È diventato un bene rifugio, un po’ come l’oro quando i mercati finanziari fanno le bizze: gli investitori cercano riparo nel metallo prezioso, facendo schizzare la valutazione verso l’alto. Ed è quanto sta accadendo con la legna da ardere, il cui prezzo al dettaglio, con la crisi del gas provocata dal conflitto tra Russia e Ucraina, è schizzato, in alcuni casi raddoppiando rispetto allo scorso anno. Un esempio: se a Trento nel 2021 un bancale di legna da ardere (circa 7-8 quintali di faggio o rovere) costava tra i 150 e i 170 euro, quest’anno difficilmente lo si trova per meno di 300 euro dai rivenditori trentini.
Una situazione del tutto analoga è stata registrata per il pellet, il cui prezzo per i sacchi da 15 chili, solitamente assestato tra i 5 e i 6 euro, quest’anno ha avuto un aumento che talvolta sfiora il 100%. Un problema che va a toccare non solo l’arco alpino, dove il riscaldamento a biomassa è diffusissimo, ma molte regioni d’Italia, da nord a sud.
Ma cos’è successo? Sono molteplici le cause. Dopo lo scoppio del conflitto lo scorso inverno e l’aumento del prezzo del gas, moltissimi italiani si sono buttati sulle cosiddette biomasse, ritenendole esenti dal rischio di uno stop improvviso: “Uno le tiene sotto casa e sa che sono sempre a disposizione”, osserva Valentino Gottardi, del Servizio foreste della Provincia autonoma di Trento. Proprio il Servizio foreste, che monitora le aste per i lotti boschivi, ha registrato un aumento dei prezzi rispetto allo scorso anno che va dal 20 al 50%, una forbice che si giustifica dalla difficoltà o meno di operare il taglio nell’area assegnata. Questo dato – spiega Gottardi – ci dice che c’è un grande interesse da parte delle aziende a reperire legna da ardere. La corsa all’acquisto genera un aumento dei prezzi alla base che poi si riversa sul consumatore finale, anche a causa dell’incremento dei costi dell’energia per la trasformazione del legname.
Ad appesantire il quadro italiano – spiega Annalisa Paniz, direttrice dell’Associazione italiana energie agriforestali – il blocco delle importazioni da Russia, Bielorussia e Ucraina e la riduzione dai paesi dell’est (come la Romania) che temono interruzioni sulle forniture del gas. Insomma, chi la legna ce l’ha, se la tiene a casa. L’Aiel già lo scorso inverno, dopo il 24 febbraio, data di inizio del conflitto, ha registrato un forte aumento dell’interesse degli italiani per le biomasse, con un incremento degli acquisti di stufe a legna o pellet che si aggira sul 20%.
Il quadro dei prezzi – secondo Aiel – potrebbe migliorare in un prossimo futuro “grazie” al bostrico, che si è diffuso a dismisura dopo la tempesta Vaia e che oggi sta minacciando il patrimonio boschivo: la necessità di tagliare gli alberi colpiti dal coleottero potrebbe portare ad un aumento del materiale legnoso sul mercato e quindi ad un effetto calmiere. Un po’ com’era successo proprio dopo la tempesta Vaia, che aveva avuto tra le conseguenze l’immissione sul mercato di una quantità enorme di legna, corrispondente ad un crollo dei prezzi.
Ci si chiede a questo punto cosa potrebbe accadere se la crisi del gas dovesse prolungarsi anche nei prossimi anni. Secondo Annalisa Paniz servirebbe una diversa politica, più efficiente, nella gestione del patrimonio boschivo in Italia: “Per essere meno dipendente dalle importazioni – afferma Annalisa Paniz direttrice generale di Aiel – l’Italia avrebbe dovuto investire maggiormente nell’industria addetta alla lavorazione del legno, realizzando più segherie e strutture per la raccolta e la lavorazione. La difficoltà nel reperire lotti disponibili in Italia per la produzione di legna da ardere impedisce alle aziende di supplire alla mancanza del materiale fino a poco tempo fa di provenienza estera”.