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  • La Bce spinge per arrivare all’‘euro-bitcoin’

    La People’s Bank of China guida la corsa, la Bce insegue e la Fed avanza con cautela. Procede in ordine sparso la corsa delle banche centrali verso la creazione della valuta digitale: ma il tema entra di prepotenza nel dibattito fra i banchieri centrali. Proprio alle valute digitali il Fondo monetario internazionale ha dedicato una sessione di lavori su “Cross-Border Payments and Digital Currencies”. Con un panel in cui è intervenuto il presidente della Fed Jerome Powell. La Fed – ha spiegato Powell – sta valutando i benefici di una valuta digitale ma non ha ancora deciso.  “E’ una delle aree in cui per gli Stati Uniti è più importante fare bene che arrivare per primi”, ha detto Powell riferendosi all’ipotesi da molti già chiamata Fedcoin.

    L’azione delle banche centrali sul tema della valuta digitale di banca centrale – vera e propria creazione di moneta fatta a fronte di depositi – nasce proprio per la preoccupazione per le criptovalute: tanto più, come nel caso di Libra, le ‘stablecoin’ di Facebook, quelle che assicurerebbero protezione dalle maxi-fluttuazioni di bitcoin e simili ancorandosi a un paniere di valute tradizionali. Il Financial Stability Board, l’organismo che mette insieme i banchieri centrali e le autorità di regolamentazione finanziaria del G20, giusto una settimana fa ha avvertito dei rischi per la stabilità finanziaria, dandosi come obiettivo una maggior regolamentazione.

    Ma l’innovazione corre più veloce delle regole. E così le banche centrali valutano di entrare loro stesse nel gioco. Lo sta facendo la Cina. E se la Fed è cauta, la Bce accelera, con un progetto sperimentale in corso, una consultazione pubblica e una decisione finale sull’euro digitale già a metà 2021. C’è la sfida del mondo ‘crypto’, c’è Libra e una tale espansione dei pagamenti elettronici da mettere a rischio il controllo dell’offerta di moneta, la stabilità finanziaria, e persino il concetto di ‘sovranità digitale’ caro all’Ue. Ma, come emerge dalle parole stesse della presidente della Bce Christine Lagarde, c’è di più: si tratta di rendere “la nostra valuta adatta all’era digitale. Quando vediamo quanto velocemente si stanno diffondendo i pagamenti digitale, specie fra i giovani, è importante venire incontro a questa domanda”. E ancora, col digitale si “rafforza il ruolo internazionale dell’euro”. Fra le righe, si capisce che in gioco c’è la domanda globale, nei prossimi decenni, per la valuta, come riserva di valore, ma anche come unità di conto per i pagamenti digitali. Assicurarsela vuol dire garantirsi la propria fetta di ‘privilegio esorbitante’ dato dall’avere investitori desiderosi di detenere titoli in euro in ogni parte del mondo.

  • L’illusione di un pasto gratis

    Uno degli argomenti che contrappone le diverse visioni politiche ed economiche espresse nel Parlamento è relativo all’utilizzo del Mes, a maggior ragione ora che i titoli del debito pubblico presentano un rendimento negativo come logica espressione di una fortissima politica monetaria espansiva della Bce.

    Nessuno, tuttavia, sembra in grado di cogliere i costi di questa politica monetaria espansiva, in particolare gli schieramenti politici con i propri economisti i quali addirittura chiedono, o meglio pretenderebbero, delle emissione di titoli del nostro debito senza limiti, a maggior ragione adesso, con tassi negativi.

    Un debito pubblico, come i suoi costi complessivi del servizio, per sua stessa natura ricade sulle generazioni future. La storia italiana dimostra come per tutte le emissioni di debito pubblico nessuno dei responsabili governativi risulti chiamato a risponderne.

    Rispetto, quindi, alla vita quotidiana dei cittadini italiani la classe politica vive in una sorta di assoluta irresponsabilità relativamente agli effetti delle proprie scelte politiche ed economiche.

    Viceversa, un atteggiamento prudenziale, in particolar modo in un periodo di grande incertezza come quello attuale, dovrebbe riportare entrambe le visioni economiche ad una maggiore consapevolezza e responsabilità in relazione al nuovo debito sia sotto forma di Mes che di nuove emissioni di titoli del debito stesso, anche se a tassi negativi.

    Sembra sfuggire incredibilmente ad entrambi gli schieramenti il costo reale per i contribuenti rappresentato dalla “depatrimonializzazione nel risparmio privato” (https://www.ilpattosociale.it/attualita/la-politica-monetaria-e-la-depatrimonializzazione-del-risparmio/).

    Ancora oggi buona parte degli schieramenti politici si illude che un debito negativo non abbia costi ma solo vantaggi invitando di conseguenza ad una proliferazione di emissioni di titoli del debito italiano.

    All’interno di un ciclo economico con tassi negativi che avvantaggia la spesa pubblica contemporaneamente il loro peso (ed in forma positiva quindi come un costo) viene trasferito ed assume forma e peso attraverso la depatrimonializzazione del risparmio il cui peso grava sulle spalle dei contribuenti, soprattutto per i risparmiatori.

    Una ulteriore insostenibile forma di irresponsabilità della politica la quale si aggiunge al debito odierno con effetti per il futuro in forma di costi immediati del servizio allo stesso ma scaricati sul risparmio privato.

    Non capirlo è grave ed indice di una superficialità imbarazzante perché potrebbe contribuire alla illusione di un debito a costo negativo come la Panacea per ogni problema.

    Sembra incredibile come nessuno abbia ancora compreso il valore del principio che in economia “Nessun pasto è gratis…” di Milton Friedman.

    Non conoscere, o peggio, ignorare le conseguenze a medio e lungo termine di queste politiche monetarie espansive rappresenta un’altra forma del nostro declino culturale.

    Inserire nuova liquidità in un sistema che la disperde, tanto da non essere neppure in grado di utilizzarla, come dimostrano i 20 miliardi da 10 mesi bloccati ed inutilizzati nel fondo infrastrutturale, non produce alcun effetto anticiclico.

    La politica monetaria espansiva nel nostro Paese, quindi, con la irresponsabile emissione di ulteriore debito pubblico senza alcuna ricalibratura della spesa pubblica produrrà come uno unico effetto scaricare i vantaggi dei tassi negativi per lo Stato in forma di costi aggiuntivi per i risparmiatori.

  • Ancora il mito dell’avanzo primario…Mala tempora currunt

    E’ evidente ed accettato da tutti come la straordinaria e drammatica situazione economica legata alla crisi da covid-19 presenti degli aspetti macroeconomici e finanziari di sostenibilità dei paesi preoccupanti, in particolare nel medio e lungo termine. Altrettanto chiaro risulta come nell’immediato lo Stato debba farsi carico degli effetti economici devastanti ma, con la medesima attenzione ed apprensione, dovrebbe ragionare sulle strategie di uscita da questa situazione.

    Nella difficile opera di ricerca dovrebbero, e ripeto, dovrebbero trovare spazio anche i contributi delle maggiori autorità economiche e finanziarie nel suggerire le priorità economiche da seguire. In questo senso però risulta molto imbarazzante l’intervento del presidente della Banca d’Italia Visco il quale, convenendo con l’insostenibilità finanziaria di una politica di semplice ricorso al debito, individua nell’avanzo primario del 1,5% la via per ridurre il debito e fornire nuovo ossigeno alla nostra economia.

    In questo senso si ricorda al presente alla Banca d’Italia, che rappresenta la massima autorità economica e finanziaria italiana, come l’Italia abbia un avanzo di bilancio da più anni e nonostante questo il debito sia sempre aumentato ad una velocità doppia rispetto al PIL. Si aggiunga inoltre come il governo Monti abbia istituzionalizzato con una legge ordinaria il raggiungimento dell’avanzo primario. In altre parole, il percorso indicato per uscire da questa situazione di disequilibrio economico e finanziario viene indicato in un fattore già presente nei bilanci pre-covid che ci avevano portato al raggiungimento del rapporto debito pubblico/PIL ad oltre il 135%. Dimenticando, quindi, oppure ancora peggio, omettendo, la responsabilità che le stesse autorità economiche, assieme alle diverse compagini governative succedutesi dal 2011 ad oggi alla guida del Paese, hanno nei confronti dell’esplosione del debito pubblico come diretta conseguenza della crescita della spesa pubblica.

    Risultati devastanti di scelte di politica economica e di spesa pubblica finalizzate solo ed esclusivamente al conseguimento del consenso elettorale in più con la silenziosa complicità della Banca d’Italia. La politica ha aumentato, dal 2015 in poi, la spesa pubblica sempre a debito per gli 80 euro assieme al più recente reddito di cittadinanza, agli sgravi fiscali per le imprese del meridione (che penalizza il cuore industriale italiano al nord), al reddito di cittadinanza, per non dimenticare quota 100. Tutti assieme rappresentano solo le maggiori e macroscopiche scelte dei governi di diverso orientamento politico che però hanno sempre solo ed esclusivamente utilizzato la spesa pubblica inseguendo chimere di maggiore occupazione o maggiore benessere attraverso l’utilizzo del debito.

    A sostegno della tesi del presidente Visco si aggiunge quella del Fondo Monetario Internazionale, da sempre seminatore di ovvietà, il quale individua nella maggiore spesa pubblica la via alla spesa per la ripresa economica. Anche in questo caso la memoria è un fattore assolutamente sottovalutato in quanto l’Italia fino al 2019 ha registrato una esplosione della spesa pubblica ad una velocità doppia rispetto al Pil cresciuto solo ed esclusivamente grazie al traino dell’export.

    Il nostro Paese sta assistendo nell’ultimo decennio ad una metamorfosi delle autorità economiche le quali da espressione di articolate competenza specifiche subiscono una kafkiana metamorfosi verso una nuova forma di sintesi di riconoscenza nei confronti del mondo politico da cui ormai dipendono rivelando al tempo stesso come ormai sia superata la divisione tra tecnici e politici che invece assicurerebbe visioni perlomeno intellettualmente oneste se non preparate.

    Se queste sono le maggiori autorità economiche italiane ed internazionali…Mala tempora currunt per il nostro Paese.

    P.S. in relazione al tema   si ripropone una visione assolutamente personale: https://www.ilpattosociale.it/attualita/la-politica-monetaria-lillusione-di-bce-progressisti-e-sovranisti/

  • Cinque banche globali corrotte

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi** apparso su ItaliaOggi il 3 ottobre 2020

    Il Consorzio internazionale di giornalisti investigativi (Icij) è al centro dell’attenzione dei media perché è entrato in possesso di 2.500 pagine di segnalazioni di attività sospette (Sar) riguardanti le banche. Trattasi di documenti riportati, tra il 1999 e il 2017, alla FinCEN, Financial Crimes Enforcement Network del Departimento del Tesoro americano che li ha resi parzialmente pubblici. La FinCEN è l’agenzia governativa con il compito di combattere il riciclaggio di denaro.

    Sono gli stessi giornalisti che nel 2016 hanno pubblicato i cosiddetti Panama Papers, e hanno fatto emergere lo scandalo di vaste attività relative a evasioni fiscali e al riciclaggio dei soldi sporchi con il coinvolgimento di grossi personaggi e di banche internazionali.

    Adesso, emergerebbe, ancora una volta, una vastissima rete di traffici illegali e di movimenti di denaro riciclato per il traffico di droga e di armi e per evitare controlli e tasse attraverso società fittizie e finanche per il finanziamento del terrorismo.

    C’è di tutto e di più: coinvolgimento di discussi personaggi russi e ucraini, pericolose operazioni in Venezuela e in Malesia, finanche alcune operazioni per conto di Paul Manafort, l’ex manager della campagna elettorale di Donald Trump, attualmente in carcere per frode fiscale e bancaria. Sono tutte segnalazioni che, comunque, sarebbero dovuto essere indagate per arrivare a eventuali condanne.

    I documenti identificano le responsabilità di cinque banche globali: due americane, la JP Morgan, prima banca Usa, e la Bank of New York Mellon, due inglesi, la Hsbc, Hong Kong Shanghai Bank Corporation, la maggiore banca europea, e la Standard Chartered Bank e la tedesca Deutsche Bank. Le transazioni sospette di riciclaggio e per altre attività illegali ammonterebbero a oltre 2.000 miliardi di dollari!

    Sembra un ammontare stratosferico ma i file resi pubblici rappresenterebbero meno dello 0,02% degli oltre 12 milioni di attività sospette che le differenti istituzioni finanziarie hanno riportato alla FinCEN nel periodo 2011-17. Sono molti gli aspetti inquietanti in questa scandalosa storia. Vorremmo evidenziarne due che, secondo noi, meriterebbero una particolare attenzione.

    In primo luogo c’è il ruolo della Deutsche Bank che, secondo i documenti, deterrebbe il peggior primato con ben 1.300 miliardi di dollari in transazioni sospette. È la seconda volta che la banca tedesca scala la piramide negativa: lo aveva già fatto quando è diventata il numero uno al mondo per i derivati finanziari over the counter, noti strumenti speculativi sempre più aleatori e di difficile, complicata e rischiosa gestione.

    La stampa tedesca torna a chiedersi cosa stia realmente succedendo da molti anni in questa banca che porta il nome della Germania nel suo logo. Anche secondo noi i continui riferimenti ai coinvolgimenti della DB in operazioni di vario tipo sono motivo d’imbarazzo e di vergogna per l’intera Europa, non solo per la Germania. Ci si chiede come sia possibile che, anno dopo anno e scandalo dopo scandalo, le autorità tedesche e quelle europee non siano ancora riuscite a costringere la banca a ripulire veramente i suoi comportamenti e tornare a essere una delle maggiori banche promotrici di grandi progetti industriali e di sviluppo reale, come ai tempi del presidente Alfred Herrhuasen, prima che fosse ucciso dai terroristi.

    Il secondo aspetto riguarda i comportamenti assai discutibili delle banche coinvolte. Da anni, nonostante fossero state pesantemente accusate, condannate e sanzionate dalle autorità di controllo, quasi sempre americane, esse hanno continuato indisturbate a fornire i propri servizi per operazioni sporche, illegali e di riciclaggio. Gli esempi non mancano.

    Secondo le analisi pubblicate, nel 2012 la ‘HSBC, per bloccare il procedimento criminale, ammise di aver riciclato 881 milioni di dollari per un cartello della droga latino-americano e pagò un’ammenda di 1,9 milioni. Le accuse sarebbero state cancellate definitivamente qualora la banca avesse dimostrato di partecipare alla lotta contro il riciclaggio nei successivi cinque anni. I file dell’Agenzia americana proverebbero invece che l’Hsbc, violando il patteggiamento, non solo ha continuato nelle operazioni di riciclaggio di soldi sporchi ma sarebbe stata implicata in una grande «piramide finanziaria» che coinvolgeva parecchi paesi.

    Lo stesso sarebbe avvenuto con la Standard Chartered, accusata di aver favorito transazioni finanziare verso gli Usa da parte di clienti dell’Arab Bank legati alle reti terroristiche. Sebbene multata per 670 milioni di dollari, avrebbe continuato con simili operazioni anche durante il «periodo di buona condotta».

    Anche le altre banche menzionate, compresa la Deutsche Bank, hanno mantenuto lo stesso comportamento. Accusate di attività illecite hanno pagato le multe per bloccare le sanzioni penali continuando imperterrite a operare as usual. Certo è molto conveniente pagare la multa di 1 dollaro per 100 incassati illegalmente.

    Ma, in merito, il controllo dei governi e delle agenzie preposte è indipendente e davvero stringente? Poiché la pandemia sta mettendo a soqquadro tutti i sistemi, economici, sociali e sanitari, non si capisce perché la grande finanza resti intoccabile.

    Naturalmente le banche hanno spesso dichiarato di non conoscere l’identità dei correntisti finali. È singolare che oltre il 20% dei rapporti inviati alla FinCEN abbia un cliente con un indirizzo presso le Virgin Islands britanniche, uno dei più grandi paradisi fiscali al mondo.

    In conclusione, si ricordi che anche per l’Unodc, l’Ufficio dell’Onu per il controllo della droga e la prevenzione del crimine, non meno di 2.400 miliardi di dollari di denaro illecito sarebbero riciclati ogni anno. Sono dati sconvolgenti.

    *già sottosegretario all’Economia **economista

  • La politica monetaria: l’illusione di Bce, progressisti e sovranisti

    Dal 2015 la BCE ha adottato una politica monetaria fortemente espansiva attraverso il quantitative easing. Fino al 2019 e all’inizio del 2020 pre- covid l’inflazione media europea è risultata al di sotto del 2%, dato che viene indicato come l’indicatore di progresso e sviluppo economico.

    Dall’avvento della crisi mondiale legata alla pandemia la Bce insiste, attraverso una politica monetaria espansiva, con l’obiettivo di raggiungere la crescita dell’inflazione al 2% ma non avendo ancora realizzato come la politica monetaria all’interno di un mercato globale abbia perso parte, se non tutta, della propria efficacia.

    L’innovazione tecnologica permette infatti di ridurre i costi di intermediazione in qualsiasi settore industriale compreso soprattutto quello dei servizi anche finanziari.

    Con scenari internazionali certamente non rosei da anni, ad esclusione delle due macroaree degli Stati Uniti e della Cina, e con la possibilità di accedere a prodotti e a servizi espressione di sistemi economici con costi del lavoro risibili rispetto ai nostri risulta evidente come il settore economico continentale, soprattutto con una situazione di stagnazione, potrà sperare in una crescita dei prezzi espressione di una domanda marginale in crescita.

    La possibilità di reperire attraverso l’innovazione tecnologica beni (di consumo o intermedi) e servizi da ogni parte del mondo, espressione del mercato concorrenziale, determina di per sé una tendenza alla riduzione dei costi ma anche conseguentemente dei prezzi e quindi dei fatturati con un conseguente peggioramento del rapporto debito PIL. Perché, va ricordato, come sostanzialmente la ricerca di un maggiore tasso di inflazione da parte della BCE nasce proprio dalla speranza di riequilibrare il rapporto debito/PIL attraverso l’incremento nominale legato all’inflazione.

    Di conseguenza, se la politica monetaria rappresenta un’arma priva di effetti sarebbe interessante individuare quali potrebbero rimanere gli altri fattori importanti per ridare allo scenario economico una prospettiva di crescita, italiana in particolare.

    Sostanzialmente, più della politica monetaria la spesa pubblica, cioè la sua qualità unita alla pressione fiscale rappresentano i due fattori che possono maggiormente incidere sulla crescita economica e, di conseguenza, occupazionale. Spesa pubblica e pressione fiscale rappresentano i due fattori di maggiore potere da parte della classe politica e che non verranno mai ridotti in quanto ciò comporterebbe una sua riduzione (https://www.ilpattosociale.it/attualita/la-vera-diarchia/).

    Questo ovviamente avviene in Italia in quanto in Germania e in Francia si assiste ad una scelta di ridurre, parzialmente e temporaneamente, la pressione fiscale sia a carico delle imprese (riduzione Imu per gli immobili strumentale) che sui beni di consumo (riduzione Iva).

    In altre parole, la classe politica si dimostra convinta ancora, e vale sia per la corrente “progressista” che “sovranista” (che invita ad un ritorno alla lira), che la politica monetaria abbia degli effetti sostanziali nelle politiche di sviluppo economico.

    L’illusione monetaria riunisce sotto lo stesso tetto i sostenitori del mercato globale senza alcuna barriera o protezione per i prodotti espressione del know-how nazionale con i sovranisti che vedono nel ritorno alla lira il volano per aumentare le esportazioni assieme alle autorità monetarie (Bce) che vedrebbero così riconfermata la propria funzione. Quando invece solo un radicale intervento sulla qualità della spesa pubblica e sulla pressione fiscale rappresentano gli unici due fattori che possano realmente creare le condizioni per una crescita. Entrambi, però, ridurrebbero il peso della compagine politica nella sua totalità ma comunque responsabile di questa situazione e che ancora spera, attraverso la politica monetaria, di accrescere o quantomeno mantenere la propria centralità e il proprio potere.

  • Sofferenze bancaria a quota 385 miliardi nel 2021

    Una nuova ondata di crediti deteriorati è in arrivo nel 2021 per effetto del Covid, ma non sarà una tempesta come nella crisi dei mutui subprime del 2011. Dai 338 miliardi previsti per l”anno in corso si salirà del 5% a quota 385 miliardi secondo l’amministratore delegato di Banca Ifis Luciano Colombini, che ha fatto il punto al tradizionale convegno d’autunno sul settore, che si è tenuto quest’anno nell’incantevole cornice di Villa Erba a Cernobbio (Como).

    Una previsione confermata dalla stessa Abi, il cui direttore generale Giovanni Sabatini non ha negato l’incremento in arrivo dovuto agli effetti della “grave crisi economica, conseguenza della pandemia, i cui effetti sono da determinare”. Una scure che si abbatte nonostante lo “sforzo enorme per ridurre l’accumulo dei crediti deteriorati che si erano determinati negli anni della grande crisi finanziaria”.  Sforzo che Bankitalia ha quantificato oggi in 170 miliardi di euro dal 2016 a fine anno, prevedendo anche per il 2020 cessioni per circa 20 miliardi.

    Quanto alle stime di Banca Ifis, il tasso di deterioramento dei crediti salirà dall’1,3% del 2020 al 2,8% del 2021, mentre il rapporto tra Npe (l’insieme dei crediti deteriorati, che comprende le sofferenze, gli incagli e i crediti scaduti) e il totale dei crediti erogati salirà dall’attuale 6,2% al 7,3% del 2021.

    Per Colombini “l’onda si sta gonfiando, ma Venezia non è ancora allagata”. “L’acqua alta – ha detto il banchiere – arriverà l’anno prossimo, quando il default rate sarà raddoppiato”. Una situazione comunque migliore rispetto alla crisi del 2011. Secondo l’Ad di Banca Ifis “i risultati negativi di questa crisi sono inferiori alla crisi precedente, quando il default rate fu al 4,5%”. “In questa crisi – ha sottolineato – ci sono stati interventi importanti da parte dei Governi e delle Banche centrali”. Non tutto funziona come dovrebbe però. L’incaglio in questo caso si chiama Amco, il gestore pubblico dei crediti deteriorati. “La vediamo bene – ha puntualizzato Colombini – ma con una condizione imprescindibile, che sia un operatore di mercato e dai primi segnali che abbiamo non sembrerebbe che sia proprio così”. “L’industria degli Npl servicer, che ha superato gli 8mila dipendenti con operazioni effettuate per diversi miliardi di euro va tutelata”, ha precisato sottolineando che Amco dovrebbe intervenire nei salvataggi, mentre, se opera sul mercato “i miliardi di intervento pubblico avrebbero un effetto distorsivo e graverebbero sulle spalle del contribuente”.

    Gli ha replicato Giuseppe De Martino, consulente del Mes, socio unico di Amco. A suo avviso i timori espressi a Cernobbio dagli operatori privati del settore “non hanno forti ragioni di esistere”. “Il punto di forza di Amco – ha sottolineato – è avere un azionista paziente che non vuole ritorni a doppia cifra sul breve periodo”, cosa che “consente di conciliare obiettivi di profitto nell’ambito di logiche di mercato con profili di interesse pubblico”.

  • Covid 19 costa un calo di consumi e shopping on line nel settore beauty

    A fronte di un calo del fatturato delle imprese italiane della cosmetica stimato per la fine del 2020 dell’11,6%, con un valore di 10,5 miliardi di euro, del crollo dell’export del 15% e perciò della produzione per conto terzi, fortemente orientata ai mercati internazionali, del 15%, oltre al calo dei consumi interni del 9,3%, le imprese si interrogano sul futuro del tanto atteso 2021. Usciremo dalla crisi? La risposta la fornisce l’analisi congiunturale a cura dell’associazione Cosmetica Italia, che riunisce ad oggi 584 società del settore. Lo studio è stato presentato in un seminario web in diretta dalla sede dell’associazione afferente a Confindustria.

    “I dati sono negativi, – ha dichiarato Renato Ancorotti, presidente dell’associazione. – Vanno letti alla luce della chiusura di molti esercizi, delle tensioni sui mercati esteri, della difficoltà nel reperire le materie prime e del cambiamento delle abitudini di acquisto dei consumatori. Da questa situazione di crisi globale però ci saremmo aspettati stime ancora peggiori, invece il nostro settore dimostra una decisiva capacità di reazione dando prova di solidità, capacità imprenditoriale e resilienza tanto che gli investimenti in ricerca e innovazione continuano a rappresentare il 6% del fatturato, il doppio della media nazionale”.

    Alla fine del 2020, qualora non sopraggiunga la ripresa dei contagi, l’associazione prevede un calo del PIL del 9,5% a cui seguirà, nel 2021, un rimbalzo sostenuto del +5,4%, che resterebbe al di sotto di quello del 2019 di circa il 3,5%. Il recupero della crescita stabile non è perciò previsto prima di due anni. Il presidente Ancorotti ha quindi fatto un appello alle istituzioni affinché recepiscano il quadro di incertezza del comparto e supportino le imprese nella ripresa anche considerando una quota del Recovery Fund.

    “Nonostante le difficoltà dovute al quadro globale così incerto i nostri imprenditori si dicono fiduciosi, – ha spiegato Gian Andrea Positano, responsabile Centro Studi di Cosmetica Italia. – Registriamo un cauto ottimismo per il prossimo anno. Il 60,3% del campione che abbiamo intervistato ha dichiarato infatti che per il nuovo anno si aspetta un ritorno vicino alla normalità e gli indicatori ci fanno intravedere una previsione per il secondo semestre 2020 in recupero, seppure ancora negativa”.

    Anche gli italiani dalla comparsa del Covid-19 hanno radicalmente cambiato le loro abitudini beauty e, a negozi chiusi o progressivamente riaperti nella fase 2 e 3, non hanno più fatto assiduamente shopping in profumeria (che registra un calo del 24% rispetto al 2019), né in erboristeria (-25%) o con il ‘porta a porta’ (-30%). Diminuito anche il passaggio dal parrucchiere (-29%) o dall’estetista (-28,3%). Ha retto meglio il comparto dei mass-market con un calo lieve del’1,7%. Abbiamo però imparato a comprare i prodotti di bellezza online e per i dodici mesi del 2020 si stima che l’e-commerce crescerà del 35%. Nel lockdown, infatti, ben il 70 % degli italiani ha fatto shopping online e si prevede che non perderemo più questa una nuova abitudine.

  • Italiani sempre più popolo di mantenuti, grazie ai provvedimenti grillini

    Sempre più gli italiani che si aspettano di essere pagati per il solo fatto di esserci, aumentano infatti le famiglie con il Reddito o la pensione di cittadinanza. Il numero dei nuclei che beneficiano dell’aiuto ha superato, ad agosto, quota 1,3 milioni, coinvolgendo nel complesso oltre tre milioni di persone. La parte del leone la fa il Reddito (percepito da 1,17 milioni di famiglie, per oltre 2,9 milioni di cittadini) contro la pensione di cittadinanza (quasi 136 mila nuclei), la stessa misura ma riconosciuta agli over 67. Tanto che l’Rdc segna un incremento dei nuclei del 25% rispetto a gennaio scorso. La fotografia aggiornata arriva dall’osservatorio Inps, che certifica l’andamento della ‘carta’, che si può ottenere a fronte di un Isee (Indicatore di situazione economica equivalente) inferiore a 9.360 euro annui. Un andamento in crescita negli ultimi mesi, che potrebbe essere legato anche al progressivo invio delle pratiche Isee.

    La fotografia conferma, comunque, che Reddito e pensione di cittadinanza prendono una larga fetta della popolazione tra Sud e Isole, dove arrivano ad interessare più di 800mila famiglie, per oltre 2 milioni di cittadini (contro le quasi 304mila al Nord e 198mila famiglie al Centro). E nelle regioni più grandi. A livello regionale, infatti, in cima alla classifica si piazzano ancora Campania (265.753) e Sicilia (235.491), terza Lazio (122.489) e poi Puglia (119.727) e Lombardia (109.587).

    E’ partita, intanto, l’ultima finestra per il Reddito di emergenza, la misura temporanea di sostegno al reddito introdotta per supportare i nuclei familiari in una condizione di difficoltà economica a causa dell’emergenza Covid-19. L’aiuto oscilla tra i 400 e gli 800 euro a seconda dei componenti e può integrare l’Rdc. E’ infatti online sul sito dell’Inps la procedura per richiedere la terza mensilità del Rem, prevista nel decreto Agosto. “Un ulteriore sostegno economico per i cittadini più colpiti dagli effetti dell’epidemia”, sottolinea la ministra del Lavoro e delle Politiche sociali, Nunzia Catalfo. Per ottenere l’ulteriore mensilità va presentata una nuova domanda, indipendentemente dall’avere già richiesto, ed eventualmente ottenuto, il beneficio. Il termine entro cui farlo è il prossimo 15 ottobre.

  • Il tempismo francese e la irresponsabilità italiana

    Il presidente Conte e il ministro dell’economia Gualtieri hanno confermato che le risorse del Recovery Fund non verranno utilizzate per abbassare le tasse. Contemporaneamente in Francia il governo Marcon ha già presentato il piano per utilizzare le risorse europee varate al fine di offrire uno scenario di sviluppo all’economia europea nei prossimi anni.

    Nel nostro paese, invece, in piena e profonda recessione economica si attende, senza speranza, tale “governo” Conte il quale serenamente indica nel quindici (15) di ottobre la data per l’appuntamento nel quale prenderà contatti con l’Unione Europea.

    A seguito di questo primo contatto, i progetti per ottenere i finanziamenti da Recovery Found verranno presentati nei primi giorni di gennaio: 2021. Da quel momento del nuovo anno in poi si comincerà ad elaborare e sottoporre i progetti strategici economici per il cui finanziamento necessitano della approvazione europea.

    Il governo francese, con una grande tempistica, dimostra un’attenzione sicuramente più responsabile verso le conseguenze della crisi da covid-19. In questo senso, infatti, all’interno dell’articolato piano “Marshall” francese delle risorse disponibili, oltre venti (20) miliardi verranno utilizzati per abbassare le tasse. Una prima tranche per ridurre l’imposizione fiscale sul valore aggiunto (la nostra Iva) ed una seconda sulla fiscalità degli immobili strumentali (la nostra Imu). Come anticipato pochi giorni fa, la Francia sta ponendo in atto una avveduta strategia di politica economica finalizzata al raggiungimento del traguardo del secondo posto, come economia manifatturiera, in Europa ora appannaggio del nostro sistema industriale.

    Nella più assoluta distrazione di questo governo stiamo assistendo all’ultima tappa della desertificazione industriale ed economica del nostro paese guidata da una classe politica indegna la quale dimostra per l’ennesima volta un mix devastante di superficialità ed arroganza, classiche esalazioni di un deficit culturale.

    Non passa giorno in cui elementi del governo dichiarino la propria volontà della ricerca di svolta ecologica: un concetto privo di ogni riferimento economico reale ma soprattutto ignaro di ogni traguardo già raggiunto dal nostro sistema industriale.

    Va ricordato come proprio il nostro sistema industriale sia tra i meno impattanti sotto il profilo ambientale in ambito europeo (https://www.ilpattosociale.it/2018/12/10/sostenibilita-efficienza-energetica-e-sistemi-industriali/). La mancanza di conoscenza (l’ignoranza per intenderci) di questo ottimo traguardo già raggiunto dal sistema industriale italiano qualifica l’attuale governo il quale, nella determinazione delle linee guida relative all’utilizzo dei Recovery Fund, realizza il disastro perfetto economico. Un traguardo, invece, riconosciuto ed ammirato all’estero e per questo la Francia ora cerca di superare proprio nella componente industriale l’economia italiana.

    In un paese normale con un governo decente al fine di determinare le strategie economiche risulterebbe evidente partire dalla considerazione dei risultati e dei traguardi già raggiunti precedentemente alla crisi da covid-19, valorizzandoli ed offrendo agli esset industriali più supporto economico e finanziario. Ricordando, poi, come il fattore temporale risulti fondamentale nel conseguimento degli obiettivi da raggiungere.

    Viceversa, il governo, in preda ad un delirio ideologico ambientalista, si conferma incapace anche solo di comprendere come contenuti e tempistica rappresentino la sintesi per offrire una prospettiva di crescita del nostro Paese.

  • E se avesse ragione l’Olanda?

    Incredibili le affermazione del ministro De Micheli – colei che ha bloccato praticamente la Liguria applicando una delibera del 1967 relativa alle verifiche della sicurezza nelle gallerie nel mese di luglio invece che durante il lockdown – che, in merito alla selezione ex ante della distribuzione delle risorse finanziarie straordinarie, ha indicato come non meno del 40% del Recovery Fund verrà destinato al meridione d’Italia. Una strategia confermata dal Presidente del Consiglio il quale assegna al sud del Paese la priorità per quanto riguarda la distribuzione delle risorse del Recovery Fund.

    Di fronte quindi ad una scelta strategica e ad una valutazione tipicamente politica ex ante e non ex post, cioè successiva rispetto alle progettualità proposte, prende corpo l’ipotesi che avesse ragione l’Olanda la quale si dimostra ancora oggi molto scettica nei confronti dell’utilizzo di queste risorse da parte della nostra classe politica.

    Al di là delle motivazioni politiche che spingono i partiti nazionalisti olandesi a schierarsi contro il Recovery Fund, è evidente come il governo abbia intenzione di utilizzare questi fondi indipendentemente dai progetti, che rappresentano, invece, l’unica reale motivazione per accedere a tali finanziamenti.

    In questo senso va ricordato come già ora galleggino all’interno del bilancio italiano poco meno di 70 miliardi di fondi europei assolutamente inutilizzati per l’incapacità da parte della classe dirigente della pubblica amministrazione, come di quella politica, di presentare dei progetti da finanziare.

    Adesso il governo in carica imprime una lettura e soprattutto una strategia di applicazione nettamente politica all’interno della quale il Recovery Fund verrà utilizzato “con il principale fine redistributivo” e non tanto per finanziare i progetti che possano diventare volano di sviluppo per i quali probabilmente non esistono neanche le competenze professionali per redigerli.

    Questa classe politica di governo si propone come obiettivo il raggiungimento di una nuova pianificazione economica e sociale e quindi, ancora una volta, attraverso un piano di finanziamenti a pioggia indipendentemente dalle progettualità presentate.

    Chi avesse dei dubbi rispetto alle reali ragioni del trionfalismo di questo governo in relazione alla funzione del Recovery Fund ha trovato ora l’ennesima conferma da parte delle farneticanti affermazioni di questo ministro e dello stesso presidente del Consiglio che rappresentano il sentiment governativo.

    Dispiace molto dirlo ma avevano ed hanno ragione gli olandesi con le loro giustificate perplessità relative all’utilizzo delle risorse aggiuntive europee. Questa classe politica italiana, pur nella sua articolata complessità, non merita un euro in prestito e tanto meno a fondo perduto.

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