soldi

  • Recovery Plan: quattro successi e quattro sfide

    Altre volte, in vista di decisioni importanti, c’è voluto molto più tempo per siglare l’accordo. Anche per il Recovery, un rinvio a fine agosto avrebbe potuto starci, data la posta in gioco. Ma il Consiglio e la Commissione devono aver avuto una certa paura: di abbassare le cifre iniziali della proposta, di aspettare ancora, di non controllare la qualità della spesa. Paura di perdere la faccia presso i proprio elettori, con attese diverse in ciascun paese dell’Unione, di far crollare le borse, di farsi ridere da chi, da posizioni certo diverse, nell’Europa non vuole credere – Cina, Erdogan, Putin, e gli stessi Trump e Boris Johnson.

    Intrinsecamente più forte rispetto ad altre aree del mondo, soprattutto se davvero lo volesse, l’Europa ha fatto dei suoi timori la sua arma e ha sfoderato l’accordo. Una perla rara in un mondo dove si prova a uscire dal Covid con un Oriente diviso e spaventato dal crescente ruolo cinese, un mondo arabo in preda a rinnovati egoisti, un’America latina in stato confusionale, e con gli Stati Uniti che ancora devono trovare la propria strada tra problemi interni e la rinuncia al multilateralismo. In questo contesto e seppure con le sue contraddizioni, l’Europa ha sorpreso, si è voluta sorprendere lei stessa per ampiezza della risposta alla crisi innescata dal Covid. Per almeno quattro ragioni.

    1. Mai si è vista in Europa una mobilitazione finanziaria così elevata: 750 miliardi (390 di sovvenzioni e 360 di prestiti di cui 209 destinati all’Italia, il paese che ne ottiene più di altri), più i 1.074 miliardi del bilancio pluriannuale 2021-2027. A queste risorse si aggiungono le altre già stanziate – SURE, la Banca Europea degli Investimenti, le aggiunte ai fondi per la ricerca e la protezione civile – tanto da giungere ai duemila miliardi che molti ritenevano una balla propagandistica.
    2. Cifre così elevate mettono in ombra la rivoluzione più profonda del nuovo Fondo: il ricorso all’emissione di titoli di debito comune per 750 miliardi, con interessi che saranno pagati dal bilancio comunitario. Strumenti di finanza europea che i federalisti hanno chiesto invano per quasi vent’anni. Che ci si arrivi tardi non è una ragione per non festeggiare.
    3. Com’era giusto che fosse, lo scontro non è stato tanto sulle cifre (di fatto inalterate rispetto alla proposta della Commissione), ma sulle condizioni di utilizzo: una preoccupazione non solo di Paesi Bassi e altri “frugali”, ma anche di chi come noi hanno assistito per decenni allo spreco o al mancato utilizzo dei fondi europei destinati all’Italia e hanno già più volte denunciato i sette primati negativi del paese rispetto al resto d’Europa – inefficienza della pubblica amministrazione, corruzione, economia sommersa, evasione e giungla tributaria, crimine organizzato, costo delle istituzioni, moltiplicazione dei centri decisionale e di spesa. La formula finale è tipica di un compromesso che fa contenti tutti: vi sono ottime aree prioritarie di spesa – agenda digitale, sostenibilità ambientale, aggiornamento della burocrazia e della giustizia, e altre priorità europee – e un meccanismo di controllo dell’impiego delle risorse che impegna il governo beneficiario, poi la Commissione e se necessario il Consiglio, a maggioranza qualificata e con tempi certi.

    Se per alcuni aspetti avremmo auspicato un coinvolgimento anche maggiore da parte della Commissione, la combinazione di elevate risorse, programmazione di aree strategiche e procedure di controllo, remano verso la creazione di quel governo economico europeo invocato dai federalisti e osteggiato dai sovranisti, ma che seppure a piccoli passi si sta plasmando come una necessità per gestire la sempre più interdipendente e complessa Europa.

    1. Dal vertice escono vincitori i governi più europeisti: il solito asse franco-tedesco, la Spagna e il Portogallo, il Belgio e il Lussemburgo, e soprattutto l’Italia e in particolare il Presidente del Consiglio. Conte torna a Roma perfino con più risorse di quelle che si potevano prevedere alla vigilia e con condizionalità comunque virtuose: una lezione a chi, nell’opposizione ma anche nella maggioranza, ha gufato contro la scommessa europeista.

    Non sono successi che s’improvvisano: per quanto possa sorprendere, la capacità di intessere relazioni umane dirette, di crearsi una propria credibilità personale, sono elementi cruciali in un negoziato europeo – quasi quanto la forza di cui un paese dispone a monte. Giuseppe Conte, già dal suo primo governo, ha saputo creare questi rapporti e si è districato ammirevolmente tra Rutte e Orban, tra Macron e la Merkel, tra la van der Leyen e Michel, usando a giuste dose i toni forti e la persuasione. Gli italiani che invocano una maggioranza di centro-destra dovrebbero capire che essa non avrebbe mai potuto ottenere 209 miliardi dall’Europa, di cui 81 a fondo perduto. E con i fondi ordinari del periodo 2021-2027 si arriva a 250 miliardi…

    Questa storia però non è un “lieto fine”. Perché è solo l’inizio di quattro partite ben più difficili, tre per il governo e per tutta l’Italia, e una per l’Europa.

    1. La prima è la questione dei 37 miliardi aggiuntivi del MES, su cui maggioranza e opposizione sono divise al loro interno. L’ottimo risultato sul Recovery non dovrebbe far calare l’interesse per il MES. Tenendo conto delle condizioni di controllo previste dal Recovery, il MES offre addirittura margini di autonomia maggiori, seppure indirizzati nel solo, ma vitale, settore della spesa sanitaria. E dopo aver ricevuto oltre 200 miliardi di altri fondi UE non possiamo credere che l’Italia si possa trovare nell’impossibilitò di rimborsare un prestito a tassi zero e lunga scadenza, condizioni mille volte migliori di quelle offerte dal mercato, e dunque di cadere sotto l’amministrazione controllata della troika. Se questo accadesse, vorrebbe dire che il paese sarebbe già al collasso, e la classe politica italiana si meriterebbe di essere messa sotto libertà vigilata.
    2. MES o non MES, resta il nodo del buon utilizzo di questo improvviso patrimonio. I precedenti italiani e anche le esitazioni dell’esecutivo in carica non promettono niente di buono e le preoccupazioni di certi paesi europei sono anche nostre. Con venti regioni, l’unico parlamento al mondo con un bicameralismo perfetto, una confusione normativa e di ruoli sistemica e una cultura nazionale piegata al modello assistenzialistico, Conte e il governo rischiano di trasformare il successo europeo in un fallimento paradossale se non sapranno impiegare presto e bene questi oltre duecento miliardi. Sotto questo profilo, finora non si vedono elementi che possano rassicurare.

    Giorgio La Malfa ha lanciato una proposta forte: creare una sorta di commissario alla gestione di queste risorse, nella persona di Mario Draghi. La garanzia non sta solo nel nome, super-partes e di alta credibilità internazionale, ma anche in un meccanismo che eviti una “spartizione del bottino” con logiche del tanto-a-me-tanto-a-te, tra ministeri e tra regioni, senza una visione di fondo. Draghi saprebbe come fare per il bene del paese.

    1. Tuttavia, il paese non può perversare nell’abitudine di risolvere i suoi problemi con task-force e commissari, e dunque in deroga. Occorre mettere mano alle regole ordinarie e approfittare di questa bizzarra congiuntura – massimo crollo del pil e massimo aiuto europeo – per procedere a riforme che procedano per riduzione e non per aggiunte, attaccando con decisione quei sette vizi che abbiamo già ricordato, riformando le pensioni, giustizia, scuola. Se ne parla da secoli, così come da secoli si era parlato di eurobond – ora non ci sono più scuse. Senza questa svolta avremo perso una delle migliori occasioni per rendere l’Italia un paese più giusto, più coeso più moderno, più prospero; avremo perso solo altro tempo e denaro e li avremo fatti perdere all’Europa. Qualcuno dirà che non sarebbe un dramma: manterremo la nostra “sovranità”, i nostri giovani continueranno a cercare lavoro in Europa e gli europei continueranno a volerci bene e a venire in Italia – ma solo in vacanza.
    2. Se l’Italia deve affrontare senza paura le sue riforme, anche l’Unione Europea deve riscrivere le sue regole. La crisi del Covid non si ripresenterà spesso, ma chissà, e non si possono fare le cinque di mattina ogni volta. In ogni caso c’è qualcosa di folle nello stanziamento di duemila miliardi senza disporre alle spalle di una vera Europa federale. Come gli italiani a casa loro, anche tutta l’Europa non deve trasformare un successo in una perdita di tempo, e deve procedere a un nuovo trattato, con fiscalità comune, difesa comune, politica estera veramente comune, ricerca comune, e anche sanità pubblica comune. Per come vanno le cose altrove, da questa scelta di fondo ne va della prosperità degli europei, ma anche del futuro del mondo libero.

    Niccolò Rinaldi

    Responsabile politiche europee PRI e Presidente di Liberi Cittadini

  • Soldi in più ma per le imprese

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi apparso ‘ItaliaOggi’ il 6 giugno 2020

    Nelle poche settimane dominate dai lockdown per il Covid-19 il bilancio della Federal Reserve è passato da 4 mila a 7 mila miliardi di dollari. È l’effetto della disponibilità illimitata di liquidità annunciata dalla Banca centrale e dalla decisione del Congresso americano di stanziare circa 3.000 miliardi di dollari, pari al 14% del Pil, per sostenere vari settori economici.

    Il debito pubblico inevitabilmente aumenta. Molti economisti, però, concordano sulla necessità che, durante la crisi, le spese pubbliche debbano rimpiazzare quelle private in netta diminuzione. Pochi altri, tra cui il Washington Post, restano, tuttavia, sempre dell’idea che l’austerità sia la soluzione migliore.

    Le scelte e i comportamenti economici adottati negli Usa meritano grande attenzione poiché, in fin dei conti, sono sempre, purtroppo, «copiati» dall’Europa. Infatti, la Bce ha aumentato il suo bilancio dai 4.600 miliardi di euro di fine 2019 ai 5.500 miliardi dell’inizio di giugno.

    Adesso ha aggiunto altri 600 miliardi di euro per acquistare la stessa tipologia di titoli che sta comprando la Fed.

    Fermare la spesa pubblica sarebbe un grave errore. Il vero dibattito negli Stati Uniti riguarda, però, alcuni punti cruciali. Lasciare che i nuovi fondi siano «sequestrati» dalla finanza più speculativa oppure orientarli con forza verso i settori dell’economia reale?

    Tappare soltanto i buchi creati dalla crisi oppure ritornare alle politiche di Franklin Delano Roosevelt e in particolare al suo New Deal fatto di grandi investimenti, infrastrutture e innovazioni? Ma, quali saranno i tempi di decisione e di realizzazione?

    Per il momento le prime mosse sono state della grande finanza e del sistema bancario. Essi erano in una situazione di grande crisi, di quasi bancarotta, già prima della pandemia.

    Come in passato la liquidità della Fed è stata finalizzata all’acquisto di titoli del debito pubblico e in particolare degli asset backed security. Anche quelli di dubbia validità e consistenza, in possesso delle stesse banche e delle altre strutture finanziarie non bancarie che fanno parte del cosiddetto shadow banking.

    Questi alleggerimenti dei bilanci delle banche dovrebbero essere controbilanciati, in misura uguale se non superiore, attraverso l’emissione di nuovi crediti verso i settori produttivi in difficoltà e verso nuovi investimenti. Come in passato, però, questo «travaso» è fatto in modo estremamente lento e limitato. La gran parte dei fondi va a coprire i loro pericolosi buchi finanziari oppure rimane semplicemente parcheggiata nelle banche. È la stessa cosa che stiamo sperimentando in Europa. Purtroppo anche in Italia.

    Si tratta di un comportamento che prescinde dalle responsabilità dirette dei governi di qualsiasi orientamento politico siano. Ha, invece, a che fare con la loro debolezza.

    Negli Usa, questo processo sta già avvenendo con i private equity fund operanti in vari settori. A livello mondiale gestiscono attivi per 6.000 miliardi di dollari. Sono fondi d’investimento che acquistano azioni o partecipazioni in imprese produttive spesso al solo scopo di estrarne il massimo profitto nel breve periodo.

    Se poi dette imprese rischiano il fallimento, si può sempre chiedere il bail out con i soldi pubblici. Secondo il Financial Times, il semplice fatto che la Fed abbia detto di voler acquistare anche titoli in grande difficoltà, avrebbe grandemente galvanizzato il mercato degli junk bond.

    Anzitutto il settore della distribuzione al dettaglio. Dopo avere distribuito lauti dividendi per un decennio, le catene di negozi di abbigliamento e fashion di media e alta fascia, come la J. Crew, la texana Neiman Marcus e i grandi magazzini della Jc Penney, durante la pandemia hanno dichiarato bancarotta, appellandosi al Chapter 11. In passato i private equity li avevano enormemente indebitati attraverso operazioni di leverage buyouts, che sono complesse operazioni di acquisizione di un’impresa attraverso la sua capacità di indebitamento. La perdita di clienti e la diminuzione degli acquisti hanno ridotto il flusso di cassa e mandato velocemente in tilt il sistema.

    Un altro settore in grave affanno è quello degli immobili in affitto. Grandi fondi hanno acquistato un numero enorme di appartamenti negli Stati Uniti, ma anche in Europa, scommettendo sull’aumento degli affitti per la classe medio-alta. Per esempio, il più grande private equity fund, il Blackstone Group, è diventato il proprietario numero uno al mondo. Quando, però, il valore degli immobili scende, il sistema scricchiola.

    Lo stesso dicasi per la bolla del credito al consumo. Nel 2020 il debito delle carte di credito negli Usa ha raggiunto i mille miliardi di dollari. Il Covid-19 ha ridotto drasticamente il reddito di almeno un terzo dei lavoratori americani. Di conseguenza, anche i programmi di sostegno dei debiti accesi dai fondi, basati su un flusso continuo e crescente di introiti, crollano.

    Non è molto rassicurante vedere come i governi siano stati capaci di imporre il lockdown all’economia reale ma che lascino la finanza operare as usual. Ancora una volta dobbiamo sottolineare che è intollerabile tollerare che i fondi pubblici per il rilancio e la liquidità delle banche centrali siano fatti fluire nell’economia reale attraverso il sistema bancario privato. Senza condizioni e controlli puntuali, stringenti e rigorosi! Problema enorme e serio. Non solo in Italia, ma in tutto il mondo.

    *già sottosegretario all’Economia **economista

  • Contante e Telepass finanziario

    La considerazione relativa all’utilizzo o meno nelle transazioni commerciali del contante troppo spesso viene influenzata, ma soprattutto stravolta, dall’ideologia politica la quale, all’interno di  un prossimo confronto elettorale, diventa uno strumento di consenso per il proprio elettorato.

    Da oltre vent’anni la lotta al contante ha visto come sostenitrice buona parte della sinistra ma anche  di quelle forze politiche portatrici  di un concetto di “stato etico”. Paradossalmente, poi, molto spesso queste stesse forze politiche risultano completamente digiune di economia reale ma soprattutto ignare persino delle legislazioni vigenti nei paesi dell’Unione Europea, della quale peraltro si considerano  sostenitrici.

    Ora, di fronte a una difficilissima ripresa del ciclo economico interrotto dal lockdown, il mondo della finanza e degli Istituti bancari assieme alle aziende telefoniche stanno riproponendo  una nuova campagna di  comunicazione per cercare di ridurre al massimo l’utilizzo del contante. Quello che nessuno riesce a mettere in evidenza, al di là delle legittime posizioni politiche influenzate dalle ideologie di appartenenza, viene rappresentato dall’evidente conflitto di interessi che i soggetti imprenditoriali propongono nell’abolizione del contante.

    Il sistema bancario all’interno di un periodo  economico caratterizzato fin dal 2015 da una forte  liquidità (Q.E.) considera un’opportunità per la propria ricerca di marginalità la creazione di un sistema di moneta elettronico sempre più sviluppato sulle cui transazioni commerciali applicare le proprie “aliquote di transazione” molto simili ad un “Telepass finanziario” di un sistema autostradale virtuale creato dai medesimi soggetti pesantemente in conflitto di interessi.

    La medesima opportunità in questo modo viene creata anche per le compagnie telefoniche sulle cui reti viaggiano queste transazioni il cui aumento non farebbe altro che moltiplicare i  profitti. Senza dimenticare il mondo della Finanza il quale intuisce chiaramente l’opportunità di masse di denaro che ha interamente depositate presso gli Istituti bancari. Questo quadro potenziale si rivelerà disastroso quanto la scelta di abolire la differenziazione tra banche commerciali e banche d’affari voluta dal Presidente degli Stati Uniti Bill Clinton.

    Certamente la politica che dovrebbe esprimere una propria ideologia espressione di scale valoriali si ritrova viceversa ad essere artefice e portatrice di  uno scenario economico finanziario lontano da un  sistema democratico e liberale.

    Paradossale poi che tutta questa attenzione che il  sistema politico regala alla questione del contante rappresenti  l’ennesima dimostrazione di un’incapacità di controllare le fonti di reddito, determinando così la confessione e l’ammissione di non essere in grado di controllarle e così rifugiarsi nel controllo dei meccanismi e delle modalità di spesa.

    Un sistema liberale e democratico offre la libertà ai propri cittadini di utilizzare le diverse  forme di pagamento ritenute più vicine alle proprie esigenze in quanto espressione di risorse economiche  legittime.

    In altre parole l’assoluta inadeguatezza di un sistema statale incapace di applicare le leggi anche in materia fiscale si rifugia in uno stato Socialista che vuole determinare attraverso semplici forme di pagamento il  controllo etico. La supremazia dello Stato in questo particolare momento nel quale dovrebbe vedere  allentati tutti i vincoli per ridare forza ed  energia alla ripartenza del ciclo economico sta assumendo sempre più le caratteristiche di uno Stato etico e socialista in nome del quale opera  una  nuova gendarmeria burocratica.

  • Soldi investiti? No, sono in fuga

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi** apparso su ‘ItaliaOggi’ il 23 maggio 2020 

    Gli investimenti diretti esteri (Fdi è l’acronimo in inglese) possono avere un ruolo molto importante per lo sviluppo economico, per l’aumento della produttività e dell’occupazione e per l’integrazione internazionale. Perciò, tutti i Paesi sono interessati ad attrarli. Vari centri studi, tra cui quelli dell’Ocse e del Fmi, ritengono che ammontino a oltre 40 mila mld di dollari.

    Però, di questi, almeno 15 mila miliardi, pari a quasi il 40% del totale, sarebbero «investimenti fantasma», registrati in alcuni Paesi noti come dei paradisi fiscali, allo scopo, soprattutto, di evitare di pagare le tasse o per pagarne il meno possibile. La situazione, anche in questo campo, invece di essere stata sottoposta a controlli e a restrizioni, è peggiorata dopo la Grande Crisi del 2008, quando la percentuale era del 30%.

    Altri studi confermano che, oltre ai citati investimenti diretti esteri, anche il 40% dei profitti delle stesse multinazionali finisce nei paradisi fiscali. Ciò avviene nonostante che dal 1985 al 2018 il «global corporate tax rate», la media mondiale della tassazione sui profitti delle imprese, sia scesa dal 49 al 24%. Nel 2015 il profitto globale delle multinazionali è stato di 1.700 miliardi di dollari. Si calcola che di questi il 36%, circa 600 miliardi, sia stato «dirottato» nei paradisi fiscali.

    Si possono definire «investimenti fantasma» perché sono trasferimenti, oltre i vari confini, fatti da imprese che fanno parte dello stesso gruppo internazionale, passando attraverso dei «contenitori» vuoti localizzati nei paradisi fiscali. Questi contenitori sono dei veicoli che non sono coinvolti in alcuna attività reale. Servono soltanto per i giochi fiscali. È sorprendente che la metà degli investimenti fantasma transiti in due Paesi dell’Ue, Olanda e Lussemburgo, ben noti paradisi fiscali! Cosa sicuramente scandalosa e inaccettabile, ancora di più adesso che l’Europa si trova in grave emergenza economica per gli effetti della pandemia Covid-19. Se a loro si aggiungessero Hong Kong, le Virgin Islands britanniche, Bermuda, Singapore, le isole Cayman, la Svizzera, l’Irlanda e Mauritius, questo gruppo di dieci Paesi sarebbe responsabile per l’85% degli «investimenti fantasma».

    Nel piccolo Lussemburgo, per esempio, arrivano investimenti esteri pari a 4mila mld $, tanto quanti gli Usa e più di quelli della Cina. Naturalmente per attrarre così tanti investimenti virtuali i paradisi fiscali e i centri off-shore offrono un livello di tassazione molto basso, molto più basso dei Paesi dove sono realizzate le attività reali. Offrono, inoltre, una serie di altri servizi, quali l’anonimato, la scarsa trasparenza e un sistema giuridico a dir poco compiacente. Offerte molto apprezzate da chi vuole evadere o eludere la tassazione ed evitare controlli più stringenti sulle proprie attività.

    Negli anni Ottanta, l’Irlanda aveva una tassa sui redditi d’impresa del 50%. Oggi è del 12,5%. La legge irlandese si presta anche a «soluzioni fiscali creative». Si pensi all’operazione chiamata «doppia birra irlandese con un panino olandese», che prevede il trasferimento dei profitti di multinazionali registrate in Irlanda e in Olanda verso le isole Cayman. In questo modo sembra che le corporation in questione arrivino addirittura a pagare zero tasse, o quasi. Inoltre, in Irlanda il rapporto profitto/salari è pari all’800%, poiché le imprese straniere registrate nel Paese possono dire di avere dei profitti altissimi in rapporto ai pochi lavoratori dipendenti in loco.

    Spesso economisti e analisti male informati o interessati portano l’Irlanda, per la sua bassa tassazione e la sua crescita del Pil, come esempio di gestione virtuosa. Ma dimenticano di dire che gli alti ricavi derivano soprattutto dagli investimenti esteri che arrivano nel Paese proprio per la bassa tassazione. È stato calcolato che, se tutti i Paesi del mondo applicassero la stessa tassa sui redditi delle imprese, le fughe verso i paradisi fiscali quasi scomparirebbero. Ciò produrrebbe un aumento delle entrate fiscali del 15% nei Paesi Ue e del 10% negli Usa e una loro diminuzione del 60% nei paradisi fiscali.

    Queste problematiche sono emerse prepotentemente anche in Italia in seguito alla richiesta di credito avanzata al governo dalla Fiat per ben 6,3 miliardi di euro. Fca, com’è noto, opera in Italia ma ha la sede legale in Olanda e quella fiscale in Gran Bretagna. In Europa la concorrenza relativa alla tassazione dei profitti delle multinazionali ha assunto aspetti intollerabili. Si pensi soltanto che ben 6 Paesi, Irlanda, Lussemburgo, Belgio, Olanda, Malta e Cipro, che hanno fatto parte del gruppo originario dell’Unione prima della sua estensione all’Est Europa, sono considerati paradisi fiscali!

    Una seria riforma fiscale a livello europeo, che valga per tutti i 27 Paesi Ue, non è più rinviabile. È necessaria, urgente e decisiva per l’effettiva realizzazione dell’Europa unita e federale.

    *già sottosegretario all’Economia **economista

  • La metastasi finanziaria

    Da oltre un mese il governo ha sempre confermato la piena disponibilità ad accedere ai finanziamenti fino a 25.000 euro o ad una cifra pari al 25% del fatturato senza valutazione patrimoniale e quindi direttamente disponibile nel conto corrente. Al di là della sconcertante tempistica per l’evasione di queste pratiche tale volontà governativa avrebbe dovuto fornire liquidità alle imprese dopo oltre sessanta  giorni di assoluto lockdown ed interruzione dei flussi di cassa.

    A tutt’oggi solo una minima parte di questi finanziamenti risultano erogati mentre per quelli già resi operativi la criticità emerge sino ad assumere i connotati di una vera e propria truffa. A fronte di una richiesta di 20.000 euro o il 25% del fatturato di una partita IVA la quale aveva già precedentemente un accordo con l’istituto bancario per un fido di 10.000 il finanziamento complessivo che viene accreditato sul conto risulta dalla differenza tra l’ammontare, cioè 20.000 euro, ed il fido preesistente. Questa operazione rappresenta una vera e propria truffa in quanto il finanziamento dello Stato può essere utilizzato per far fronte alle scadenze che da oltre 60 giorni attendono di essere evase ma non per coprire posizioni finanziarie precedentemente debitorie.

    In altre parole, gli Istituti bancari con il tacito consenso o peggio la complice ignoranza del governo utilizzano il finanziamento erogato per assicurare tutti i rientri dai fidi drenando di conseguenza buona parte di quella liquidità che lo Stato con grande fatica ha messo a disposizione come espressione per un reale e consistente incentivo alla ripresa economica.

    Questa situazione rappresenta un vero e proprio “golpe finanziario” in quanto le risorse immesse nel circuito e destinate a dei soggetti economici vengono drenate dal sistema bancario per sanare le proprie criticità. In un simile contesto risulta paradossale il fatto poi che qualora si dovesse accedere nuovamente ad un fido si pagherebbero degli interessi aggiuntivi a quelli sulla erogazione della liquidità dello stato.

    Quindi l’erogazione risulta utilizzata sostanzialmente dagli Istituti bancari per criticità finanziarie pregresse ma non per servizi alle imprese. Una truffa che rappresenta l’ennesima conferma di una complicità, se conosciuta, o ignoranza, nel caso opposto, da parte del Governo e di una inaudita disonestà da parte del sistema bancario.

    A queste condizioni il nostro Paese è destinato alla metastasi economica.

  • Dal decreto liquidità ai soldi in banca

    In un recente articolo abbiamo ripercorso le iniziative messe in campo dal Governo, in particolare con il decreto liquidità, per sostenere le imprese. Superate le problematiche connesse con l’attività prodromica quali redazioni di business plan e assenza di segnali di crisi nella situazione ante pandemia, proviamo a analizzare oggi il processo per la richiesta dei “gettonatissimi” 25.000 euro. Apparentemente la procedura dovrebbe essere molto snella e rapida proprio perché il fattore tempo risulta essenziale. Non solo il sostegno deve arrivare, ma deve arrivare velocemente pena diventare inutile.

    Il primo passo da fare è compilare l’allegato 4 bis “Modulo per la richiesta di garanzia su finanziamenti di importo fino a 25.000 euro ai sensi della lettera m), comma 1 dell’art. 13 del DL liquidità” (scaricabile dal seguente link: https://www.fondidigaranzia.it/normativa-e-modulistica/modulistica/).

    Chi si immaginasse una semplice richiesta di una paginetta, dovrà ricredersi, trovandosi di fronte a un modello complesso di 8 pagine, ricco di dichiarazioni e richieste di dati tutt’altro che banali. Per esempio, al punto 6 il beneficiario “in particolare, dichiara di accettare che, a seguito della liquidazione della perdita al soggetto finanziatore, il Fondo acquisisce il diritto di rivalersi sullo stesso soggetto beneficiario finale per le somme pagate, e proporzionalmente all’ammontare di queste ultime, il Fondo si surroga in tutti i diritti spettanti al soggetto finanziatore” a sottolineare il fatto che trattasi di prestiti e non di sussidi a fondo perduto per cui l’imprenditore sarà comunque tenuto a rispettare i propri impegni e quindi a ponderare attentamente la propria capacità di far fronte alle obbligazioni assunte.  La garanzia del Fondo indennizza la banca, alla quale si surroga, nel diritto di credito, verso il beneficiario finale.

    Al punto 13 andranno indicate le finalità del prestito. Secondo le indicazioni dell’ABI si potranno anche dichiarare semplici esigenze di liquidità. Ovviamente, sono altrettanto plausibili richieste per investimenti produttivi o approvvigionamento di scorte. Finalità che, ovviamente, dovranno poi essere rispettate.

    Al punto 14 il soggetto dichiara che l’attività d’impresa è stata danneggiata dall’emergenza COVID-19. Attenzione alla sostenibilità e dimostrabilità di tale affermazione. Non si tratta di un finanziamento per tutti, ma per aiutare coloro che sono stati danneggiati dai provvedimenti di contenimento dell’infezione.

    Al punto seguente andranno dichiarati i ricavi realizzati in base all’ultimo bilancio depositato o dichiarazione fiscale presentata.

    Altro punto da attenzionare è il 17, in cui andranno specificati gli ulteriori aiuti di stato ricevuti e ricollegabili all’emergenza Covid 19 (si fa esplicito riferimento, infatti, alla comunicazione della Commissione Europea del 19 marzo 2020).

    Meritevole di attenzione anche la scheda 2 relativa al tipo di impresa e ai parametri dimensionali.

    Nella maggioranza dei casi, soprattutto per le realtà più piccole, sarà necessario far riferimento ai propri consulenti per la comprensione del modello e la conseguente corretta e consapevole compilazione.

    Oltre a questo modulo per l’attivazione della garanzia statale, che ricordiamo essere gratuita, occorrerà sottoscrivere la richiesta del finanziamento alla banca erogante.

    Nella propria circolare operativa, l’ABI, specifica che “Il rilascio della garanzia è automatico e gratuito, senza alcuna valutazione da parte del Fondo. La Banca potrà pertanto erogare il finanziamento con la sola verifica formale del possesso dei requisiti, senza attendere l’esito dell’istruttoria del gestore del Fondo medesimo”. Dal tenore della dichiarazione dovrebbe conseguire la snellezza dell’operatività con l’istituto finanziario e la tempestività dell’erogazione.

    Ebbene, sembra che non sempre sia così, come denunciato dall’Associazione Nazionale dei Dottori Commercialisti nel proprio comunicato stampa del 29 aprile 2020.

    L’associazione denuncia comportamenti difformi, più o meno gravi, che snaturano la natura del sostegno e complicano il suo ottenimento e la sua portata.

    Tra le pratiche più scorrette viene denunciata la richiesta di fideiussioni personali. Speriamo che tali casi siano veramente sporadici, invitando i richiedenti a non sottostare a tali indebite richieste e a far rilevare prontamente gli abusi.

    Analogamente deplorevoli le richieste di copertura di esistenti posizioni debitorie pregresse presso la banca. Anche queste richieste non sono compatibili con la normativa di cui all’art. 13 lett. m del decreto cura Italia.

    Meno gravi, ma comunque penalizzanti, le richieste di molteplici documenti per l’istruttoria che tendono a snaturare il finanziamento che, nelle intenzioni del Legislatore, sarebbe dovuto essere molto semplice e non subordinato alla valutazione del merito creditizio, essendo garantito al 100% dallo Stato.

    Tema ancora aperto sarà quello dei tempi di erogazioni di cui, al momento, non si hanno evidenze.

  • Soldi in cambio di responsabilità: come funzionerà il Mes leggero per sostenere la sanità pubblica

    La Commissione europea monitorerà le spese degli Stati membri che accederanno alle linee di credito del Mes in linea con l’accordo politico raggiunto dai governi. Secondo quanto trapelato prima della presentazione ufficiale del Mes da parte della Commissione stessa, la sorveglianza riguarderà la coerenza tra le spese e gli obiettivi di spesa sanitaria. Così l’esecutivo europeo commenta le ipotesi di una ‘sorveglianza rafforzata’ da parte di Bruxelles sui paesi che chiederanno i finanziamenti del Fondo salva Stati per fronteggiare la crisi economica scatenata dal coronavirus. La Commissione “sarà chiamata a vigilare la coerenza delle spese che verranno effettuate e gli obiettivi di spesa e prevenzione in campo sanitario”, dice il commissario all’Economia, Paolo Gentiloni. “Si lavora per adattare regolamenti figli di un’epoca precedente alle decisioni politiche” prese all’Eurogruppo e poi adottate dal Consiglio europeo, sottolinea l’ex premier. “E le decisioni politiche sono quelle che verranno rispettate”. Una portavoce della Commissione ha confermato che l’esecutivo Ue “non ha ancora preso decisioni sull’implementazione dell’accordo” sulle linee di credito del Mes, ma “tutti i sistemi di sorveglianza e di monitoraggio saranno in linea con l’accordo politico raggiunto all’Eurogruppo e al Consiglio Europeo”.

    L’accordo raggiunto dai governi prevede che l’accesso al Mes senza condizionalità possa essere richiesto dai paesi per fronteggiare le spese sanitarie dirette e indirette. Al momento quindi, la Commissione dovrebbe limitarsi a controllare che i fondi vengano effettivamente utilizzati dagli Stati per le spese sanitarie legate alla pandemia di Covid-19, ulteriori eventuali strette saranno oggetto di trattativa tra i governi. In attesa che la Commissione metta sul tavolo la sua proposta sul Recovery Fund legato al bilancio pluriennale della Ue, (che sarà operativo solo nel 2021), l’esecutivo Ue apre di nuovo alla possibilità che a causa dell’urgenza dei paesi più colpiti dalla crisi, Italia in testa, si possa ricorrere a una soluzione ponte. “Riconosciamo che serve una soluzione ponte tra oggi e l’avvio del quadro finanziario pluriennale e dello strumento per la ripresa”, dice il portavoce della Commissione, Eric Mamer. “Serve una soluzione transitoria che permetta di incoraggiare investimenti prima dell’entrata in funzione del quadro finanziario pluriennale e dello strumento per la ripresa”. Proprio ieri la Commissione aveva annunciato che il Recovery Fund sarà operativo solo nel gennaio 2021. Ma anche secondo Gentiloni bisogna fare in fretta: subito dopo la diffusione del dato del Pil del primo trimestre crollato del 3,8% nella zona euro, il commissario Ue ha parlato di “shock senza precedenti”. Ed è per questo, ha aggiunto, “che serve un piano per la ripresa che sia sufficientemente grande, mirato alle economie e ai settori più colpiti, e che possa essere dispiegato nei prossimi mesi. Se non ora, quando?

  • Decreto liquidità, opportunità da valutare con attenzione

    Con il decreto “liquidità” del 8 marzo 2020, il Governo ha inteso dare una risposta forte all’emergenza economica scaturita dall’infezione pandemica da covid-19.

    Due sono i principali interventi proposti che analizzeremo succintamente.

    Il primo, seguendo l’ordine di trattazione proposto nel decreto, è la garanzia prestata dalla SACE per il sostegno di medie e grandi imprese. Il decreto ha esteso l’accesso anche alle PMI e alle partite iva individuali subordinatamente all’esaurimento della loro capacità di utilizzo del Fondo Centrale di Garanzia. La garanzia è concessa per importi variabili dal 70% al 90%, a costi calmierati. L’importo del finanziamento non può superare il maggiore tra il fatturato del 2019 o il doppio dei costi del personale del medesimo anno.

    Per ottenere la garanzia, l’impresa dovrà assumere impegni di non poco conto. Il più oneroso, a mio avviso, sarà quello di gestire i livelli occupazionali tramite le organizzazioni sindacali. Sarà necessario, ancora, impegnarsi a non distribuire i dividendi nel 2020 né a procedere al riacquisto di azioni proprie. Infine, gli importi ottenuti dovranno essere destinati a stabilimenti produttivi in Italia per sostenere i costi del personale, gli investimenti e il pagamento di fornitori del ciclo produttivo.

    Il decreto prevede anche di potenziare il sostegno pubblico all’esportazione introducendo un sistema di coassicurazione in base al quale gli impegni assunti da SACE verranno traslati sullo stato per il 90%, liberando in tal modo risorse per l’istituto.

    Il secondo strumento è rappresentato dal Fondo Centrale di Garanzia riservato alle PMI, alle ditte individuali e ai professionisti. L’accesso al Fondo è esteso, in deroga alla definizione comunitaria, alle aziende fino a 499 dipendenti. La garanzia è concessa dal 80% al 90%. Una corsia preferenziale con garanzia fino al 100% è prevista per i prestiti fino a 25.000 euro nel rispetto del limite del 25% dei ricavi dell’ultimo bilancio o dell’ultima dichiarazione fiscale presentati. Contrariamente a quanto previsto per SACE, la garanzia è concessa a titolo gratuito. Sono possibili operazioni di rinegoziazione del debito purché prevedano l’erogazione di liquidità aggiuntiva almeno pari al 10%.

    Proprio quest’ultima opportunità potrebbe essere particolarmente interessante e quindi incentivata dagli istituti bancari che potranno, lecitamente, surrogare i propri crediti chirografari con posizioni garantite.

    Per completare il panorama, si ricorda l’estensione ai liberi professionisti e ai titolari di partita iva della facoltà di aderire al fondo di solidarietà per la sospensione delle rate dei mutui sulla prima casa nonché la moratoria, già prevista dal DL Cura Italia, fino al 30 settembre di mutui e finanziamenti nonché l’impossibilità di revoca degli affidamenti.

    La prima considerazione che mi permetto di fare è che in nessuno dei casi analizzati è in realtà prevista l’iniezione di nuova liquidità a carico dello Stato. Quest’ultimo si “limita” a garantire il credito che verrà erogato dal sistema bancario.

    Non essendo previsti interventi a fondo perduto, si assisterà ad una dilatazione dei debiti delle imprese con il concreto rischio di spostare, solo di qualche tempo, il prevedibile default di una parte di soggetti che non saranno in grado di ripagare il debito.

    Questo rischio implica attente valutazioni da parte degli amministratori in merito allo stato di salute dell’azienda e alle possibilità di onorare puntualmente i debiti contratti.

    Nel decreto, infatti, non sono previste clausole che disapplichino la responsabilità di amministratori e degli istituti di credito per il ricorso abusivo al credito.

    Ancora una volta, quindi, sarà opportuna un’attenta pianificazione finanziaria che dimostri la sostenibilità dei debiti e che venga costantemente monitorata e aggiornata sulla base dei dati via via consolidati e di eventuali cambiamenti di scenari. Attività, questa, particolarmente complessa stante la difficoltà, allo stato attuale, di effettuare previsioni a medio lungo termine. Sarà quindi consigliabile effettuare analisi “what if” che identifichino “best case” e “worse case” ancorate su ipotesi particolarmente caute e ragionevoli, valutando i risultati con scetticismo professionale.

    Per scongiurare addebiti ex post, gli amministratori potrebbero anche ricorrere all’attestazione di un esperto esterno che certifichi lo stato di salute aziendale in un momento immediatamente precedente lo scoppio della crisi sanitaria.

    In effetti, sono state inserite clausole che tendono a sottrarre le imprese agli obblighi di ricapitalizzazione in caso di perdite e di valutazione della continuità aziendale nonché di agevolazione dei soci a sostenere finanziariamente le imprese disattivando le ipotesi di postergazione.

    Tale impianto normativo presenta, tuttavia, un orizzonte temporale particolarmente breve essendo limitato al 2020. Pertanto, a meno che si ipotizzino risultati eclatanti nel 2021 in grado di recuperare le perdite generate dalla pandemia, i problemi emergeranno in fase di approvazione dei bilanci dei prossimi anni.

    Un altro aspetto di non poco conto è rappresentato dalla conversione del debito da chirografo a privilegiato in caso di attivazione della garanzia. Situazione questa che renderebbe più difficoltosa l’eventuale ristrutturazione futura del debito o l’accesso a strumenti di risoluzione della crisi. Anche sotto questo aspetto è, quindi, importante verificare a priori la sostenibilità del debito.

    Abbiamo visto come tutto l’impianto di sostegno si basi sulla concessione di garanzie per facilitare l’erogazione di prestiti bancari. Considerando che, ad oggi, non sono previsti interventi per prorogare i termini di scadenza delle imposte di giugno, ma solo tutele per la rivisitazione del calcolo degli acconti con il metodo previsionale – acconti peraltro che, stante la situazione attuale, sarebbe auspicabile azzerare – i prestiti hanno il sapore amaro di essere finalizzati, almeno in parte, al pagamento delle stesse.

  • US could follow the EU into negative interest rate territory

    President Donald Trump is calling for zero or negative rates in the US, in line with EU and Japanese monetary policy. That policy shift is the combination of economic reality and electoral calculation.

    In 2016 Trump accused the US Federal Reserve of getting savers “absolutely creamed” with an ultra-low rate policy but three years following his election he has become a major advocate for cheap liquidity. In September he explicitly asked the US Fed to slash rates to zero or even into negative territory.

    “Go across the world and you’ll see either very low-interest rates, or negative rates. The President wants to be competitive with these other countries on this, but I don’t think he’ll fire Jay Powell (even if I should!),” Trump Tweeted.

    But US growth has come to a halt.

    The economy slowed further in the third quarter, as consumer spending is declining. Retail accounts for two-thirds of the US economy and it is losing ground as tariffs to Chinese and European products are taking their toll.

    On Wednesday the Commerce Department will provide a GDP snapshot, which is not likely to confirm a decelerating momentum towards recession. The effect of the $1.5 trillion tax cut package is wearing off and second-quarter growth was 1,6%, compared to 2% in the first quarter. Third-quarter is likely to show further decline.

    The economy is hamstrung largely because of the Sino-American trade war, ending an 11-year continuous growth streak. Inflation is projected to be below the 2% target, closer to 1,7%, despite rising prices on a range of products. In fact, the declining trade deficit shows subdued consumption, which in the US heralds bad news for the economy.

    While unemployment is at a 50-year low, consumer confidence is falling and business investment has contracted to three-year lows, including in the oil sector. The disaster of the 737 Max is also taking weighing heavily on manufacturing. Industries were building a stock in anticipation of increased Chinese tariffs but this positive effect on the GDP is now wearing off.

    As the US enters an election year Trump is eager to maintain growth and avoid the kind of economic slowdown the economy experienced in 2008/9. Now, a growing number of economists are looking for a domestic jolt to the economy, espousing bold expansionary monetary policy, including the conservative Fed Chair Alan Greenspan.

    Negative rates penalize financial institutions for saving money rather than lending to the real economy. However, they also penalize private savings, fixed-income funds – mostly pension scheme – and thus can have a detrimental political effect in mature and ageing societies. In addition, cheap liquidity in full employment conditions can inflate housing prices, leading to further inequality as homeownership becomes more expensive.

     

  • Contanti, da sinonimo di ricchezza a sintomo di evasione

    La moneta svolge fondamentalmente tre funzioni:

    • Unità di conto, ossia consente di misurare il valore di un bene o di un servizio;
    • Mezzo di scambio, in questo senso è lo strumento attraverso il quale si scambiano beni e servizi;
    • Riserva di valore, è cioè lo strumento che consente di accumulare riserve nel tempo per il mantenimento della capacità di acquistare beni o servizi.

    Al venir meno anche di una sola di queste funzioni di base, viene a cadere il concetto di moneta.

    In questo contesto si inserisce la stretta sull’uso dei contanti che da tempo è stata introdotta nel nostro Paese.

    Tutto ruota intorno all’imponente fenomeno dell’evasione e alle attività di contrasto del riciclo dei proventi delle attività illecite e di contrasto al terrorismo.

    Sui presupposti non si discute, ma occorre evitare di passare ad una pericolosa stagione di demonizzazione dell’uso del contante con importanti negative conseguenze, almeno a parere di chi scrive.

    Consideriamo, in primis, che oltre certi limiti, limitare l’uso della moneta metterebbe in discussione la moneta stessa che, in prospettiva, potrebbe perdere il suo valore a favore dell’uso e della diffusione di criptovalute. Fenomeno questo che comporterebbe elevati rischi per la mancanza di adeguati controlli, allo stato attuale, su queste monete virtuali.

    Ancora, limitare la circolazione della moneta, potrebbe portare ad una contrazione dei consumi. Valutate che, a tutt’oggi, l’italiano medio è avulso all’uso di carte di credito o di debito, che comunque hanno un costo sia per il possessore che per l’esercente, molti pensionati incassano ancora i denari sul conto delle poste e si recano in processione allo sportello il primo giorno del mese per prelevare.

    L’intervento del legislatore per contrastare l’uso del contante si sviluppa su molteplici fronti: sappiamo che non possiamo comprare un bene per un corrispettivo superiore a 3.000 euro regolandolo in denaro contante, gli istituti di credito hanno l’obbligo di segnalare i prelievi di contanti superiori a 10.000 euro al mese e a 1.000 euro al giorno, così come hanno l’obbligo di segnalare le operazioni superiori ai 10.000 euro (il limite è stato recentemente ridotto dai precedenti 15.000 euro).

    Se tutto ciò non avesse un sufficiente effetto deterrente, si aggiunga che i flussi mensili dei nostri movimenti bancari vengono inviati agli Uffici finanziari che li potranno utilizzare per elaborare liste selettive di contribuenti ritenuti a maggior rischio di evasione.

    Collateralmente a questa consolidata situazione, si susseguono oggi svariate ipotesi di interventi per disincentivare ulteriormente l’uso dei contanti: si va da possibili tassazioni sui prelievi di contanti effettuati nel mese oltre una certa soglia (la proposta è di 1.500 euro), a meccanismi di cash back per i pagamenti effettuati con carte, fino a aumenti selettivi dell’iva solo nel caso di pagamenti in contanti.

    La tassazione dei prelievi credo che sia veramente pericolosa, facendo perdere ulteriore fiducia nel sistema bancario già ampiamente compromessa, nonché fuori luogo: sarebbe una tassa aggiuntiva su denari già tassati, con il rischio di agevolare la circolazione della moneta cartacea anziché i depositi in banca e quindi di innescare un processo esattamente inverso a quello che si vorrebbe ostacolare.

    I meccanismi di cash back potrebbero essere efficaci, purché di una certa entità e con un semplice meccanismo di attuazione. A quest’ultimo proposito riterrei più idoneo il ristorno diretto sul conto carta piuttosto che il recupero sotto forma di credito di imposta in dichiarazione dei redditi.

    Farraginoso e fuori luogo sarebbe infine l’aumento selettivo dell’iva legato al tipo di pagamento: in primis incentiverebbe le transazioni “in nero”, penalizzerebbe gli onesti nostalgici dell’uso del contante e inserirebbe l’ennesima complicazione in un sistema tributario che tutto avrebbe bisogno fuorché questo.

    Ricordiamoci, inoltre, che le ipotesi al vaglio si innestano in un mastodontico meccanismo di comunicazioni automatiche di dati, di fatturazione elettronica e di sofisticati software di controllo che costantemente, a dispetto della nostra privacy, monitorano le nostre abitudini, i nostri consumi, i nostri risparmi con una logica diffusa e liceizzata improntata al reality “grande fratello”.

    Per quanto il fenomeno dell’evasione in Italia abbia ancora livelli enormi, il Governo parla di oltre 100 miliari di euro l’anno, ma potrebbero essere anche di più (secondo uno studio di The Tax Research LLP siamo i primi in Europa con 190 miliardi di euro di mancanti introiti, seguiti, comunque da Germania e Francia con rispettivamente 125 e 119 miliari di euro), risulta riduttivo, a mio parere, condurre tutto al mancato uso della moneta elettronica.

    La questione è molto più complessa e dovrebbe partire con una maggiore educazione civica delle nuove generazioni al rispetto della “cosa pubblica” e del nostro Paese. Il sistema fiscale, parallelamente, dovrebbe essere completamente rivisto, semplificato, reso più certo e equo. Una maggiore armonizzazione tra i Paesi dell’Unione sarebbe altrettanto necessaria per consentire una vera lotta all’evasione e al terrorismo, fenomeni potenzialmente collegati in quanto il primo potrebbe essere una fonte di finanziamento del secondo. Si dovrebbe garantire, infine, maggior tutela, rispetto e dignità ai contribuenti attraverso una più puntuale applicazione delle Statuto del Contribuente che ormai è costantemente calpestato per aperte ragioni di gettito, nonché evitare l’odiosa inversione dell’onere della prova che spesso porta all’assurdo che il contribuente sia un evasore, salvo prova contraria.

Pulsante per tornare all'inizio