spesa

  • I costi energetici della “democrazia”

    Non passa giorno nel quale le più alte cariche istituzionali nazionali ed europee non intervengano sul pericolo derivante dalle fake news considerate in grado, attraverso la forza dei social media, di condizionare l’opinione pubblica e, di conseguenza, sembrerebbe addirittura le elezioni.

    A questo appello comune tanto alla maggioranza che all’opposizione ovviamente fa riscontro una volontà di creare una sorta di controllo dell’universo mediatico attraverso istituti che applicherebbero un protocollo creando un controllo molto simile ad una sorta di censura.

    All’interno di questo contesto, quindi, con un presunto attacco alla democrazia, l’Italia si sta dilaniando a causa della contrapposizione squisitamente ideologica sulla riforma del Premierato e dell’Autonomia differenziata. Due involucri ancora vuoti al loro interno in quanto la prima non indica neppure il sistema elettorale attraverso il quale i cittadini potrebbero esprimere il proprio eventuale consenso, mentre la seconda rappresenta solo una cornice all’interno della quale non sono ancora chiaramente definiti non solo gli attori che dipingeranno la tela ma neppure i colori.

    Facendo un passo indietro rispetto all’attuale confusione istituzionale, nel maggio 2023 feci presente i pericoli ai quali sarebbe andato incontro il nostro Paese in relazione alla politica energetica adottata dal governo in carica, confrontandola con quella francese (*).

    Dopo poco più di un solo anno, nel giugno 2024, emergono evidenti gli effetti di quella disastrosa strategia energetica, confermata ancora oggi dall’intenzione di cedere altre quota delle principali società energetiche partecipate dal governo (**).

    In buona sostanza, dal 2023 al 2024 il differenziale pagato in più per l’energia elettrica dalle imprese quanto dalle famiglie italiane è passato, rispetto alla Francia, da un +27% (2023) ad un +71% (2024). Contemporaneamente lo stesso differenziale con la Spagna si è innalzato da un + 30% (2023) ad un +68% (2024) e con la Germania si passa da un +23% ad un +29% tra il 2023/24.

    Andrebbe, poi, ricordato come nel medesimo anno il costo dell’energia elettrica sia scesa in Italia del -10%, mentre in Germania si è ridotta del -18%, in Spagna del -59%, infine in Francia del -69%.

    All’interno di un contesto internazionale difficile e articolato, caratterizzato ancora dagli effetti della pandemia e da due conflitti in corso, questi numeri dimostrano come il futuro del nostro Paese sia fortemente compromesso da una scellerata politica energetica, basata sul principio speculativo nel quale i fondi privati esercitano un ruolo attivo acquisendo sempre maggiori quote delle principali società energetiche italiane.

    Risulta inevitabile e giustificata, allora, la flessione di 15 mesi consecutivi della produzione industriale e soprattutto la mancanza di uno scenario futuro proprio a causa di simili costi energetici rispetto alla stessa concorrenza europea.

    Mentre la politica si fronteggia su embrionali riforme costituzionali, contemporaneamente dimostra il proprio disinteresse rispetto ai disastrosi effetti causati dalla propria politica energetica, perfettamente in linea con quella dei governi precedenti, dimostrando, ancora una volta, di operare per il solo  rafforzamento del proprio potere i cui oneri ricadranno sulle spalle dei cittadini come costi aggiuntivi nelle bollette, i quali indeboliranno ancora di più il potere d’acquisto e, di conseguenza, la domanda interna, diventando così  la stessa politica energetica un elemento di stagnazione economica. Mentre le imprese italiane dovranno subire un ulteriore indebolimento della propria capacità competitiva all’interno di un mercato globale ed ovviamente una minore attrattività per gli investimenti esteri nel territorio italiano.

    Questo è il modello di “fake democracy”, intesa come una sorta di moto perpetuo, all’interno della quale la classe politica opera solo ed esclusivamente per il mantenimento delle proprie posizioni con costi sempre più insostenibili.

    (*) https://www.ilpattosociale.it/attualita/il-diverso-destino-di-italia-e-francia/

    (**) https://www.ilnordestquotidiano.it/2024/06/19/energia-elettrica-il-costo-italiano-tra-i-piu-alti-deuropa/

  • Lo Stato di minoranza

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo del Prof. Francesco Pontelli

    Come istituzione lo Stato dovrebbe rendersi interprete dell’interesse dei propri cittadini, grazie all’opera degli organi istituzionali titolari dei poteri esecutivo, legislativo e giurisdizionale.

    In altre parole, ci dovrebbe essere in uno stato democratico la completa e totale identificazione degli obiettivi statali con le aspettative della maggioranza degli amministrati. Questo tipo di risultato può venire ottenuto e soprattutto mantenuto solo all’interno di una democrazia diretta, nella quale i cittadini possano esprimere la propria opinione sulle più diverse questioni di ordine economico, fiscale, politico ed anche infrastrutturale come attualmente solo in Svizzera avviene.

    Viceversa l’entità statale elabora una propria indipendente priorità di obiettivi politici, economici e, nell’ultimo decennio, anche ambientali ed etici, questi ultimi sicuramente importanti ma comunque espressione di una minoranza, in virtù di una presunta superiorità intellettuale la cui sola legittimazione deriva dal semplice mandato elettorale.

    Come logica conseguenza in questo caso lo Stato non solo diventa una istituzione non più in grado di interpretare le necessità dei cittadini ma addirittura neppure interessata alla loro conoscenza, così da rendersi distaccato e lontano ed alla fine autoritario, infatti uno Stato minoritario si dimostra tale quando la propria classe politica manifesta interesse solo ed esclusivamente per le aspettative delle minoranze.

    In quest’ultimo caso le due forme di sostentamento e di mantenimento dello Stato vengono rappresentate dalla gestione della spesa pubblica sempre in continuo aumento. In più, a questa forma di potere si aggiunge la gestione del credito esercitata da un sistema bancario che sostiene, in complicità con lo stato, l’esplosione del debito pubblico (*).

    Per ottenere il mantenimento di questa diarchia, lo Stato inevitabilmente non cerca di migliorare l’efficienza della spesa pubblica, e conseguentemente il benessere dei propri cittadini, ma canalizza tutte le proprie attenzioni verso obiettivi ancora una volta politici ed etici come la lotta alla evasione, in quanto l’obiettivo principale non è quello di razionalizzare la spesa, in relazione alla cui efficienza l’Italia è al 123° posto dietro ad Haiti, ma di aumentare la dotazione finanziaria della stessa e di conseguenza il potere di chi lo gestisce.

    All’interno infatti di una spesa pubblica che ha raggiunto i 1.129 miliardi e ben oltre il 57% del PIL, avrebbe un effetto minimale il recupero anche dell’intera evasione fiscale e contributiva attuale attorno agli 82 miliardi di imponibile.

    La sua resa finanziaria risulterebbe di circa 42 miliardi, anche applicando l’aliquota massima, il recupero totale, in ultima analisi, si attesterebbe al 3,5% della spesa pubblica totale. Quindi affermare che la sola lotta all’evasione possa essere la soluzione per sanare gli squilibri ingiustificabili causati dalla stessa spesa pubblica rappresenta un controsenso o peggio la tipica espressione di uno Stato assolutamente minoritario.

    Con questo termine si definisce quella entità statale espressione di una democrazia malata con un sistema elettorale bloccato dagli stessi partiti all’interno della quale la delega non rappresenta più una garanzia di democrazia, ma semplicemente una cambiale in bianco che viene utilizzata per sostenere e sviluppare interessi particolari.

    In questo contesto ecco allora che Stato ponendo la sua attenzione e la propria tecnologia digitale nella sola lotta all’evasione, causata anche dai “materassi normativi” creati da ogni governo, in barba a qualsiasi tutela della privacy utilizza sempre più strumenti invasivi della legittima sfera personale (**) assumendo sempre più i connotati orwelliani. Mentre se il medesimo impegno venisse indirizzato nel combattere i reati “minori”, ai quali la pessima riforma Cartabia del governo Draghi ha annullato la procedibilità d’ufficio, probabilmente i reati contro il patrimonio potrebbero sicuramente essere contrastati con maggiore efficienza.

    Risulta evidente, quindi, come l’attuale entità statale ora rappresenti non più gli interessi della comunità, ma semplicemente lo strumento per il conseguimento di interessi particolari sostenuti finanziariamente attraverso la spesa pubblica e la gestione del credito.

    In fondo non si rileva una grande differenza nella elaborazione delle priorità, espresse anche in sede europea, tra le teocrazie islamiche e gli attuali asset istituzionali minoritari attualmente espressi sia dall’Italia che dalla stessa Unione Europea.

    (*) novembre 2018 https://www.ilpattosociale.it/attualita/la-vera-diarchia/

    (**) giugno 2024 https://www.wallstreetitalia.com/anonimometro-gia-operativi-i-controlli-sui-conti-correnti/

  • La spesa pubblica ed il “capitalismo” relazionale

    Da decenni l’Italia viene criticata in ragione di un capitalismo familiare ormai superato, in contrapposizione ad una versione internazionale più manageriale, all’interno della quale le famiglie rappresentano la proprietà ma non più il braccio operativo.

    L’impresa contemporanea, e soprattutto l’industria attuale, propongono i propri prodotti e servizi all’interno di mercato globale, avvalendosi di un network di subfornitori, i quali entrano nella filiera consolidata fino a diventare partner esclusivi e talvolta ad avviare un vero e proprio processo di insourcing (*).

    Questo cambiamento organizzativo offre alle industrie la possibilità di competere contemporaneamente in tutti i mercati mondiali, caratterizzati da stagioni completamente diverse e quindi gestibili solo attraverso filiere produttive sempre più corte.

    Esiste, poi, il capitalismo relazionale, i cui attori principali sono rappresentati da personalità “imprenditoriali” che fanno capo ad interessi finanziari, assieme ad un mondo della politica il quale si trova a gestire la spesa pubblica con la consapevolezza di non doverne mai rendere conto, se non nei casi estremi, alla magistratura.

    Questa forma di capitalismo, la cui stessa natura e forza viene determinata dalla presenza di risorse finanziarie gestite dalla politica e frutto dei prelievo fiscale, rappresenta la peggiore versione di un capitalismo speculativo.

    Questo, infatti, avvalendosi di una catena di subappalti e cooperative molto spesso non determina alcuna ricaduta occupazionale stabile (il parametro fondamentale per valutare la validità di una strategia economica) a fronte di investimenti pubblici notevoli.

    Da questa semplice analisi emerge evidente come l’aumento della spesa pubblica negli ultimi trent’anni abbia tradito le proprie istituzionali funzioni e tanto più in quell’effetto redistributivo, su cui ancora oggi buona parte del mondo accademico e politico fanno affidamento.

    In altre parole, la spesa pubblica italiana (1.129 miliardi oltre il 57% del PIL) rappresenta semplicemente la prima forma di potere italiano, la seconda è rappresentata dalla gestione del credito (novembre 2018, https://www.ilpattosociale.it/attualita/la-vera-diarchia/) la quale, trovandosi ora all’interno di un mercato globale, offre a chi ne usufruisca di utilizzare ogni leva della disperazione umana (come già detto subappalti e cooperative) con l’unico obiettivo di abbassare i costi e aumentare i profitti, anche grazie a strumenti normativi forniti dai committenti stessi, cioè dalla classe politica.

    Puntare, quindi, ancora oggi sulla centralità della spesa pubblica come motore economico e sui suoi effetti redistributivi rappresenta l’errore fondamentale comune al mondo politico ed accademico, come dimostra la perdita di potere d’acquisto negli ultimi trent’anni dei cittadini italiani a fronte di una esplosione della spesa pubblica, del debito e della pressione fiscale.

    La stessa vicenda relativa all’utilizzo dei fondi PNRR si è rivelata sostanzialmente una serie di  finanziamenti a pioggia dei più disparati progetti proposti da irresponsabili enti locali e lontano dalle ragioni istitutive per le quali i fondi avrebbero dovuto finanziare opere finalizzate all’aumento della competitività del sistema paese.

    Del resto, come anticipato, lo stesso andamento del reddito disponibile per i cittadini italiani che si è ridotto negli ultimi trent’anni del – 2,7%, mentre in Germania è cresciuto di oltre il +34% ed in Francia del +27%, dimostra la sostanziale “inutilità retributiva” della  della spesa pubblica e di ogni sua crescita.

    Un andamento confermato dagli ultimi dati relativi alle retribuzioni in Europa dal 2019 ad oggi che ha visto, a fronte di una diminuzione europea del -3% dei redditi disponibili, svettare l’italia con un -8% .

    Dati incontrovertibili che rappresentano  la conferma della sostanziale indifferenza economica di tale capitalismo relazionale il quale trova l’humus per la sua sopravvivenza nella presenza di una spesa pubblica assolutamente smisurata rispetto alle competenze di chi dovrebbe gestirla.

    (*) un processo avviato anni fa nel settore dell’alta orologeria Svizzera e che ha qualche evidenza anche in quello della occhialeria bellunese, i quali prediligono l’ottimizzazione dei tempi di produzione alla scelta strategica tra costi fissi e variabili.

  • L’insostenibile pesantezza della pressione fiscale

    “Più si aumentano le aliquote e meno le imposte rendono; per ottenere il rendimento bisogna invece diminuire le aliquote”, Luigi Einaudi

    A questo pensiero illuminato del più grande Presidente della Repubblica va aggiunto come egli fosse anche convinto che con la stessa moltiplicazione delle imposte, avendo queste sempre un costo, diminuisse l’efficienza del sistema fiscale complessivo.

    La classe politica italiana, viceversa, da oltre trent’anni anni utilizza la leva fiscale semplicemente con l’unico obiettivo di fornire le risorse necessarie ad una spesa pubblica assolutamente impazzita ed ingestibile, troppo spesso espressione di interessi lobbistici o di gruppi di interesse. La giustificazione sempre addotta per giustificare questa deriva e la contemporanea esplosione della pressione fiscale rimane quella relativa al mancato apporto finanziario legato alla quota di reddito evaso.

    Andrebbe ricordato come questa quota evasa abbia una minima incidenza con 80 miliardi di imponibile su di una spesa pubblica che sta arrivando ai 1.100 miliardi e si dimostra, quindi, un argomento più politico che economico in quanto assolutamente irrisoria nella sua entità, rappresentando meno del 5% della spesa complessiva.

    La leva, o la clava fiscale, rappresenta, quindi, l’estrema ratio, la quale consente ad una classe politica assolutamente irresponsabile di continuare ad aumentare la spesa pubblica in virtù di un ipotetico benessere per la collettività. Un concetto alquanto infantile in quanto l’effetto della realizzazione di un’opera pubblica, non venendo più realizzata da un’azienda ma arrivando da un general contractor il quale poi, a sua volta, attraverso la catena di subappalti, trasferisce a caduta ad aziende specifiche che gli assicurano i minimi costi. Di conseguenza lo stesso aumento della occupazione risulterebbe assolutamente irrisorio e a tempo determinato.

    Il raggiungimento, come il superamento, del 50% della aliquota fiscale nel nostro Paese rappresenta uno scandalo senza precedenti anche in prospettiva della continua e costante riduzione della spesa pubblica dedicata, per esempio, al sistema sanitario nazionale.

    Questa deriva economico-fiscale meriterebbe un approfondimento sulla capacità ed onestà intellettuale di chi ha gestito tanto la spesa quanto la pressione fiscale negli ultimi anni a partire dal 2011, quando il debito pubblico segnava 1987 mld mentre ora ha raggiunto i 2867 mld.

    Appare evidente come la leva fiscale e la stessa spesa pubblica e il debito che ne consegue rappresentino l’espressione di una forma di potere assolutamente svincolata dai suoi effetti per la popolazione, come ampiamente ho anticipato quasi otto anni addietro (*).

    Riportare la spesa pubblica, e la sua prima sorgente che la rifornisce, cioè la pressione fiscale, all’interno di un rapporto di valutazione costi/benefici rappresenta la prima scelta per tentare di rientrare all’interno di un sistema democratico che abbia come obiettivo la crescita dell’intero Paese.

    Nel caso contrario con questa aliquota (50,3%) lo Stato diventa semplicemente un predatore di risorse finalizzate al conseguimento di obiettivi politici ed etici, spesso espressione di deliri ideologici, e comunque sempre molto lontani dal concetto istituzionale di benessere collettivo.

    (*)  Novembre 2018 La vera diarchia https://www.ilpattosociale.it/attualita/la-vera-diarchia/

  • Guerra, Pil e Servizio Sanitario Nazionale

    La guerra può essere valutata in rapporto alla spesa sanitaria nazionale? Molto spesso si afferma che il valore del PIL non possa rappresentare e fotografare la reale situazione economica di un paese. Questo principio, se venisse accettato, risulterebbe ancora valido se diventasse un parametro nella misurazione degli effetti della economia di guerra. Da più parti, infatti, si parla della necessità di portare la spesa pubblica per gli armamenti al 2% del Pil nazionale. Un valore ed una percentuale che di per sé indicano poco ma se rapportati ad altri indicatori di spesa assumono tutto un altro significato.

    In Italia la spesa pubblica destinata al Sistema Sanitario Nazionale rappresenta il 6,3% del Pil mentre in Germania raggiunge il 10,9%, ed in Francia il 10,3%. Il raggiungimento, quindi, del tetto di spesa pubblica destinata agli armamenti fissato al 2% rispetto al PIL rappresenta contemporaneamente il 29% della quota di Pil destinata all’intera spesa sanitaria italiana.

    Viceversa in Germania il raggiungimento del medesimo obiettivo di valore economico per finanziare una guerra rappresenta poco più del 18% della quota Pil dedicata al Sistema sanitario nazionale tedesco.

    La differenza tra queste due percentuali di oltre il 10%, rapportate non più al solo Pil ma alle quote dello stesso destinate ai sistemi sanitari nazionali, Si sostanzia in termini economici in una minore disponibilità per l’Italia di circa 19 miliardi a favore del SSN ed una maggiore dotazione finanziaria per il Sistema sanitario nazionale tedesco di circa 42 miliardi.

    Questa differente dotazione finanziaria giustifica, quindi, ma non assolve la tendenza del Sistema Sanitario italiano ad assumere professionalità dai paesi in via di sviluppo e con un forte effetto deflattivo sulle retribuzioni.

    Viceversa la Germania, proprio grazie alla maggiore dotazione, può permettersi di importare personale qualificato, magari di formazione italiana, pagandolo adeguatamente rispetto alla professionalità.

    In altre parole l’ottimizzazione della spesa pubblica, soprattutto quella destinata ai servizi essenziali dei cittadini, rappresenta un parametro fondamentale nella comprensione delle motivazioni che vedono sempre più evidente la forbice tra il sistema economico tedesco e quello italiano. Una differenza tra i due paesi che tenderà a mantenersi se non addirittura aumentare durante questo terribile periodo di Forte tensione internazionale che vede molte risorse finanziarie destinate alle spese militari.

    Il continuo depauperamento del sistema sanitario nazionale, in atto sostanzialmente dal governo Monti in poi, rappresenta soprattutto ora, in quanto all’interno di un periodo prebellico, un fattore fondamentale per identificare e qualificare i parametri della spesa pubblica adottati dai governi dal 2011 ad oggi.

  • L’Italia lentamente si adegua alla necessità di spese militari come richiesto dall’Alleanza

    Riproposto brutalmente da Donald Trump, l’obbligo di destinare alle spese militari almeno il 2% del Pil da parte di ciascun Paese aderente alla Nato deriva da un accordo informale del 2006 dei Ministri della Difesa dei Paesi membri dell’Alleanza poi confermato e rilanciato al vertice dei Capi di Stato e di Governo del 2014 in Galles (obiettivo da raggiungere entro il 2024), in cui si è anche indicata una quota del 20% di tale spesa da destinarsi ad investimenti in nuovi sistemi d’arma.

    Nel bilancio 2023 dello Stato: il ministero della Difesa italiana ha ottenuto 27 miliardi e 748 milioni di euro, cui vanno aggiunti gli stanziamenti di ministero dell’Economia e delle Finanze e ministero delle Imprese e del Made in Italy alle spese militari. Come emerge dal dossier (pubblicato il 6 luglio scorso) della Documentazione parlamentare della Camera le spese militari sono passate dai 19,9 miliardi di euro del 2016 ai 21,4 del 2019 fino ai 24,5 del 2021. Nel 2022 il Sipri di Stoccolma, uno dei più prestigiosi istituti di studi sulla pace, stimava che in tutto il mondo le spese militari ammontassero a 1.981 miliardi di dollari annui, 1.103 dei quali (il 56% del totale) erano riconducibili all’Allenza Atlantica. All’undicesimo posto nel mondo e tra i primi 5 in Europa per questo tipo di spese nel 2022, l’Italia col bilancio 2023 ha portato le sue spese militari a oltre il 3% de Pil  (gli Stati Uniti, primi nella classifica mondiale, nel 2022 hanno destinato a questo settore 766 miliardi di dollari, pari al 3,74% del loro Pil).

    Le maggiori risorse alla Difesa nel 2023 rispetto al 2022, 1,792 miliardi di euro in più rispetto alimentano in particolare la “Funzione difesa” che sfiora i 20 miliardi con un aumento superiore all’8%. Nell’arco di 15 anni l’Italia spenderà quasi 13 miliardi di euro col “Fondo relativo all’attuazione dei programmi di investimento pluriennale per le esigenze di difesa nazionale”. E fino al 2036 sono previsti altri 3,8 miliardi di euro per le “Politiche di sviluppo dei settori ad alta valenza tecnologica per la difesa e la sicurezza nazionale”. Il capitolo 7421 della Difesa ha stanziato 877,9 milioni per “interventi per lo sviluppo delle attività industriali a tecnologia dei settori aeronautico e aerospazio in ambito difesa e sicurezza nazionale”: dal programma Forza Nec per abbattere i tempi di comunicazione, agli elicotteri Hh-101 e Nh-90 e agli aerei da caccia Eurofighter e Tornado.

    L’Italia partecipa con oltre 7mila soldati a 35 missioni internazionali nell’ambito di coalizioni multinazionali, sotto l’egida di Onu, Nato e Unione Europea o accordi bilaterali. E nello scenario di guerra sul “fianco est” della Nato altri 1.250 militari sono in Lettonia, Ungheria e in Bulgaria. In Romania una task force dell’Aeronautica è impegnata con Ef-2000 “Typhoon” nella sorveglianza degli spazi aerei alleati. A queste missioni, finanziate dal ministero dell’Economia, nel 2023 sono stati destinati 1,7 miliardi di euro. L’anno precedente sono stati spesi 137.259.170 di euro nella Coalizione internazionale di contrasto alla minaccia terroristica del Daesh; 106.585.294 per United Nations Interim Force in Lebanon (Unifil); 70.068.735 alla partecipazione a Nato Joint Enterprise nei Balcani; 55.427.196 nell’operazione “Mare Sicuro” e nella missione di supporto alla Marina libica, cui si sommano altri 11.848.004 euro per il controllo dei confini in “assistenza” alle istituzioni libiche; infine 24.598.255 al “potenziamento” del fianco sudorientale della Nato. Per il 2023 sono state finanziate 4 nuove mission: l’European Union Border Assistance Mission in Libya, l’iniziativa di partnership militare dell’Ue in Niger, la missione bilaterale in Burkina Faso e soprattutto Eumam Ucraina.

  • La “crescita” economica ed il nesso psicologico

    Gli ultimi dati economici dimostrano ancora una volta la sostanziale stagnazione dell’economia italiana con dieci flessioni consecutive della produzione industriale.

    Nel IV trimestre del 2023 il PIL “cresce” del +0,2% sul trimestre precedente e del +0,5% sul IV trimestre 2022.  Nel 2023 la crescita PIL complessiva si dimostra di un misero +0,7% rispetto al 2022.

    Mentre la Germania si trova in recessione con una crescita negativa del -0,3% del PIL legata alla frenata dell’export, la Spagna fa segnare un interessante +2,5%. La crescita spagnola è dovuta sostanzialmente ad una stabilizzazione e ad un mantenimento dell’export, ma soprattutto ad una crescita della domanda interna.

    Un fattore economico intersecato con un aspetto psicologico che potrebbe trovare una parziale ragione anche nella politica energetica del governo spagnolo.

    Andrebbe ricordato come la stessa famiglia che in Italia dovrebbe spendere per le bollette energetiche oltre mille euro, in Francia pagherebbe 626 euro, in Portogallo 559 e in Spagna addirittura 492 euro.

    La metà della spesa in bollette risparmiata in Spagna, espressione del tetto al prezzo del gas mentre in Italia Draghi attendeva fiducioso il price cap applicato al gas dall’Unione Europea, in un contesto nazionale di sensazione positiva per i cittadini che si sentono tutelati dallo Stato, si può trasformare in una percentuale aggiuntiva di domanda interna in beni e servizi e quindi di sviluppo economico. In altre parole, questa percezione si traduce in un sentiment positivo che favorisce i consumi.

    La mancata crescita italiana del 2023 nasce, invece, anche dalla terribile combinazione tra la scelta di questo governo di togliere le tariffe tutelate e di implementare ancora una volta, come tutti i governi precedenti, la cessione di quote, o “privatizzazioni/liberalizzazioni” come piace ai liberali nostrani, ai fondi privati delle multiutility ed aziende energetiche.

    Anche in questo contesto si inserisce un fattore psicologico individuabile dalla netta percezione provata dagli stessi cittadini italiani di essere diventati semplicemente delle “utenze” da sfruttare a favore delle aziende energetiche alle quali si apre il libero mercato a senso unico, a favore cioè delle aziende le quali applicano tariffe con aumenti anche del 5/600%.

    In questo modo, quindi, si trasforma una percezione nella assoluta certezza di essere stati abbandonati da quello stesso Stato che dovrebbe tutelarli come compito istituzionale. La certezza dell’abbandono statale si trasforma in un sentiment fortemente negativo.

    La flessione della domanda interna italiana, una delle caratteristiche più differenti con la crescita spagnola, rappresenta quindi l’unica “difesa” degli italiani, i cui effetti disastrosi, tuttavia, ricadono sul sistema industriale italiano e, di conseguenza, ancora una volta sui cittadini già in difficoltà.

  • Ancora con nuove tasse patrimoniali?

    Gli italiani ne pagano già molte e non hanno bisogno delle alzate d’ingegno e delle astruse  proposte di qualche vero o presunto economista o di qualche politico che cerca un paio di righe sui giornali. Bastano ed avanzano le patrimoniali che già paghiamo, sperando di non essercene dimenticata qualcuna sono queste:

    l’Imu/Tasi, l’Imposta di bollo, il bollo auto, l’Imposta di registro e sostitutiva, il canone Rai-Tv, l’Imposta ipotecaria, l’Imposta sulle successioni e donazioni, i diritti catastali, l’Imposta sulle transazioni finanziarie e l’Imposta su imbarcazioni e aeromobili.

  • Pagamenti sempre più digitali, sale l’uso di carte

    Non si arresta la crescita nell’utilizzo di carte, bonifici e bancomat da parte degli italiani. I dati della Banca d’Italia, riferiti al 2022, certificano la presenza sempre più massiccia del digitale nei comportamenti e nell’infrastruttura del comparto bancario e finanziario. Anche per questo il settore sta riducendo sempre più le filiali ‘fisiche’ oppure le sta trasformando in punti di consulenza o altro. Le filiali bancarie nel nostro paese infatti lo scorso anno sono calate ulteriormente dalle 21.650 del 2021 a 20.985 (cui vanno aggiunte le oltre 12mila filiali di Poste, rimaste stabili).

    Una tendenza all’immateriale e al digitale che la crisi Covid ha accelerato e che sta cambiando il panorama italiano incentrato, vuoi per retaggio culturale, vuoi per la vasta presenza dell’economia in ‘nero’ o in ‘grigio’ in diverse zone del Paese, sul largo uso dei contanti.

    Al netto così della diffusione sempre maggiore delle app fintech su smartphone, smartwatch o bracciali, scorrendo le tabelle diffuse dall’istituto centrale infatti si rileva come le operazioni con le carte di credito (aziendali e personali) lo scorso anno siano salite ancora. Il loro controvalore ha superato la soglia dei 100 miliardi a quota 101 miliardi di euro sebbene il numero di carte attive sia leggermente diminuito a 13,4 milioni.

    Per quanto riguarda le carte di debito (fra cui i Bancomat) hanno rafforzato la loro leadership salendo di numero da 60,9 a 63,4 milioni. Il controvalore dei pagamenti è cresciuto a circa 224 miliardi contro i 184 del 2021 (+21%) e a queste vanno aggiunte poco più di 30,4 milioni di prepagate, un fenomeno tipico italiano. E poi ci sono i bonifici: nel 2022 il loro controvalore è cresciuto a poco più di 9mila miliardi di euro.

  • La spesa in 30 anni: meno pasti in casa e meno energia

    In 30 anni il boom della spesa delle famiglie in tecnologia non sorprende sia pur con aumenti vertiginosi: +5.339% per i telefoni, in pratica per ogni euro speso nel 1995 oggi se ne spendono oltre 54 a parità di potere d’acquisto; +786% per pc e prodotti audiovisivi. Si spende di più per tempo libero e turismo. Si spende meno per i pasti in casa (-11,2%), i mobili e gli elettrodomestici (-5,1%) e per gas e elettricità (-12,2%) “anche in virtù della riduzione degli sprechi e delle politiche di risparmio energetico”. La spesa per l’abbigliamento e calzature è ferma ai livelli del 1995. L’analisi è di Confcommercio che ripercorre l’andamento della spesa media delle famiglie in termini reali (al netto della variazione dei prezzi).

    L’acquisto di servizi ricreativi e culturali è cresciuto del 93%. Si spende meno in generale per l’abitazione. La spesa per l’alimentazione è nel complesso stazionaria ma si sposta con “trend radicalmente diversi”: fuori casa è in crescita spinta “dalla tendenza a sviluppare benessere individuale attraverso la fruizione di servizi legati al tempo libero”, in casa è “compressa anche dalle tendenze demografiche”, per le diverse esigenze di una popolazione più anziana.

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