speculazione

  • Poteri nascosti attivi a livello internazionale

    La resistenza al totalitarismo, sia esso imposto dall’esterno

    o dall’interno, è questione di vita o di morte.

    George Orwell, da “Letteratura e totalitarismo”

    I poteri nascosti sono attivi da tempo in molte parti del mondo. Diversi documenti storici confermano che si tratta di una realtà nota anche nel mondo antico. L’espressione in greco antico “kratos en kratei” (il potere dentro il potere; n.d.a) lo conferma. Un’espressione quella tradotta ed usata anche dai latini. I poteri nascosti si sono diffusi e sono rimasti attivi in seguito in Europa anche nel medioevo. E si trattava dei poteri monarchici e quelli della chiesa. Partendo però dal secolo scorso si cominciò ad usare un’altra espressione che si riferiva, comunque, allo stesso concetto; quello del potere nascosto. Si cominciò a parlare di “Deep State” (Stato profondo; n.d.a.). E con “Deep State” si intendevano, a seconda delle realtà in cui veniva usata, delle strutture ben organizzate ed altrettanto ben funzionanti. Si tratta di strutture massoniche con determinati obiettivi di controllo e dominio economico, finanziario, ma anche di strutture statali in connivenza con i servizi segreti e/o militari, con la criminalità organizzata ed altro.

    L’espressione “Deep State” è molto usata da decenni anche negli Stati Uniti d’America. Sì, perché, almeno da quei fatti noti pubblicamente alla mano risulterebbe che sono state e sono operative delle strutture molto potenti che agiscono proprio come uno ‘Stato profondo’. Delle strutture che rappresentano un intreccio tra il mondo politico, le lobby dell’economia e della finanza, alcuni raggruppamenti attivi delle agenzie della sicurezza nazionale e dei servizi segreti, nonché di certi clan occulti, che riescono a controllare anche le più alte istituzioni, sia a livello nazionale che internazionale. Contrastare e combattere le strutture ben organizzate dello ‘Stato profondo’ negli Stati Uniti d’America è una dichiarata sfida anche dell’appena eletto presidente.

    Nel dicembre scorso, quando aveva già cominciato, seppure non ufficialmente, la sua campagna elettorale, lui aveva dichiarato “guerra al Deep State”. E nonostante non lo considerasse per niente facile, vista la sua precedente esperienza come presidente, doveva “drenare la palude” creata dallo Stato profondo attivo negli Stati Uniti d’America. E per il neoeletto presidente statunitense quel Deep State esisteva ed era attivo perché c’erano dietro anche delle persone, nome e cognome, che erano i fautori e che ne approfittavano. E visto il ruolo degli Stati Uniti d’America nell’arena internazionale, i tentacoli di quella piovra che è il Deep State arrivavano e tuttora arrivano anche in altre parti del mondo. Vantaggi e benefici compresi. Ma anche danni enormi per molti altri.

    Ragion per cui uno degli obiettivi principali della campagna elettorale del nuovo presidente degli Stati Uniti d’America era quello di dare più potere alla Casa Bianca come istituzione. In più lui ha deciso di “alterare l’equilibrio dei poteri”, assumendo ed esercitando così un maggiore potere, direttamente e/o tramite i rappresentanti del governo federale da lui scelti. E si tratterebbe di alcune migliaia di funzionari. Tra gli importanti obiettivi da raggiungere durante il suo secondo mandato, l’appena eletto presidente degli Stati Uniti d’America ha annoverato anche il diretto controllo, suo e/o da chi per lui di alcune agenzie come The Federal Trade Commission (La Commissione federale per il Commercio; n.d.a.) e The Federal Communication Commission (Commissione federale per le Comunicazioni; n.d.a.). In più per il nuovo presidente degli Stati Uniti d’America, viste le precedenti esperienze, è molto importante evidenziare ed eliminare le maligne influenze del Deep State nelle agenzie dei servizi segreti, della sicurezza nazionale e anche nel Dipartimento di Stato. Una sfida importante e non facile ad essere adempita. Ma una sfida indispensabile per combattere il Deep State attivo negli Stati Uniti d’America e, in sua vece, anche in altre parti del mondo. Sarà il tempo a dimostrare il raggiungimento di questi obiettivi.

    Una sfida che comunque non sarà facile, visto che il Deep State, rappresenta dei poteri nascosti. Poteri, dietro i quali ci sono delle persone molto potenti finanziariamente, ma non solo. Poteri che hanno sotto il loro diretto controllo dei media molto influenti. Poteri che, fatti pubblicamente noti alla mano, riescono a controllare diverse istituzioni ed agenzie governative e statali statunitensi. Ma purtroppo, sempre fatti pubblicamente noti alla mano, riescono a controllare ed orientare anche le decisioni di molte importanti istituzioni internazionali.

    Il nuovo presidente degli Stati Uniti d’America, che comincerà ad esercitare il suo secondo mandato dal 20 gennaio 2025, ha ripetutamente e pubblicamente dichiarato che un importante e molto potente sostenitore e beneficiario del Deep State è il noto multimiliardario e speculatore di borsa statunitense Geroge Soros, il quale nel 1993 costituì Open Society Foundations (Fondazioni della Società Aperta; n.d.a.). Proprio colui che era l’ideatore di quello che ormai è noto come “il mercoledì nero delle borse”. E non solo nel Regno Unito e in Italia. Era proprio mercoledì, 16 settembre 1992, quando sia la sterlina britannica che la lira italiana, uscirono dal Sistema Monetario europeo, come conseguenza diretta delle speculazioni monetarie di George Soros. Di colui che nel 1998 affermava fiero: “Io penso ai soldi e non alle conseguenze sociali che posso generare”. Di colui che, tramite la ben diffusa rete delle Fondazioni della Società Aperta in molte parti del mondo, riesce ad influenzare non solo le “scelte politiche” in singoli piccoli Paesi in Asia, Africa ed altrove. Ci sono delle denunce pubbliche fatte da persone ben informate, alle quali il diretto accusato non ha mai fatto causa, che lui e/o chi per lui, addirittura, riescono a influenzare e condizionare anche alcune decisioni delle più importanti istituzioni internazionali, Organizzazione delle Nazioni Unite e dell’Unione europea comprese. Così come potrebbero anche influenzare le decisioni delle istituzioni governative di determinati Paesi evoluti occidentali.

    L’autore di queste righe ha informato a tempo debito il nostro lettore sulle strategie, le attività e le influenze occulte del sopracitato multimiliardario e speculatore di borsa statunitense. Alcuni anni fa, trattando le strategie scelte dal sopracitato multimiliardario, l’autore di queste righe scriveva: “…Si tratterebbe, in sostanza, di una strategia per sostenere alcuni “movimenti”, nella maggior parte di sinistra, o che dalle ideologie della sinistra ne traggono vantaggio, per poi facilitare il controllo del potere politico in diversi Paesi del mondo. Tale strategia prevede anche la selezione e il supporto di determinate persone, per farle, in seguito, avere ruoli di primo piano nella vita politica attiva dei rispettivi Paesi” (E se tutto fosse vero?; 16 aprile 2018).

    Non a caso in alcuni Paesi ormai l’influenza decisionale del sopracitato noto multimiliardario e speculatore di borsa statunitense e/o di chi per lui è una realtà. Ma purtroppo è altrettanto una realtà che in quei Paesi sono stati, altresì, stabiliti e consolidati dei regimi totalitari. Simili casi si verificano non solo in Africa ed Asia, ma anche nei Balcani occidentali in Europa. Anche di questo il nostro lettore è stato spesso informato, fatti alla mano, con tutta la dovuta e richiesta oggettività. E in tutti quei Paesi sono attivi dei modelli sui generis di quello che negli Stati Uniti d’America, ma non solo, è noto come il Deep State, ossia lo Stato profondo.

    Chi scrive queste righe, riferendosi alle realtà rese pubbliche in questi ultimi decenni, è convinto che ci sono diversi poteri nascosti ma attivi a livello internazionale. Poteri che finanziano le loro strategie occulte e pericolose in molte parti del mondo per appoggiare dei regimi totalitari. Perciò è sempre valido quanto scriveva George Orwell alcuni decenni fa. Si, la resistenza al totalitarismo, sia esso imposto dall’esterno o dall’interno, è questione di vita o di morte.

  • Futures e speculazione incidono sull’aumento del prezzo del gas

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi 

    In Italia, non solo tra le forze politiche, si discute dell’aumento delle bollette del gas e dell’elettricità, rispettivamente del 31% e del 40%. E’ un trend inflattivo in atto in tutta Europa e nel resto del mondo. Manca, però, la chiarezza sulle cause dell’aumento.

    Non basta riferirsi alla ripresa economica globale e dei consumi dopo i lockdown pandemici, alla domanda di energia pulita e al cambiamento climatico. Tutti aspetti veri, ma il classico rapporto tra domanda e offerta, a nostro avviso, non spiega il fenomeno dei prezzi così “inflazionati”. Però, diventano delle giustificazioni per operazioni di carattere finanziario, come i futures sul gas.

    Com’è noto, il prezzo del gas naturale e quello dei futures sul gas sono definiti nello stato della Lousiana dal cosiddetto Henry Hub. Dall’inizio dell’anno il prezzo dei futures sul gas contrattati negli Usa è cresciuto di oltre 94%. Cinque volte quelli di due anni fa.

    Si aggiunga che sul mercato ci sono anche i cosiddetti CFD (contract for difference), strumenti finanziari derivati il cui utilizzo non comporta lo scambio fisico, in questo caso il gas. Bensì si prevede il pagamento in contanti della variazione di valore della materia prima alla scadenza del contratto.

    I mercati principali dei futures sui prodotti energetici sono il Chicago Mercantile Exchange e il NYMEX di New York. Come per gli altri futures e, in genere, per i derivati finanziari, i trader possono usare il cosiddetto leverage, la leva, per cui un deposito limitato messo in garanzia permette di sottoscrivere contratti per un valore multiplo.

    Pertanto, la sola spiegazione oggettiva dell’aumento del prezzo del gas, causato dalla crescita della domanda e dei consumi, non regge. Lo conferma anche lo studio, “The future of liquified natural gas: Opportunities for growth“, pubblicato nel settembre 2020 da McKinsey & Company, la maggiore società internazionale di consulenza strategica. McKinsey ha una sua credibilità. Per esempio, in passato ha elaborato lo studio più accurato sulle infrastrutture a livello globale.

    McKinsey sosteneva che l’industria del gas naturale liquefatto (GNL) stava praticando prezzi bassi e un’offerta eccessiva e che, per la pandemia, la domanda di gas nel 2020 sarebbe potuta diminuire dal 4 al 7%. Tanto che gli esportatori di GNL avevano cancellato alcune spedizioni di gas (più di 100 cargo statunitensi sono stati cancellati nel mese di giugno e di luglio 2020), poiché il prezzo spot nei mercati asiatici ed europei non copriva più il costo della fornitura.

    In ogni caso, McKinsey spiegava che in futuro lo GNL avrebbe avuto una grande potenzialità in rapporto a cinque aree di intervento: efficienza del capitale, ottimizzazione della catena di approvvigionamento, sviluppo del mercato, de carbonizzazione e digitalizzazione avanzata dei processi. In seguito, McKinsey ha valutato una crescita della domanda globale di gas intorno al 3,4% annuo fino al 2035.

    Perciò, l’aumento della domanda c’è, ma in dimensioni che non giustificano la sproporzionata crescita del prezzo del gas. Invece, l’aumento dei prezzi dei futures può deformare l’andamento del mercato.

    Ovviamente i liberisti facinorosi sostengono che i futures non influenzano l’andamento dei prezzi, poiché si tratta di contratti tra privati, dove se uno perde, l’altro vince. Somma zero.

    In realtà, i futures e in generale le operazioni speculative in derivati, grazie al leverage, raggiungono numeri altissimi e riescono a influenzare i mercati e determinare i prezzi di una materia prima. Si ricordi il balzo del petrolio fino a oltre 150 dollari al barile nel 2008, alla vigilia della Grande Crisi, per poi crollare. Allora si parlò dei famosi “barili di carta”, perché per ogni barile reale di petrolio, almeno cento barili erano trattati con strumenti speculativi.

    Resta ineludibile, quindi, l’approvazione di nuove regole sulle attività finanziarie e speculative. Il G20 non può sottrarsi a questa specifica responsabilità. Se ne faccia carico anche il governo italiano.

    *già sottosegretario all’Economia **economista

  • Anche in Cina rischi finanziari

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi pubblicato su ‘ItaliaOggi’ il 24 marzo 2021

    Anche la Cina sta facendo i conti con le sue bolle finanziarie, create nei passati due decenni con la scadente applicazione del modello finanziario speculativo americano. Perciò è scesa in campo la potentissima China Banking and Insurance Regulatory Commission, l’agenzia governativa di controllo sulle attività bancarie e assicurative, attraverso il suo presidente Guo Shuqing, manager competente e uomo forte del Partito Comunista Cinese.

    Il problema numero uno è il rischio rappresentato dal debito corporate cinese e del crescente stock di non performing loans (npl), i crediti inesigibili delle imprese.

    Secondo l’International Capital Market Association, l’associazione degli investitori nel fixed income, il mercato obbligazionario cinese interno in yuan, è equivalente a circa 15 mila miliardi di dollari, il secondo al mondo dopo quello Usa. La parte strettamente relativa al debito corporate non finanziario sarebbe pari a 3.700 miliardi di dollari. Il mercato obbligazionario cinese offshore è di 752 miliardi di dollari. È in grande crescita e legato soprattutto al settore immobiliare.

    Il 2020 è stato l’anno che ha certamente scioccato la Cina e i mercati internazionali per i debiti corporate interni: circa 40 fallimenti per 30 miliardi di dollari, il 14% in più rispetto al 2019. Anche 12 imprese cinesi offshore sono fallite coinvolgendo obbligazioni per 7 miliardi di dollari. Ciò sta provocando forti preoccupazioni per una possibile crisi del debito nel periodo post Covid. Infatti, nel 2021 bond per 7,1 trilioni di yuan (6,5 yuan sono equivalenti a 1 dollaro) arriveranno a scadenza sul mercato interno. Alcune delle imprese fallite sono controllate dallo Stato e ciò solleva dubbi anche sulla garanzia, finora certa, di salvataggi pubblici.

    Nel recente incontro con la stampa, Guo Shuqing ha dato un quadro preoccupante della situazione: «Nel 2020, il rimborso di 6,6 trilioni di yuan di prestiti è stato differito». Per quanto riguarda gli npl ha detto: «Un numero considerevole di imprese potrebbe dover affrontare una riorganizzazione o liquidazione fallimentare. Pertanto, l’aumento dei crediti in sofferenza è una tendenza inevitabile. Nel 2020, abbiamo ceduto 3,02 trilioni di yuan di attività deteriorate. È possibile che i crediti in sofferenza aumentino nel 2021 e anche nel 2022».

    Guo Shuqing ha annunciato alcuni programmi d’intervento e illustrato i risultati già ottenuti. In primo piano vi è la riduzione dell’elevato effetto leva all’interno del sistema finanziario, che aveva visto una pericolosa crescita nel periodo 2017-19. Sarebbe in atto lo smantellamento del settore bancario ombra, la cui portata è diminuita nel 2020 di circa 20 trilioni di yuan. All’inizio dell’anno il totale era di 85 trilioni di yuan, pari all’86% del pil cinese.

    La Regulatory Commission teme che alcune attività ad alto rischio dello shadow banking possano ripresentarsi sotto forma di pseudo «innovazioni». Perciò, per l’internet private banking, saranno applicate le stesse regole di adeguatezza patrimoniale e di garanzie valide per il settore bancario.

    Guo ha ammesso che «nel settore immobiliare la finanziarizzazione e la tendenza a diventare una bolla sono ancora relativamente forti, anche se nel 2020 il tasso di crescita dei prestiti investiti nel real estate è sceso per la prima volta sotto quello medio dei prestiti».

    È un pericoloso «rinoceronte grigio», perché «molte persone comprano case non per abitarci, ma per investimenti o per speculazioni. Se in futuro il mercato dovesse scendere, potrebbero esserci grandi perdite e i prestiti non sarebbero rimborsati, mandando le banche e l’intera economia in sofferenza». Usa docent.

    Egli, inoltre, ha spostato l’attenzione sui mercati finanziari negli Usa e in Europa che opererebbero «in contraddizione con l’economia reale».

    «Il mercato finanziario dovrebbe riflettere lo stato dell’economia reale, ha detto, altrimenti sorgeranno problemi e sarà costretto alla fine ad adeguarsi. Pertanto, siamo molto preoccupati per il giorno in cui scoppierà il mercato finanziario, in particolare la bolla delle attività finanziarie estere».

    Considerazioni corrette, che valgono anche per i comportamenti finanziari della Cina e per i rischi sistemici che stanno creando. Alla fine, in Cina o negli Usa, in Africa o in Europa, la finanza iperspeculativa è sempre un pericolo per l’economia reale.

    *già sottosegretario all’Economia **economista

  • Per l’indicatore Buffet è di nuovo allarme bolle finanziarie

    Le Borse mondiali rischiano di crollare nei prossimi mesi. Lo indica “l’indicatore Buffett”, che con il 123% ha superato il precedente record del 121% prima dello scoppio della bolla delle dot-com all’inizio degli anni 2000. L’indicatore, dal nome dal suo ideatore, il finanziere americano Warren Buffett, a capo della Berkshire Hathaway, prende in considerazione la capitalizzazione di mercato combinata delle azioni quotate in borsa in tutto il mondo e le divide per il prodotto interno lordo globale. Come riporta Wall Street Italia “il livello elevato raggiunto dall’indicatore riflette anche il fatto che i lockdown legati alla pandemia, le chiusure di attività e le restrizioni sui viaggi hanno depresso la crescita economica. Tutto questo mentre gli interventi dei governi (vedi soprattutto gli Stati Uniti) hanno pompato artificialmente i prezzi delle azioni”.

    Nel 2001, quando lo presentò per la prima volta, Buffet definì l’indicatore, “la migliore misura in grado di valutare dove si trovano i mercati azionari in un dato momento”.

    Secondo alcuni osservatori, l’indice avrebbe però alcuni difetti tra i quali il confronto tra le valutazioni attuali delle azioni con i dati del PIL degli anni precedenti.

    Secondo Goldman Sachs, invece, il rischio non sarebbe imminente, anzi, in un nuovo report intitolato “Bubble Puzzle”, stilato proprio dalla banca americana, e che analizza alcuni esempi storici di bolle finanziarie, da quella dei tulipani del XVII secolo alla crisi dei mutui subprime del 2007, sembra addirittura che i rischi di una bolla imminente sono relativamente bassi.

  • C’è il rischio della bolla verde (dopo It, subbprime e derivati)

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi sul paper della BRI “Il Cigno Verde” relativo ai nuovi rischi di crisi risultanti dal rapporto tra finanza e cambiamenti climatici pubblicato si ‘ItaliaOggi’ il 15 febbraio 2020.

    La Banca per i Regolamenti Internazionali (Bri) di Basilea ha pubblicato un rapporto intitolato «The Green Swan», Il Cigno Verde. Le banche centrali e la stabilità finanziaria nell’era dei cambiamenti climatici.

    Lo studio dell’istituto il cui cda è guidato da Jens Weidmann, analizza i legami tra gli effetti del cambiamento climatico e la finanza e afferma che le conseguenze del cosiddetto global warming potrebbero portare a una nuova forma di rischio finanziario sistemico.

    Oggi non si valuterebbero correttamente i valori degli asset, dei crediti e degli investimenti perché non si tengono in giusta considerazione i rischi insiti nei cambiamenti climatici. Vi sarebbero, per esempio, perdite non adeguatamente coperte dalle assicurazioni poiché i loro modelli attualmente ignorano la dimensione ecologica degli investimenti.

    Di conseguenza, se i governi dovessero applicare delle regole più stringenti sulle emissioni di CO2, i relativi valori degli asset «brown» rispetto a quelli «green» dovrebbero oggettivamente essere rivisti.

    Il clima può impattare sul rischio finanziario in tre modi: eventi meteorologici straordinari (inondazioni, terremoti, incendi, siccità ecc), la transizione verso un’economia a bassa produzione di CO2, con effetti sui livelli di profitto e di sostenibilità economica, e i risarcimenti da pagare per eventi causati dal cambiamento climatico. In verità, già da molto tempo il settore delle assicurazioni analizza questi aspetti. Gli operatori vorrebbero integrarli nei modelli macroeconomici.

    Vi è poi la cosiddetta «finanza verde», o presunta tale. Stanno crescendo gli strumenti finanziari green, come le obbligazioni, i green bond. Ne sono già in circolazione per circa 800 miliardi di dollari e potrebbero superare i 1.500 entro il 2024. Non sono molti. Rappresentano poco più dell’1,5% del totale delle obbligazioni. Sono titoli finalizzati alla raccolta di risparmi per investirli in progetti di varia natura ecologica.

    Sembra che si stia pensando di creare delle agenzie di rating mirate al rischio finanziario relativo al cambiamento climatico. Interessati sarebbero anzitutto le assicurazioni, gli analisti della qualità dei crediti, i fondi d’investimento, con un portafoglio differenziato di titoli, e i fondi pensione interessati in investimenti nel sociale e nel green.

    In merito, secondo la Bri, il ruolo delle banche centrali dovrebbe diventare molto importante, considerato che i governi saranno sempre più chiamati a formulare politiche pubbliche relative al clima e all’ambiente. Anche i sistemi fiscali dovranno presto adeguarsi a un’economia «de carbonizzata».

    Molti ambienti della finanza e dei mass media hanno accolto molto positivamente il paper «Il Cigno Verde». Il nome si rifà forse al film americano «Black Swan» del 2010, ispirato dal balletto «Il lago dei cigni» del compositore Pëtr Il’ic Cajkovskij, in cui emerge il lato oscuro autodistruttivo della doppia personalità del personaggio centrale, una danzatrice classica. In quest’ottica, alcuni già si preparerebbero a spiegare la possibile relazione di causa ed effetto tra il cambiamento climatico e un’eventuale futura crisi finanziaria. Non vorremmo che ciò possa fornire l’alibi per altri salvataggi con i soldi pubblici.

    Indubbiamente una maggiore attenzione all’ambiente naturale e umano è cosa necessaria e positiva. L’economia sostenibile, l’energia più pulita, la lotta all’inquinamento, soprattutto della plastica, sono sfide ineludibili per il futuro del nostro pianeta e dell’umanità. Né si può ignorare, del resto, lo stimolo che in merito viene dalla società. Ben venga, quindi, che tutti, anche la finanza, se ne vogliano far carico. Senza però essere ingenui e manipolabili.

    Non vorremmo che si sia intravisto nell’economia verde e nella finanza verde un nuovo strumento di speculazione e di profitto.

    Non possiamo dimenticare che sono state le grandi banche too big to fail e la finanza speculativa a provocare la crisi finanziaria ed economica globale più grave della storia. Queste non hanno certamente badato a evitare danni per i cittadini e per l’ambiente. Né sembra che nel frattempo abbiano dimostrato pentimento o un diverso orientamento.

    Certo fa effetto vedere che il recente Forum Economico di Davos sia stato quasi completamente dedicato all’ambientalismo. E che personaggi come Mark Calney, il governatore di quella Bank of England che è nel centro finanziario mondiale della City londinese, e l’amministratore delegato del maggior fondo americano, BlackRock, abbiano a Davos tessuto le lodi della green economy. Non li vediamo come tanti San Paolo, convertiti davanti alla Porta di Damasco.

    È opportuno ricordare che negli ultimi 20 anni abbiamo «vissuto», tra gli altri, i crac della «bolla It», della bolla immobiliare con i mutui sub prime e di quella dei derivati otc. Non vorremmo che oggi la stessa finanza voglia costruire una «bolla verde», questa volta direttamente con i soldi pubblici. Infatti, è noto che tutti i governi del mondo e le grandi istituzioni politiche internazionali vogliono mettere in campo migliaia di miliardi di dollari per investimenti verdi ed ecologici. Si pensi all’Unione europea. E, si sa, la finanza speculativa è famelica. È facile dichiararsi difensori dell’ambiente, è più difficile esserlo.

    *già sottosegretario all’Economia **economista

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