rispetto all’interpretazione di un decreto, magistrato e cittadino presentassero opinioni differenti, dovrebbero entrambi presentarsi davanti all’assemblea cittadina, indossando un laccio che sarebbe poi stato stretto attorno al collo di colui la cui interpretazione si sarebbe rivelata errata”. Un obbligo, quello proposto da Zaleuco di Locri, che evidenziava l’esigenza della massima responsabilità, sia dei legislatori che proponevano, abrogavano e modificavano le leggi, che dei giudici che le interpretavano quelle leggi e dei cittadini che pretendevano i loro diritti.

    Nel corso dei secoli tutte quelle regole e leggi, proposte ed attuate nell’antichità, ovviamente sono state modificate e adattate alle realtà vissute in varie parti del mondo e secondo la forma dell’organizzazione [statale] delle società. Ma una cosa deve essere riconosciuta a quelle regole e leggi, traendo anche i dovuti insegnamenti. E cioè l’imparzialità nel giudicare il colpevole e nel condannare in base alle responsabilità riconosciute. Secondo alcune testimonianze tramandate da secoli, risulterebbe che anche Zaleuco di Locri si sia tolto un occhio per non far togliere tutti e due al figlio, colto in flagranza mentre stava commettendo adulterio. Perché chi infrangeva le regole doveva essere condannato, chiunque esso fosse! Un ottimo insegnamento per tutti i tempi, anche per questi in cui viviamo!

    Insegnamento che purtroppo rimane del tutto ignorato, deriso e inapplicabile in Albania. Perché coloro che infrangono per primi le regole sono proprio quelli che hanno il dovere di rispettarle, compresi legislatori, governanti e giudici. Sono innumerevoli le testimonianze che, senza ombra di dubbio, confermerebbero e dimostrerebbero questa realtà, dati e fatti accaduti quotidianamente e pubblicamente noti alla mano. Sono veramente tanti gli scandali e gli abusi che danneggiano la cosa pubblica, ma che, purtroppo, “sfuggono” all’obbligatoria attenzione delle diverse istituzioni del sistema “riformato” della giustizia in Albania. E non poteva essere altrimenti. Perché gli “strateghi” della riforma del sistema di giustizia avevano ideato proprio una riforma che doveva servire per raggiungere un preciso e ben concepito obiettivo: quello di costituire un sistema “riformato” di giustizia, che doveva ubbidire ai governanti e ai legislatori, a scapito dei cittadini, della comunità e della cosa pubblica. Una “riforma” che doveva permettere al primo ministro di controllare personalmente e/o da chi per lui, tutto il sistema della giustizia, e a tutti i livelli.

    Da quando, nel dicembre 2015, è stato presentato pubblicamente per la prima volta il contenuto della Riforma del sistema della giustizia, si era capito subito che quella riforma mirava la messa sotto controllo del sistema. Obiettivo che, soltanto sulla carta, prevedeva e garantiva la totale indipendenza istituzionale del sistema della giustizia dalla politica. Allora il primo ministro, la propaganda governativa e molti “opinionisti assoldati” hanno cercato di convincere l’opinione pubblica sulla bontà dell’obiettivo strategico della “Riforma”. A loro si sono uniti, determinati e perentori, i soliti “rappresentanti internazionali”, spesso infrangendo anche quanto previsto dalla Convenzione di Vienna sulle relazioni diplomatiche. Sono stati proprio quei “rappresentanti internazionali” che hanno dato delle convincenti ragioni e dei solidi argomenti sulla necessità dell’avvio della Riforma del sistema di giustizia in Albania. Loro si sono presentati al pubblico come i credibili garanti di tutto il processo e della bontà della Riforma, una volta approvata e attuata. Poi, nell’arco di pochi anni, si verificò e continua quotidianamente a verificarsi che, purtroppo, tutto era stato ideato, voluto, programmato ed attuato in modo tale da permettere la realizzazione dell’obiettivo posto da prima che la “Riforma” stessa avesse inizio ufficialmente. E cioè di fare una “Riforma” per controllare il sistema, proprio dalla politica, il che significa dal primo ministro e/o da chi per lui, compromettendo seriamente l’indipendenza del sistema della giustizia dagli altri due poteri dello Stato e/o da altre istituzioni. Quanto è accaduto e sta accadendo dal 2016 ad oggi, dati e fatti accaduti e denunciati alla mano, dimostrerebbe proprio questa realtà pericolosa e seriamente preoccupante. Realtà che testimonia la restaurazione e il consolidamento di una nuova dittatura in Albania, gestita da un’alleanza, ormai operativa, tra il potere politico, la criminalità organizzata e certi clan occulti locali ed internazionali.

    In una simile pericolosa e preoccupante realtà, il sistema “riformato” di giustizia si è sottomesso ubbidiente agli ordini dei “potenti”. Dimostrando così, palesemente, la realizzazione del vero obiettivo della Riforma”. Sono tante, ma veramente tante le evidenze che testimonierebbero la cattura ed il controllo del sistema di giustizia in Albania. Mentre i “rappresentanti internazionali” continuano a parlare ancora di “successi”! Chissà perché?! Nel frattempo però, da circa tre anni ormai, non funzionano la Corte Costituizionale e la Corte Suprema. Il che significa “mani libere” per tutti coloro che vogliono infrangere le leggi. Proprio quelle leggi approvate e/o modificate da coloro che adesso le ignorano. E si sa benissimo e pubblicamente chi sono.

    Chi scrive queste righe è convinto che la “Riforma” della giustizia in Albania è stata volutamente programmata perché fallisse da coloro che gestiscono la cosa pubblica. Di tutto ciò egli ha spesso informato il nostro lettore. E continuerà a farlo, considerando il sistema di giustizia uno dei tre poteri di uno Stato democratico che devono essere realmente indipendenti. Chi scrive queste righe trova molto significativo il contenuto di quella legge di Zaleuco di Locri che prevedeva un laccio al collo dei legislatori che abrogavano e modificavano le leggi. Sarebbe stato un deterrente per tutti coloro che hanno voluto, programmato e attuato il fallimento della Riforma del sistema di giustizia in Albania. Compresi anche i soliti e sempre presenti “rappresentanti internazionali”. Di tutti coloro che hanno l’inganno nel cuore, perché hanno tramato e tramano il male.

  • Irresponsabilmente determinato nella sua folle corsa

    È tutta colpa della Luna, quando si avvicina troppo alla Terra fa impazzire tutti.

    William Shakespeare, Otello

    La determinazione irresponsabile del primo ministro albanese di andare avanti ed in fretta, nella sua folle corsa verso un suo terzo mandato, risulta essere veramente preoccupante e pericolosa. Quanto è accaduto e sta accadendo realmente durante questi ultimi mesi in Albania dovrebbe far riflettere seriamente e responsabilmente tutti coloro che hanno l’obbligo istituzionale di agire, per fermarlo in tempo. Non solo in Albania, ma anche nelle istituzioni dell’Unione europea, visto che l’Albania è un paese candidato all’adesione. Si tratta però di un lungo, travagliato e, purtroppo, sempre più in salita processo, quello dell’adesione. E, guarda caso, da quanto è accaduto e sta accadendo durante queste ultime settimane, fatti alla mano, risulterebbe proprio che colui che sta seriamente e intenzionalmente ostacolando tutto sia proprio il primo ministro albanese! E guarda caso, è stato proprio lo scontro istituzionale, ma non solo, di questi giorni, tra il presidente della Repubblica e il primo ministro che ha messo in evidenza, senza equivoci, chi sta facendo di tutto per aggravare ulteriormente il percorso europeo dell’Albania. Uno scontro iniziato da più di un anno ormai, quello tra il primo ministro e il presidente della Repubblica. Uno scontro che però, negli ultimi giorni, è diventato ancora più duro e spesso accompagnato anche da “colpi bassi”, nonché da frasi per niente istituzionalmente idonee.

    Tutto cominciò in seguito ad una lettera ufficiale del presidente della Repubblica inviata, il 21 ottobre scorso, al presidente della Commissione europea per la Democrazia attraverso il Diritto, nota come la Commissione di Venezia. Con quella lettera il presidente della Repubblica chiedeva l’opinione della Commissione sugli emendamenti costituzionali e del Codice elettorale, approvati il 5 ottobre scorso dal Parlamento albanese. Emendamenti che non sono stati però decretati dal presidente della Repubblica. Secondo lui, l’approvazione di quegli emendamenti da parte del parlamento rappresenterebbe un’ulteriore prova che il primo ministro stia volutamente violando l’Accordo del 5 giugno scorso sulla Riforma elettorale. Un Accordo, quello del 5 giugno, che è stato firmato dai rappresentanti politici della maggioranza e dell’opposizione, tutti “segregati” nella residenza dell’ambasciatrice statunitense a Tirana. Il nostro lettore è stato informato a tempo debito sia di tutto ciò che delle opinioni e dei dubbi dell’autore di queste righe sull’Accordo stesso. Nella sua lunga lettera, il presidente presentava alla Commissione di Venezia tutti i suoi argomenti legali che, secondo lui, dimostrerebbero l’anticostituzionalità degli emendamenti della Costituzione e del Codice elettorale votati il 5 ottobre scorso in Parlamento. La settimana scorsa è arrivata anche la risposta del presidente della Commissione di Venezia, con la quale si informava ufficialmente il presidente della Repubblica che la Commissione tratterà la sua richiesta il prossimo dicembre e subito dopo manderà le sue opinioni.

    Nel frattempo però il primo ministro albanese aveva dimostrato, con le sue dichiarazioni e non solo, che non era intenzionato ad attendere le opinioni della Commissione di Venezia, chieste ufficialmente dal presidente della Repubblica. Dichiarazioni ed espresse intenzioni quelle del primo ministro che hanno attirato subito l’attenzione delle istituzioni dell’Unione europea, suscitando anche le loro reazioni tramite i rispettivi rappresentanti. Tutti loro hanno chiesto al primo ministro di attendere la risposta da parte della Commissione di Venezia prima di votare di nuovo in parlamento contro il sopracitato decreto del Presidente della Repubblica. Tutti loro hanno auspicato e hanno fatto appello alla responsabilità istituzionale del primo ministro di non aggravare ulteriormente sia l’attuale crisi istituzionale, che dura da più di un anno in Albania, che il percorso europeo del paese. Lo hanno detto e scritto chiaramente il Commissario europeo per l’Allargamento e la Politica di Vicinato, il presidente della Commissione per gli Affari esteri del Parlamento europeo, un gruppo di eurodeputati, il relatore per l’Albania del Parlamento europeo, la portavoce della Commissione europea ed altri ancora. Ma il primo ministro albanese ha ignorato tutte queste richieste ed appelli istituzionali ed ha dato ordine ai suoi deputati, ma anche quelli della sua “nuova opposizione”, di votare contro il sopracitato decreto del presidente della Repubblica. E i suoi “sudditi ubbidienti” hanno votato il 29 ottobre scorso secondo l’ordine preso. Quanto è accaduto il 29 ottobre scorso ha ulteriormente dimostrato e testimoniato la fretta del primo ministro albanese di preparare e ufficializzare tutto quello che servirà a lui e ai suoi per controllare, condizionare e manipolare il risultato delle elezioni politiche previste per il 25 aprile 2021. Quanto è accaduto il 29 ottobre scorso, ha ulteriormente dimostrato e testimoniato che il primo ministro rifiuta tutti e tutto e continua irresponsabilmente determinato nella sua folle corsa verso un suo terzo mandato. Costi quel che costi! E poi, dopo che il parlamento ha votato contro il decreto del presidente della Repubblica, ignorando anche le richieste dei rappresentanti delle istituzioni dell’Unione europea, il primo ministro si è “stupito” della loro preoccupazione. E poi si è domandato: “Come possiamo attendere la [risposta] della [Commissione di] Venezia fino a dicembre?”! Il suo subconscio ha messo in evidenza di nuovo quello che lui cerca di nascondere, ma che non riesce. E cioè la sua fretta di legalizzare tutto ciò che ha previsto di fare prima, durante e dopo le elezioni del 25 aprile prossimo per avere il suo terzo mandato. Una vera e propria scusa quella del primo ministro sulla mancanza di tempo, che l’ha “costretto” di votare contro il decreto presidenziale senza attendere le opinioni della Commissione di Venezia. Andando così contro tutti coloro che gli chiedevano e consigliavano proprio l’attesa, prima di votare, di quelle opinioni. Una vera e propria scusa quella del primo ministro, che è stata immediatamente smentita dagli specialisti dei processi elettorali. Secondo loro non c’è nessun impedimento legale e legittimo, che vieta di attendere fino a dicembre e poi agire di conseguenza, secondo le opinioni della Commissione di Venezia. Una Commissione quella, alla quale, quando interessa, il primo ministro albanese si rivolge e/o fa riferimento per sostenere le sue decisioni e/o azioni di facciata e per motivi di propaganda. Lo ha dimostrato anche durante quest’ultimo anno. Lo ha fatto il 22 luglio 2019, quando il presidente del Parlamento, suo stretto collaboratore, che guarda caso è anche l’ultimo ministro degli interni della dittatura comunista, ha mandato una lettera alla Commissione di Venezia per chiedere la sua opinione su un decreto del Presidente della Repubblica con il quale si voleva annullare le elezioni amministrative del 30 giugno 2019. Lo ha fatto anche il 30 dicembre 2019, quando il presidente del Parlamento ha chiesto di nuovo alla Commissione di Venezia le opinioni sulle procedure svolte dal presidente della Repubblica per le nomine dei nuovi giudici della Corte Costituzionale. Tutte le opinioni non solo non hanno colpevolizzato, ma, per i giudici, hanno dato piena ragione al presidente. Come, probabilmente, saranno anche quelle chieste il 21 ottobre scorso dallo stesso presidente della Repubblica.

    Chi scrive queste righe è convinto che il primo ministro albanese non ha voluto mai realmente l’integrazione europea. Come il suo “carissimo amico” Erdogan. Perché un dittatore non vuole e non accetta regole. Perché ad un dittatore non può mai convenire mettersi “sotto” gli obblighi comunitari. Lui ha sempre usato l’integrazione europea per scopi puramente propagandistici, aiutato anche dai soliti “rappresentanti internazionali”. Nel frattempo sta proseguendo la sua folle corsa per avere un terzo mandato. Ma la colpa in tutto ciò non è sua. No, la colpa è ovviamente della Luna, che sembra si sia avvicinata troppo alla Terra e gli si è fermata accanto.

  • Il fallimento voluto ed attuato di una riforma

    Quando la legge non può far valere i propri diritti, rendete almeno

    legittimo che la legge non impedisca di infliggere i torti.

    William Shakespeare; da “Re Giovanni”

    La riforma del sistema della giustizia in Albania, ad oggi, risulterebbe essere una delle più negoziate, discusse e contestate. Ma purtroppo, fatti realmente accaduti alla mano, risulterebbe essere un fallimento voluto e programmato come strategia d’azione per essere, in seguito, anche attuato. Sono tanti, ma veramente tanti tutti quei fatti accaduti, evidenziati e noti pubblicamente che dimostrerebbero e testimonierebbero questa affermazione. L’autore di queste righe, a più riprese, ha trattato l’argomento durante questi anni, cercando di informare sempre il nostro lettore in modo oggettivo, riferendosi soltanto ai fatti pubblicamente noti ed accertati.

    Che il sistema di giustizia in Albania avesse bisogno di essere riformato nessuno l’ha messo mai in dubbio. Che il sistema subisse delle ingerenze politiche, ignorando consapevolmente la sua indipendenza, anche questo era un dato di fatto. Che il sistema fosse considerato corrotto e che la giustizia venisse data in funzione del “miglior offerente”, si sapeva bene. Soprattutto da coloro che perdevano ingiustamente e clamorosamente cause soltanto perché l’altra parte poteva pagare o perché era politicamente raccomandata. Che il sistema avesse “contribuito” che le proprietà dei cittadini, soprattutto quelle costituite prima dell’avvento della dittatura comunista nel 1944 e poi, dopo il crollo della dittatura, ereditate dai veri proprietari, attualmente risultino “alienate”, anche questo è un dato di fatto. Lo sanno bene adesso tanti proprietari che vengono considerati, sarcasticamente e ingiustamente, come “ex proprietari” e che non riescono ad appropriarsi delle loro proprietà. Ma adesso, sempre dati e fatti accaduti alla mano, risulterebbe anche che il sistema della giustizia sia pericolosamente e politicamente controllato da una sola persona. E cioè dal primo ministro e/o da chi per lui. Il che è proprio l’opposto contrario degli obiettivi strategici posti e che dovevano essere raggiunti con la Riforma del sistema di giustizia in Albania, uno dei quali prevedeva la reale e garantita indipendenza del sistema dagli altri poteri istituzionali. L’altro prevedeva la fine dell’impunità dei politici corrotti e colpevoli, i quali costituiscono, purtroppo, una combriccola molto numerosa in Albania.

    Il funzionamento di uno Stato democratico, o che mira a diventare tale, si basa sulla separazione dei poteri. E per poteri si intendono il potere legislativo, quello esecutivo ed il potere giuridico. In più, tutti i tre poteri devono essere indipendenti l’uno dall’altro. E proprio l’indipendenza tra i tre poteri garantisce il buon funzionamento di uno Stato democratico, impedendo ingerenze ed abusi di potere, nonché fenomeni di corruzione. La necessità della divisione dei poteri in uno Stato era già prevista da Aristotele e Platone nell’antica Grecia circa 2300 anni fa. Un principio quello della divisione dei poteri che è stato trattato anche nei secoli scorsi da vari filosofi, tra i quali anche Locke e poi Montesquieu. A quest’ultimo si attribuisce la formulazione dell’attuale teoria della divisione dei poteri. Per Montesquieu era indispensabile la separazione dei tre poteri, rendendoli indipendenti l’uno dall’altro, in modo da evitare l’assolutismo e salvaguardare la libertà dei cittadini. Lui era convinto che “… chiunque abbia potere è portato ad abusarne; egli arriva sin dove non trova limiti”, Ragion per cui, secondo Montesquieu, in modo che “… non si possa abusare del potere occorre che […] il potere arresti il potere” (Spirito delle leggi; 1748). E per garantire che tutto ciò funzioni, in tutti gli Stati democratici, o che mirano a diventare tali, vengono prese tutte le necessarie misure legali che garantiscono il funzionamento del principio “Check and balance – Controllo e bilanciamento [reciproco]”. Un principio questo che prevede il funzionamento di strutture e meccanismi, basati sulla legge, per mantenere e garantire sempre l’equilibrio tra i tre poteri che operano in uno Stato.

    Ovviamente quando si parla di un sistema di giustizia, si fa riferimento all’insieme delle strutture necessarie che lo compongono e a tutto l’organico che fa funzionare quelle strutture. In Albania era diventato indispensabile l’avvio di una seria e ben concepita riforma radicale del sistema della giustizia. Da anni se ne parlava e finalmente, a fine del 2014, si diede inizio alla riforma. Adesso però, a fatti accaduti e compiuti alla mano, risulterebbe che quella riforma è stata voluta e attuata non per riformare e mettere finalmente ordine sul sistema, ma per far controllare quel sistema dal potere esecutivo. Le cattive lingue però ne parlarono già da allora. E il tempo adesso sta dando loro ragione. In Albania il potere esecutivo controllava pienamente il potere legislativo, soprattutto dal febbraio del 2019, quando i deputati dell’opposizione scelsero di consegnare i loro mandati parlamentari. Attualmente però controlla anche il potere giudiziario. Ed essendo ormai, purtroppo, una realtà facilmente verificabile che il potere esecutivo in Albania, dal 2013, viene identificato nella persona del primo ministro, allora risulterebbe che lui controlla tutti e tre i poteri che, secondo Montesquieu garantiscono il funzionamento di uno Stato democratico. Da sottolineare però che quando Montesquieu formulava la sua teoria della separazione dei poteri non esistevano i media come un quarto potere, come ormai vengono definiti. Sempre dati e fatti accaduti ed ufficialmente denunciati alla mano, da anni ormai il primo ministro albanese controlla personalmente, o tramite persone a lui legate, anche i media. Una preoccupante e pericolosa realtà questa che si sta evidenziando e si sta aggravando in Albania, giorno dopo giorno! Tutto il resto è semplicemente e vistosamente un disperato tentativo propagandistico per nascondere questa realtà vissuta e sofferta quotidianamente dalla maggior parte dei cittadini albanesi.

    Tornando al fallimento voluto ed attuato della riforma del sistema di giustizia, diventa doveroso evidenziare anche il ruolo che hanno avuto in tutto ciò i “rappresentanti internazionali”. Anche di questo l’autore di queste righe ha scritto spesso ed ha informato sempre il nostro lettore. Come sopracitato, uno degli obiettivi della riforma era la reale e garantita indipendenza del sistema dagli altri poteri istituzionali. L’altro prevedeva la fine dell’impunità dei politici corrotti e colpevoli. Proprio di quei politici che uno dei “rappresentanti internazionali” chiamava i “Pesci grandi”. Ma purtroppo la Riforma ha fallito, anche sotto gli occhi dei “rappresentanti internazionali”, in tutti e due suoi basilari obiettivi. Non solo, ma addirittura ormai non si parla più dell’indipendenza del sistema di giustizia dagli altri poteri. “Stranamente”, da qualche tempo ormai, sia il primo ministro albanese e i suoi rappresentanti che i “rappresentanti internazionali” parlano soltanto e semplicemente della lotta contro la corruzione! Niente più “indipendenza del sistema”! E niente più “politici corrotti e colpevoli”! Un “diabolico” cambiamento di strategia di comunicazione pubblica le cui conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. Tranne che del primo ministro e dei “rappresentanti internazionali”, che parlano di successi raggiunti dalla “Riforma”!

    Chi scrive queste righe, anche questa volta, avrebbe avuto bisogno di molto più spazio per evidenziare e analizzare quanto è accaduto e sta accadendo con la “Riforma” di giustizia in Albania. Promette però di riprendere e trattare di nuovo questo argomento molto importante; il fallimento voluto ed attuato di una riforma. Nel frattempo suggerisce a tutti gli autori della “Riforma” e ai “rappresentanti internazionali” quanto scriveva Shakespeare nel suo Re Giovanni. E cioè che quando la legge non può far valere i propri diritti, rendete almeno legittimo che la legge non impedisca di infliggere i torti.

  • In attesa di Giustizia: separati in casa

    Giochereste una partita di pallone in cui l’arbitro vesta, invece della divisa, la maglia della squadra avversaria? Probabilmente no, comunque qualche dubbio sulla sua imparzialità sarebbe fondato.

    Ebbene, nel nostro ordinamento giudiziario le cose funzionano sostanzialmente così: il Giudice arbitro delle controversie – che per disposto costituzionale dovrebbe, dunque,  assicurare assoluta terzietà – appartiene al medesimo Ordine del Pubblico Ministero, proviene dal medesimo concorso, la funzione giudicante/inquirente è interscambiabile senza eccessive difficoltà, dulcis in fundo avanzamenti di carriera, incarichi direttivi, autorizzazioni per lucrosi incarichi fuori ruolo non meno che (rarissime) sanzioni disciplinari dipendono dal Consiglio Superiore della Magistratura composto tanto da giudicanti che da Pubblici Ministeri e governato dalla logica delle correnti e del compromesso non di rado anche a sostrato politico.

    Secondo l’impostazione tradizionale del processo penale accusatorio, nel nostro sistema introdotto ormai trent’anni fa, le carriere di Giudici e P.M. sono nettamente separate, addirittura gli uffici sono ubicati  in edifici diversi; nel nostro Paese, tuttavia,  ogni tentativo di intervenire normativamente in proposito incontra un fitto fuoco di sbarramento da parte della Magistratura paventando – innanzitutto – il rischio che, separando le carriere, il Pubblico Ministero diventerebbe dipendente dal potere esecutivo e, pertanto, subordinato alla politica: nulla di meno vero perché per conseguire questo scopo non basterebbe neppure una legge ordinaria ma bisognerebbe intervenire su tre o quattro articoli della Costituzione che i Padri Costituenti avevano opportunamente elaborato proprio per scongiurare questo rischio.

    Una politica pavida e perennemente tenuta sotto scacco dalla Autorità Giudiziaria ha traccheggiato, dunque, per circa sei lustri senza mai  varare questa opportuna riforma dell’Ordinamento Giudiziario. Si è, allora, provveduto alla raccolta di firme per un disegno di legge di iniziativa popolare promosso dalla Unione delle Camere Penali che, coronata da successo, è approdato alla Camera ed è ora sostenuta da un gruppo molto trasversale di una cinquantina di deputati ed assegnata alla Commissione Affari Costituzionali.

    Dunque, vi è per la prima volta la concreta possibilità che la separazione delle carriere divenga legge generando sgomento e allarme all’interno dell’Associazione Nazionale Magistrati e motivo di ennesima frizione tra i due Vice Premier uno dei quali – Salvini – è favorevole alla riforma, l’altro no.

    E’ recente un incontro tra la Giunta dell’A.N.M. e il Capo dello Stato (che è anche Presidente del C.S.M., giova ricordarlo) nel corso del quale si è voluto affrontare l’argomento della separazione delle carriere con Sergio Mattarella spendendo – tra l’altro – argomenti fuorvianti e autenticamente ingannevoli come quello del rischio di perdita di indipendenza del P.M. (per evitare equivoci, il disegno di legge prevede espressamente l’indipendenza da qualsiasi potere dell’Ufficio Requirente) e, soprattutto tentando indebitamente di coinvolgere il Presidente della Repubblica in un prossimo, libero, dibattito parlamentare.

    Gli ingredienti per rendere accidentato il percorso di una riforma, che si propone come ammodernatrice del sistema giudiziario e volta ad attuare i principi del giusto processo, ci sono tutti: il conflitto strisciante tra poteri dello Stato, il contrasto interno alle forze di Governo, non mancheranno dunque le polemiche al momento del voto alle Camere orientato dalla disciplina di partito.

    Nel frattempo, mentre i Magistrati si sgomentano all’idea di diventare separati in casa, diverse decine di migliaia di cittadini, che hanno sottoscritto il disegno di legge recandosi ai gazebo allestiti in tutta Italia dagli avvocati penalisti, restano a guardare, restando ancora una volta in attesa di Giustizia.

  • In attesa di Giustizia: il manifesto elettorale

    Torniamo a parlare della prescrizione: l’argomento ha tenuto banco per tutta la settimana perché la sua proposta di modifica ha condotto se non sull’orlo di una crisi di governo (ma quasi) su quella di una crisi di nervi tra componenti della maggioranza governativa (anzi oltre); poi, come politica vuole, si è raggiunto un compromesso. Si farà ma più avanti insieme a una riforma complessiva del processo penale. Quindi, forse.

    Così come pensata, sospensione definitiva dopo la sentenza di primo grado, disegnerà un sistema del processo che manterrà una persona, per un tempo assolutamente indefinito, nella qualità di imputato, anche se assolto ma la sentenza appellata dal Pubblico Ministero. Con buona pace della tutela delle parti offese dalla commissione dei reati, che attenderanno giustizia molto a lungo.

    La riforma si rivelerà, comunque, tardiva, inefficace ed irrealizzabile.

    Sarà tardiva perché applicabile solo anni dopo la sua approvazione: potrà, infatti, riguardare solo i reati commessi dopo la sua entrata in vigore e, quindi, considerando tempi di scoperta, avvio delle indagini, rinvio a giudizio celebrazione e termine del processo di primo grado.

    Inefficace perché i dati statistici provenienti dal Ministero della Giustizia segnalano che, in percentuale preponderante il termine di prescrizione matura nella fase delle indagini preliminari e riguarda reati di marginale offensività: difficile pensare che impatti su un reato di corruzione, visto che la norma sembra essere stata suggerita proprio dalla volontà di contrastare fermamente questo fenomeno,  perché già oggi servono diciotto anni. E uno Stato, un sistema, che si teme non riescano a garantire la fine di un processo in un simile lasso di tempo segnalano altro genere di problemi  strutturali cui converrebbe prestare subito maggiore attenzione.

    Irrealizzabile perché in contrasto con il parametro Costituzionale del giusto processo e della sua ragionevole durata mentre l’allungamento dei tempi prescrizionali rappresenta il presupposto di una denegata giustizia che consentirà alle Corti d’Appello ed alla Corte di Cassazione di dilatare a discrezionalmente i tempi di celebrazione ricorrendo ad una sorta di eugenetica giudiziaria con priorità offerta a taluni casi piuttosto che ad altri. Il processo, per garantire la parità dei cittadini davanti alla legge deve avere irrinunciabilmente tempi circoscritti che non possono essere lasciati ad una determinazione casuale o alla diversa organizzazione degli Uffici Giudiziari sul territorio.

    Il Guardasigilli, peraltro, ha anticipato importanti interventi mirati alla assunzione di personale nel comparto giustizia che consentirà migliorie di funzionamento della macchina della giustizia che se vi fosse – magari! – non richiederebbe alcun intervento sulla prescrizione: in ogni caso si tratta di un mero annuncio perché la generica previsione di spesa non è supportata da una adeguata analisi delle necessità del settore, posto prima di qualsiasi intervento strutturale è necessario studiare i motivi della inefficienza come diversificati per specifici ambiti operativi e territorio. Di qualcosa di simile non vi è traccia.

    Lo stesso principio della certezza della pena, così caro alle forze di Governo alla perenne ricerca di consenso, è nella realtà tradito perché paradossalmente la pena non sarà più certa: a prescindere dalle aspettative delle vittime, un imputato non saprà più quando verrà definitivamente assolto o condannato. Se condannato, certamente ci sarà una pena: ma una pena tardiva può considerarsi come giusta e certa e diventare un efficace strumento dissuasivo? Quello della modifica della prescrizione non è un intervento mirato e pensato nell’interesse del Paese e della Giustizia (questa volta con la G maiuscola) ma solo l’ennesimo manifesto di una politica in perenne campagna elettorale.

     

  • In attesa di Giustizia: il conte Attilio

    Sapete da cosa si capisce se, in un incidente stradale, è rimasto vittima un cane oppure un avvocato? Nel caso dell’avvocato non ci sono tracce di frenata…è una delle freddure da cui si ricava – paradigmaticamente – l’impopolarità di questa categoria di professionisti sebbene la funzione dell’avvocato abbia un riconoscimento nella Costituzione laddove, all’art. 24 reca che la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento, con ciò intendendosi qualsiasi genere di giudizio: civile, amministrativo, contabile, tributario piuttosto che penale.

    Ma tant’è: gli avvocati sembrano non godere di grandi simpatie, soprattutto negli ultimi tempi: si è levata per prima la voce del SINAPPE, che è il Sindacato di categoria della Polizia Penitenziaria, scagliatosi con un comunicato in cui si lamentano alcune recenti modifiche dell’Ordinamento Penitenziario che, tra l’altro, conterrebbero “un regalo agli avvocati finanziato dai cittadini col gratuito patrocinio” lamentando in particolare la facoltà data ai carcerati di richiedere un risarcimento per le inaccettabili condizioni detentive (stigmatizzate, peraltro, dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo) che sarebbe il frutto normativo avvelenato di un Parlamento in cui è massiccia la presenza dell’avvocatura, regista occulta di simili manovre volte a far proliferare l’attività della categoria remunerata, spesso e benevolmente, dal patrocinio concesso dallo Stato. Insomma, un lobbismo da cialtroni che agevola degli accattoni.

    Ma non basta e c’è di peggio: monta, infatti, la polemica – anche interna, a livello di compagine governativa –  in merito alla proposta di sospendere definitivamente il corso della prescrizione dei reati dopo il giudizio di primo grado e, a tacere delle criticità anche di ordine costituzionale (magari ci ritorneremo in dettaglio con un prossimo articolo) che conseguirebbero ad un siffatto intervento, gli epigoni della riforma non hanno perso l’occasione per parlare a sproposito e  per di più offendendo l’Avvocatura.

    Infatti un Senatore M5S, tale Urraro, ha affermato che la riforma porterà ad un abbreviamento dei processi perché gli imputati non avranno più interesse ad allungarne i tempi per arrivare alla prescrizione.

    Gli ha fatto eco e dato supporto il Guardasigilli Bonafede condividendone il pensiero ed aggiungendo che in questo modo si porrebbe finalmente un freno agli espedienti che – secondo lui –  gli avvocati azzeccagarbugli metterebbero in campo per conseguire il traguardo della impunità per i loro assistiti.

    Urraro e Bonafede sono avvocati, così almeno risulta dalla biografia di entrambi, e dovrebbero ben sapere due cose entrambi e tre il Ministro: che la percentuale in assoluto preponderante di reati estinti per  prescrizione si registra nella fase delle indagini preliminari, cioè quando il dominus assoluto del processo è il Pubblico Ministero; quest’ultimo – oberato di fascicoli – spesso opta per trascurarne alcuni a vantaggio di altri aventi maggiore priorità e lasciando così prescrivere reati peraltro bagatellari.

    Dovrebbero, poi, sapere che qualsiasi allungamento del processo causato dal difensore o dall’imputato genera già adesso  per legge la sospensione della prescrizione e – quindi – questi espedienti quasi truffaldini cui hanno fatto riferimento sono del tutto inutili a determinare l’estinzione del reato per decorso del tempo.

    Il Ministro, poi, spingendosi a definire gli avvocati azzeccagarbugli dovrebbe sapere – essendo lui stesso avvocato – che una simile aggettivazione, oltre che ingiustificata, è diffamatoria e dunque integra un reato.

    Bonafede, criticatissimo da più parti per questa infelice uscita,  si è poi scusato, ha spiegato che non voleva offendere e che la sua frase è stata equivocata.

    Sarà: all’apparenza – se la lingua italiana ha ancora un senso – spazio agli equivoci non se ne ravvedono e dopo queste infelici espressioni aggiunte agli impropri argomenti di sostegno alla proposta di legge viene piuttosto da pensare a quel Conte Attilio dei Promessi Sposi che, spavaldo ed arrogante altrove, alla tavola di Don Rodrigo esprimeva tutta la sua subalternità di fronte proprio ad Azzeccagarbugli.

  • La riforma delle Banche di Credito Cooperativo: l’autonomia tradita

    Uno dei lasciti più avvelenati ed indigesto del governo Renzi è sicuramente rappresentato dalla riforma del sistema delle banche del credito cooperativo. Questa tipologia di istituti di credito rappresentano il primo ed immediato braccio operativo economico e finanziario che agisce sul territorio specificatamente in rapporto alle peculiarità dello stesso.

    In altre parole, attraverso una singola forma associativa finalizzata all’unico obiettivo della mutualità il sistema degli istituti di credito cooperativo si articola in modelli operativi estremamente flessibili ma sempre all’interno del perimetro istituzionale in relazione alle caratteristiche tipiche del territorio nel quale operano. In questo senso è evidente che l’attività dell’Istituto possa diversificarsi a seconda che operi all’interno di un territorio caratterizzato da un’economia prevalentemente turistica o, viceversa, in un’altra realtà che trovi la propria peculiarità nella presenza di aziende artigianali e PMI in genere.

    La riforma voluta dal governo Renzi stravolge sostanzialmente l’impianto istituzionale come la mission specifica dei singoli istituti cooperativi per  inglobarli all’interno di una S.p.A. capogruppo la quale indica in modo univoco le direttive e, come da contratto, anche la selezione dei manager e dei vari direttori delle diverse “nuove agenzie”.

    Quindi, ad un originario modello estremamente flessibile in relazione alle esigenze del territorio, come il credito cooperativo si è dimostrato finora con la riforma imposta dal governo Renzi e dai ministri Padoan e Calenda, si passa ad una società per azioni centralizzata nella quale il margine di flessibilità risulta praticamente nullo per sintonizzarsi con le esigenze locali. In quanto alle singole BCC non viene riconosciuto nessun tipo di autonomia istituzionale gestionale ed amministrativa.

    Al tempo stesso si assiste anche alla modifica del principio istitutivo degli stessi istituti passando dal funzione principale della mutualità a quella della remunerazione del capitale tipica di una S.p.A. rendendola contemporaneamente anche soggetta a scalate esterne.

    Questa modifica implicita, o meglio questo tradimento, della funzione mutualistica costitutiva ed istituzionale operante in ambito locale a favore di una società di capitale e con una direzione generale manifesta una grandissima contraddizione con lo storytelling politico che le regioni del nord, Veneto e Lombardia in primis, ma anche Emilia Romagna e le stesse province autonome di Trento e Bolzano portano avanti con l’ottenimento dalle regioni e con il consolidamento dalle province di una propria autonomia da esercitare sul territorio.

    La declinazione politica ma ovviamente anche quella economica e finanziaria di un sistema caratterizzato da una forte autonomia regionale o provinciale rispetto all’istituzione statale centralista non può però venire rappresentata dalla semplicistica ed unica visione di una gestione regionale di una maggiore autonomia amministrativa basata su di una percentuale maggiore dei tributi prodotti localmente in opposizione ad una politica centralista.

    All’interno di un progetto di autonomia completo si dovrebbero tutelare i diversi e specifici soggetti pubblici politici privati, e quindi anche cooperativi, al fine di assicurare la qualità ma soprattutto la molteplicità degli stessi soggetti, i quali operando in autonomia (anche rispetto alla Regione ed alla provincia), possono assicurare la possibilità di generare qualità e sviluppo del proprio territorio attraverso la propria meritoria ed autonoma attività.

    Il silenzio complice delle regioni Lombardia,Veneto ed Emilia Romagna, come delle province autonome di Trento e Bolzano relativamente a questa riforma delle banche di Credito Cooperativo rappresenta la massima espressione invece di  una visione vetero-centralistica da parte delle istituzioni politiche declinate nelle istituzioni regionali o provinciali. Non risulta possibile infatti realizzare nessun tipo di autonomia completa senza le presenze contemporanee di istituti di credito che nascano dalle singole realtà locali i quali operino espressamente e con caratteristiche specifiche nel territorio di competenza, in questo caso regionale o provinciale, e non sotto il controllo di una S.p.a. nazionale.

    Il silenzio delle regioni invece dimostra come la maggiore autonomia richiesta da anni dalle regioni del nord risulti semplicemente di carattere politico e che si debba manifestare solo attraverso il desiderio da parte degli organi regionali stessi di una nuova propria nuova centralità semplicemente in sostituzione di quella statale che la regione assumerebbe all’interno del territorio di propria competenza, in particolare in ambito amministrativo e fiscale.

    Senza un sistema di istituti specifico del territorio operativo, indipendentemente dalle istituzioni politiche, siano esse statali, regionali o provinciali non fa nessuna differenza grazie alle quote di risparmio dei residenti si passerebbe da un centralismo statale ad un centralismo regionale il quale anche se più vicino al territorio di competenza non garantisce soprattutto politiche di sviluppo adeguate. In altre parole, la regione resterebbe l’unica in grado di produrre risorse da destinarsi alle opere del territorio operando quindi in una posizione di nuova centralità (termine incompatibile con il concetto autonomia) in sostituzione della centralità dello stato attuale. Quando invece il concetto di autonomia non possa prescindere dalla presenza di una molteplicità di soggetti autonomi ed appunto indipendenti per i medesimi fini di sviluppo economico del territorio stesso.

    In questo senso il silenzio delle Regioni interessate da questa nefasta rivoluzione degli istituti di credito cooperativo risulta veramente imbarazzante per gli stessi presidenti delle istituzioni regionali e provinciali i quali dimostrano con il proprio silenzio assenso di ricercare non una maggiore autonomia del proprio territorio ma il semplice desiderio di sostituirsi alla attuale centralità allo Stato. Questa conversione favorita dalla complicità degli organi regionali renderà possibile una rinnovata centralità della Regione a scapito di organi indipendenti ed autonomi come le banche di credito cooperativo hanno assicurato fino ad oggi.

    Mai come oggi il silenzio si rivela simbolo di un passaggio politico ambiguo che non mira all’autonomia estesa dei territori ma semplicemente alle nuova centralità delle istituzioni regionali.

    Una centralità classica degli istituti statali e che avrà le medesimi problematiche quando risulterà essere espressione di quelli regionali.

  • Urgente riformare subito il sistema che lascia liberi i delinquenti

    Da molti anni sentiamo raccontare da carabinieri e poliziotti realtà che sembrano incredibili da tanto cozzano con il buon senso oltre che con la giustizia vera. Ladri, stupratori, pedofili, malviventi brutali fermati e poi lasciati liberi per decisioni di giudici che probabilmente applicano l’attuale legislazione, ma che non si sono mai posti il problema, all’interno delle loro associazioni o a livello  personale, di impegnarsi per modificare le storture abnormi che condizionano la vita degli italiani. Se poi aggiungiamo governi vari che applicano condoni o quant’altro necessario a liberare le carceri, ma non certo a fare giustizia, la situazione si complica, e si è complicata a tutto danno della sicurezza dei cittadini, del lavoro di polizia e carabinieri e a tutto favore di chi delinque. Proprio queste storture hanno portato a nuove proposte per rendere apparentemente più facile ai cittadini difendersi, ma se non saranno cambiate le regole del sistema giustizia sarà tutto inutile.

    Ancora di questi giorni le notizie che il violentatore dell’anziana signora di Milano era già stato condannato a 10 anni per lo stesso reato nel 2009 ed era poi stato rimesso in libertà per i benefici di legge, rimesso in libertà in Romania, dove era stato estradato, e subito ritornato in Italia a riprendere le vecchie abitudini, anche almeno uno dei criminali che hanno tagliato l’orecchio ad una donna durante la rapina in villa era recidivo ed era stato recentemente fermato con documenti falsi ma lasciato libero. La riforma della giustizia per essere più aderente alla effettiva realtà della società contemporanea è urgente ed il governo dovrebbe metterla tra le priorità perché oggi rischiamo di condannare alla prigione per reati poco influenti sulla vita delle persone e della società e di lasciare liberi criminali sanguinari e pericolosi. Se a questo aggiungiamo la presenza di minorenni sempre più violenti, che non esitano a ferire ed uccidere con l’indifferenza di chi pensa di essere in un videogioco è evidente anche la necessità di reimpostare il messaggio che deve partire dalla scuola, dalle istituzioni e dalle famiglie. Ma di questo chi vorrà occuparsi? Le battaglie che non portano consenso o sono difficili non piacciono a nessuno, specie alla pre vigilia di campagna elettorale.

Pulsante per tornare all'inizio