spesa

  • Si spende di più e si compra meno, boom dei discount

    La crescita dei prezzi spinge in alto la spesa delle famiglie costrette però a comprare meno prodotti. Ad aprile infatti – secondo gli ultimi dati diffusi dall’Istat – le vendite al dettaglio sono cresciute del 3,2% in valore rispetto allo stesso mese del 2022, ma sono diminuite del 4,8% in volume. E gli italiani cercando di risparmiar e di difendersi dall’inflazione si rivolgono sempre più alla grande distribuzione e ai discount alimentari.

    Market e supermarket hanno registrato ad aprile un +7,2% tendenziale delle vendite in valore (a fronte del +3,2% generale), mentre le imprese operanti su piccole superfici hanno perso terreno anche in valore (-1,1%). I discount alimentari all’interno della grande distribuzione hanno segnato un aumento delle vendite tendenziale del 9,2% mentre i supermercati hanno registrato un +7,4%. Se si guarda ai primi 4 mesi dell’anno le vendite sono cresciute nel complesso del 5,2% con una grande differenza tra la grande distribuzione (+7,8%) e i piccoli negozi (+2,5%). I discount alimentari hanno registrato un +9,1%.

    Con le famiglie che tirano la cinghia fanno fatica soprattutto i piccoli negozi che non vendono alimentari che registrano un calo di vendite in valore nonostante l’aumento dei prezzi dell’1,9% ad aprile su base tendenziale e un aumento dell’1,9% nei primi quattro mesi sempre su base tendenziale. Per quanto riguarda i beni non alimentari, si registrano variazioni tendenziali eterogenee tra i gruppi di prodotti. L’aumento maggiore riguarda i prodotti di profumeria, cura della persona (+7,9%) mentre i prodotti farmaceutici registrano il calo più sostenuto (-3,2%).

    Se si guarda al dato congiunturale ad aprile 2023 si stima rispetto a marzo un aumento per le vendite al dettaglio in valore (+0,2%) e un calo in volume (-0,2%). Sono in crescita le vendite dei beni alimentari (+0,9% in valore e +0,6% in volume) mentre quelle dei beni non alimentari registrano una diminuzione (-0,4% in valore e -0,7% in volume).

    Le associazioni dei commercianti esprimono preoccupazione e chiedono al governo sostegni per favorire la ripresa dei consumi. “A soffrire – sottolinea Federdistribuzione – non è solo il comparto alimentare ma anche le categorie del non alimentare, in particolare l’abbigliamento, che più risentono dell’andamento meteorologico e di una stagione estiva in forte ritardo. In questa prospettiva di incertezza, occorre quindi il massimo impegno per favorire la ripresa dei consumi, attraverso il sostegno alle famiglie e alle imprese”.

  • Nel paniere Istat anche massaggi e assistenti vocali

    Cambiano le abitudini di spesa delle famiglie e cambia il paniere Istat. L’insieme delle voci per rilevare i prezzi al consumo e misurare l’inflazione nel Paese fotografa ogni anno le nuove tendenze e si arricchisce di altri prodotti, più o meno di uso comune e sempre più smart. In tutto, il paniere 2023 ne conta 1.885. Le novità vanno dall’uso della tecnologia alla salute e all’estetica, dall’abbligliamento alla tavola. La lista spazia così dalla riparazione degli smartphone agli assistenti vocali ai massaggi estetici. Viene rivisto anche il peso delle divisioni di spesa: sale per abitazione e utenze, scende per gli alimentari e analcolici.

    Tante le new entry. Ad entrare, nella fetta dei prodotti che rappresentano l’evoluzione dei consumi e delle norme, sono la visita medica sportiva (libero professionista) con le più frequenti richieste di certificato per attività anche non agonistiche, la riparazione degli smartphone, ormai sempre più diffusi, e le apparecchiature audio intelligenti, in altre parole gli assistenti vocali, capaci di rispondere alle più svariate domande, ai comandi in casa dalla sveglia alle luci, alle informazioni su traffico e meteo. Nuovi ingressi anche tra i cosiddetti consumi consolidati: arrivano nella lista il tonno fresco di pescata e i rombi di allevamento, ma anche, nella parte relativa alla salute, il deambulatore per gli anziani e chi ha difficoltà. Non mancano le novità tra i trattamenti di bellezza, dove si fa spazio il massaggio estetico. E tra i capi di abbigliamento: nel paniere 2023, tra i pantaloni da donna, debuttano i leggings o jeggings.

    Altra novità è che quest’anno nessun prodotto esce dal paniere poiché tutti quelli presenti nel 2022, spiega l’Istat, non mostrano segnali di obsolescenza. Aggiornato invece il peso delle diverse divisioni di spesa, operazione per garantire che il sistema utilizzato per la stima dell’inflazione mantenga la rappresentatività delle quote di spesa che i consumatori destinano all’acquisto di beni e servizi. In particolare, con riferimento all’indice nazionale dei prezzi al consumo Nic, il peso aumenta per i Servizi ricettivi e di ristorazione (+1,9 punti percentuali rispetto all’anno scorso), Abitazione, acqua, elettricità e combustibili (+0,8 punti) e Ricreazione, spettacoli e cultura (+0,7 punti); si riduce, invece, per i Prodotti alimentari e bevande analcoliche, che comunque restano al top (-1,4 punti punti percentuali), così come per Servizi sanitari e spese per la salute (-0,4 punti) e Bevande alcoliche e tabacchi (-0,4 punti).

    La rimodulazione non convince le associazioni dei consumatori.  Per il Codacons “non si comprende la seconda riduzione consecutiva decisa per il peso della voce ‘Prodotti alimentari e bevande analcoliche’, comparto che risente particolarmente del caro prezzi e la cui inflazione incide in modo rilevante sui bilanci delle famiglie, specie quelle numerose o a reddito basso”. L’Unc ritiene “positivo che sia aumentato il peso della divisione ‘Abitazione, acqua, elettricità e combustibili'” ma, “visti i prezzi lunari delle bollette di luce e gas”, si chiede se è sufficiente.

  • Nel 2022 rincari medi di 3.000 euro per ogni famiglia

    Il 2022 è stato senza dubbio l’anno nero dei rincari, con la guerra in Ucraina e la crisi energetica che hanno spinto al rialzo i prezzi di beni e servizi portando ad incrementi dei listini che hanno investito tutti i settori, dagli alimentari ai trasporti, dal turismo alla ristorazione. Così una famiglia media di 4 persone si è trovata costretta a subire una stangata di oltre 3.000 euro di maggiori spese.

    Il dato emerge dai calcoli del Codacons sulla base dei numeri definitivi sull’inflazione media del 2022 diffusi dall’Istat. E, analizzando voce per voce l’aumento medio di prezzi e tariffe registrato lo scorso anno, il podio spetta chiaramente alle bollette per l’energia elettrica, aumentate del 110,4% rispetto al 2021. A seguire c’è il prezzo dei biglietti aerei (internazionali ed europei), cresciuti dell’85,9% anno su anno, e la bolletta del gas (+73,7%). I rincari ‘monster’ non risparmiano alcun aspetto della spesa quotidiana. Così, ad esempio, l’olio di semi è rincarato in media lo scorso anno del 51,5%, il gasolio per riscaldamento del 38,4%, mentre la voce “altri carburanti” (Gpl, metano) è salita del 33,3%.

    Aumenti quelli del 2022 che si sono dunque tradotti in un pesante aggravio per gli italiani. Considerata infatti la spesa per consumi di una famiglia con due figli, il tasso di inflazione medio dell’8,1%, a parità di consumi, si è tradotto in una stangata da 3.018 euro. Di questi 698 euro di maggior esborso solo per la spesa alimentare: per la voce “pane e cereali” una famiglia di quattro persone ha speso circa 144 euro in più rispetto al 2021 (+10,9%), 122,7 euro in più per la carne (+7,2%), 117,3 euro in più per la verdura (+11,8%). La spesa per latte, formaggi e uova è salita in media di 94 euro a nucleo (+9,5%) e di 43,6 euro per la frutta.

    Passando alla nota dolente dell’energia, un aumento del 110,4% per la luce equivale, in base ai dati Istat, ad un aggravio medio pari a +862 euro in bolletta nel 2022, +533,6 euro per il gas, per un totale di +1.395 euro a nucleo. Per i carburanti una famiglia italiana ha invece speso lo scorso anno 335 euro in più, con il gasolio salito in media del 22,1% e la benzina dell’11,8%. Sensibili incrementi dei listini anche per bar, ristoranti e hotel, cresciuti del 6,3%. Dall’ondata di rincari, infine, non si salvano nemmeno i mobili e i servizi per la casa (+83,1 euro a nucleo), i prodotti per animali domestici (+14,5 euro) e la spesa per fiori e piante (+9,5 euro).

    “La guerra in Ucraina e il caro-energia hanno determinato rincari a cascata a danno degli italiani, erodendo il potere d’acquisto delle famiglie e modificando profondamente le abitudini dei cittadini – afferma il presidente del Codacons Carlo Rienzi – Un allarme che, purtroppo, non è cessato, e sembra destinato a perdurare anche nel 2023: già nelle prossime settimane potremmo assistere ad una nuova fiammata dei listini al dettaglio».

  • La tempesta lmperfetta

    Dall’inizio della pandemia il nostro sistema economico e sociale è sottoposto ad una serie di problematiche  per le quali nessun governo precedentemente aveva pensato e tanto meno posto in essere delle strategie di contrasto. Ogni governo degli ultimi 30 anni ha, infatti, continuato ad aumentare la spesa pubblica corrente ed il debito come se questi fattori fossero assolutamente ininfluenti all’interno di una strategia di sviluppo economico.

    Successivamente la pandemia con l’inflazione e contemporaneamente la carenza di materia prime per la nostra industria di trasformazione hanno posto ancor più sotto stress il nostro sistema industriale ed economico e di conseguenza anche quello occupazionale e sociale.

    Mentre il governo Draghi parlava, nel 2021,  di un nuovo boom economico simile a quello degli anni sessanta, il nostro Paese è arrivato all’esplosione inaspettata della guerra in Ucraina già con il prezzo del gas a +537% e da questo primato si sono poi succedute le terribili conseguenze della crisi economica ed energetica all’interno di un’economia di guerra.

    Gli altri governi della stessa Unione europea stanno optando per sostanziali e complessive politiche fiscali finalizzate alla riduzioni delle tasse, viceversa quello italiano continua con la  discriminante, ed  anche  umiliante, politica dei Bonus per la necessaria presentazione del certificato ISEE.

    In un simile contesto emerge l’incapacità di elaborare una politica fiscale complessiva che abbia la doppia funzione di attutire per i consumatori l’impatto dell’inflazione esogena (1), cioè  determinata da fattori esterni (carenza e aumento dei costi delle materie prime e dei prodotti energetici), alla quale si aggiungono  i terribili effetti (2) di una politica monetaria della Bce incapace di comprendere perfino la diversa  genesi inflattiva europea e la conseguente politica monetaria (infatti la Cina ha abbassato i tassi d’interesse).

    Molti commentatori indicano questa sintesi di fattori economici, monetari e sociali come la “tempesta perfetta” sottintendendo la sostanziale irresponsabilità delle classi politiche e governative nazionali.

    Una definizione calzante, forse, per i vertici Istituzionali, governativi e politici, degli altri paesi ma non certamente per il nostro.

    Non va dimenticato, infatti, come la percezione di questa crisi non venga assolutamente dimostrata da determinate autorità politiche, anche  locali, le quali continuano nella propria gestione ideologica delle città come se questi terribili eventi, come la crisi economica ed energetica, rappresentassero un’occasione più che una disgrazia.

    Andrebbe ribadito ancora una volta come all’interno di un periodo di una complessa  crisi  come l’attuale, ogni risorsa economica umana e professionale dovrebbe essere lasciata libera  con l’obiettivo di creare le condizioni favorevoli ad una ripresa il più possibile veloce ed immediata eliminando ogni vincolo burocratico di ogni tipo e sorta.

    La scellerata scelta, invece, del sindaco di Milano, Sala, di impedire l’ingresso nella città alle autovetture euro 5 diesel va esattamente nella direzione opposta , confermando da una parte di non essere in grado di comprendere gli effetti devastanti per il tessuto industriale economico ed occupazionale derivanti dalla guerra come della pandemie e dall’inflazione. In più lo stesso sindaco dimostra di essere vittima di un narcisismo ideologico che pone la sua figura come le proprie decisioni al di sopra del problematico contesto storico.

    Un’unica persona come il  sindaco  mette così a rischio, o quanto meno in difficoltà, la complessa movimentazione di persone e  cose, e quindi di idee ed iniziative per oltre trecentomila (300.000) persone, nella sola area di Milano. Per cui il nostro Paese non si trova a subire solo i terribili effetti di  una tempesta derivante da fattori indipendenti dal controllo governativo, politico ed istituzionale, ma ne aggrava le conseguenze con l’opera irresponsabile di autorità governative anche locali.

    In questo periodo, sempre a causa di una sostanziale incompetenza e soprattutto di un approccio ideologico considerato superiore, alla stessa tragica unicità del momento storico economico,  le diverse classi politiche anche locali continuano per la propria strategia ideologica, prive di ogni collegamento con il contesto storico ed economico.

    Emergere chiaro perciò per quale motivo il nostro Paese subisca gli  effetti più disastrosi legati al succedersi della pandemia e della guerra.

    In quanto alla tempesta perfetta si aggiunge l’imperfetto operato dal governo e dei sindaci, i quali  si rivelano di una  assoluta impermeabilità alle difficoltà espresse, anche dai propri concittadini , Introducendo vincoli alla movimentazione urbana (Milano stop euro 5) o magari aumentandosi i propri emolumenti (Padova), e soprattutto non ponendosi neppure il dubbio  se, in un contesto di eccezionale gravità, non sarebbe il caso di riporre nella fondina i propri obiettivi ideologici,e dare la massima priorità ad una ripresa economica sostenuta anche dalla eliminazione di quanti più possibili vincoli burocratici e normativi anche nella semplice movimentazione urbana.

    P.S. In relazione, poi, all’impatto delle auto: 11.08.2022 https://www.ilpattosociale.it/attualita/la-colpevole-immaginaria-lautomobile/

  • Milano città più cara d’Italia per fare la spesa alimentare, costa il doppio di Napoli

    Milano si conferma la città più cara dove fare la spesa alimentare, a Napoli si spende circa la metà. Ma ad Aosta spetta il primato dei servizi più costosi. Il dato emerge da una indagine del Codacons che ha messo a confronto prezzi e tariffe di un paniere di beni e prestazioni nelle principali città italiane, per capire come cambia lo scontrino medio degli italiani a seconda della zona di residenza.

    Sul fronte degli acquisti alimentari a Milano, per riempire un carrello contenente prodotti che spaziano dall’ortofrutta al pesce, si spendono circa 116 euro, il 17,7% in più della media nazionale e addirittura il +54% rispetto alla città più economica, Napoli, dove per gli stessi acquisti bastano 75 euro.

    Per i servizi, dal ginecologo al dentista, passando per tintorie e parrucchieri, è Aosta la città dove si spende di più, con una media di 458 euro per un paniere ad hoc, il 29,7% in più sulla media nazionale. Tra le città più costose figurano anche Trento e Bologna mentre le più economiche, in base allo studio del Codacons, sarebbero Napoli, Pescara e Palermo.

    Non mancano le curiosità: per il taglio capelli uomo conviene trasferirsi a Catanzaro, dove bastano appena 14,29 euro contro i 26,3 euro di Trieste, il cappuccino meglio a Roma (1,18 euro) che a Trento (1,68 euro), mentre per lavare e stirare un abito in tintoria i cittadini di Torino spendono in media 8,43 euro, il 25% in meno della media nazionale. Il petto di pollo più economico è venduto a Pescara (in media 8,82 euro al kg), le alici più “salate” a Roma (9,71 euro al kg), proibitivo il salmone a Milano (quasi 30 euro al kg).

  • Il caro-prezzi frena crescita al Sud. E i consumi crollano

    Inflazione più forte, crollo dei consumi, crescita rallentata. Non è un quadro roseo quello del Mezzogiorno d’Italia che emerge nelle anticipazioni del Rapporto Svimez 2022. A cominciare dall’aumento dei prezzi, il cui picco quest’anno potrebbe spingersi al Sud fino all’8,4%, contro il 7,8% del Centro-Nord, con un rientro più lento, nel Meridione, sui livelli precedenti lo “shock Ucraina”.

    Una dinamica tale da impattare fortemente sui consumi, determinandone un crollo nel biennio 2023-2024 insieme a un persistente effetto di erosione del potere d’acquisto di redditi e risparmi. A frenare di più saranno i consumi delle famiglie meno abbienti, decisamente più numerose nel Mezzogiorno che nell’Italia centrosettentrionale.

    Allargando lo sguardo al Pil, dopo la frenata dovuta alla pandemia, l’Italia ha conosciuto una ripartenza pressoché uniforme tra macro-aree. Ma il mutato contesto dovuto alla guerra espone l’economia italiana a nuove turbolenze, allontanandola da una ripartenza relativamente tranquilla e coesa tra Nord e Sud. In altre parole: si riapre la forbice tra Settentrione e Meridione, con una crescita del Pil al Sud, nel 2022, stimata dalla Svimez al 2,8%, contro il 3,6% del Centro-Nord e il 3,4% del Paese. Stesso trend previsto nel 2023: +1,7% nelle Regioni centrosettentrionali a fronte di un +0,9% in quelle del Sud. Nel 2024 invece si manterrebbe un divario di crescita a sfavore del Mezzogiorno di circa 6 decimi di punto: +1,9% al Nord, +1,3% al Sud.

    Non va meglio sul fronte delle imprese, dove lo shock sui costi di produzione si dovrebbe trascinare fino al 2024 incidendo sulle decisioni di investimento. E anche se al Sud prevarrebbe lo stimolo determinato dagli investimenti pubblici, risultano comunque in svantaggio gli investimenti in macchinari e attrezzature. Più in generale le imprese nel Mezzogiorno restano maggiormente esposte alle conseguenze del conflitto in Ucraina e all’aumento dei costi dell’energia, perché è nel Meridione che sono più diffuse realtà imprenditoriali di piccole dimensioni, caratterizzate da costi di approvvigionamento energetico strutturalmente più elevati sia nell’industria che nei servizi. Inoltre, evidenza l’analisi della Svimez, i costi dei trasporti al Sud sono più alti, oltre il doppio, rispetto a quelli delle altre aree del Paese.

    Unica nota positiva, ma da prendere con le molle, quella degli investimenti. Nel 2022 infatti crescono al Sud più che al Nord: +12,2% contro il +10,1%. Ma a trainare sono soprattutto quelli nel settore delle costruzioni, grazie a stimoli pubblici come il superbonus 110% e gli interventi finanziati dal Pnrr. Di contro, nel Meridione, la crescita degli investimenti orientati all’ampliamento della capacità produttiva è inferiore di 3  punti a quella del Centro-Nord: +7% contro +10%.

  • Gli italiani spendono di più ma comprano sempre meno

    Gli italiani spendono di più ma comprano di meno: è l’effetto del carovita, che a giugno ha portato le vendite al dettaglio a crescere in valore (+1,4%) ma a diminuire in volume (-3,8%) rispetto ad un anno fa. Quindi, nonostante l’esborso aumenti, le sporte delle famiglie sono sempre più leggere. Non solo. Secondo i dati Istat rispetto a maggio le vendite sono diminuite dell’1,1% in valore e dell’1,8% in volume. In pratica la crescita delle vendite, sottolineano i consumatori, è una sorta di “effetto ottico” che di fatto nasconde una riduzione dei consumi che su base tendenziale è significativa soprattutto per i beni alimentari, con un -4,4% in volume a fronte di un +4,5% della spesa.

    Per gli alimentari a giugno si è registrato un aumento delle vendite al dettaglio dello 0,4% in valore ma un calo dello 0,8% in volume. Per il settore non alimentare, comparto nel quale i consumi sono più differibili, si è registrato nel mese un calo del 2,2% in valore e del 2,5% in volume. In pratica alcune famiglie potrebbero avere dirottato nel mese, a fronte di una crescita dei prezzi, parte degli stipendi sugli acquisti alimentari frenando quelli non alimentari. Su base annua il settore alimentare ha sofferto meno con un calo in valore dello 0,8% e una riduzione in volume del 3,3%.

    Nei primi sei mesi dell’anno le vendite sono aumentate del 5,7% in valore e del 2,3% in volume rispetto ai primi 6 mesi del 2020 con un aumento significativo per il settore non alimentare (+7,9% in valore, +6,6% in volume) che recupera però su quanto perso in un periodo ancora funestato dalla pandemia. Per l’alimentare nel semestre si registra un aumento dei volumi del 3,1% e un calo delle quantità del 3%.

    I consumatori che nella maggior parte dei casi devono fare i conti  con la perdita del potere d’acquisto delle retribuzioni di fronte alla crescita dei prezzi in questo periodo hanno preferito acquistare nella grande distribuzione e in particolare per il settore alimentare nei discount. Se in generale le vendite sono cresciute dell’1,4% rispetto a giugno 2021 la grande distribuzione ha segnato un +4,6% mentre i piccoli negozi hanno segnato un -0,9%. E’ diminuito il commercio elettronico con un -6,8% tendenziale ma il dato arriva dopo anni di crescita per la pandemia (+0,9% nei primi sei mesi del 2022 rispetto allo stesso periodo del 2021). Se i supermercati hanno segnato un +5,4% in valore i discount di alimentari hanno registrato un +10,3%. Nei primi sei mesi i discount hanno messo a segno un aumento del 9% sullo stesso periodo del 2021.

    Per la Confcommercio “si addensano le nubi sull’economia italiana”. Il dato Istat conferma – sottolinea l’Associazione – che i consumi, nonostante la forte crescita dei servizi legati al turismo e alla socialità, sono in fase di rallentamento”. “L’inflazione – sottolinea la Confesercenti – pesa sulla spesa delle famiglie. Il dato Istat di giugno sulle vendite al dettaglio evidenzia, ancora una volta, il ruolo negativo giocato dalla dinamica al rialzo dei prezzi, in particolare di utenze ed altri costi fissi incomprimibili, che porta gli italiani a ridurre gli acquisti, pur spendendo anche di più, con il rischio di un vero e proprio autunno nero per i consumi”.

    Per far ripartire i consumi il Codacons chiede al Governo di “intervenire con urgenza disponendo il taglio dell’Iva sui beni primari come gli alimentari, in modo da portare a una immediata riduzione dei listini al dettaglio, determinare benefici economici per le famiglie”.

  • Perché cresce la spesa pubblica

    Potrebbe essere molto interessante proporre un piccolo esempio di come possa esplodere la spesa pubblica ma senza generare alcun effetto positivo e tangibile per i cittadini.

    L’inflazione, che segna un +8,5%, ha  aumentato  la base nominale imponibile sulla quale vengono calcolate le aliquote fiscali e anche  l’Iva. In un solo anno, lo Stato ha incassato oltre 40 miliardi in più di tasse proprio grazie all’aumento della base imponibile causata dall’inflazione (Fiscal Drag). Ora,  pur partendo da questa considerazione, all’interno del programma di Calenda /Azione/+Europa e di vari gruppi “liberali”  che con lui hanno dato vita ad una alleanza elettorale, si propone una tassa dello 0,1% da applicare ad ogni transazione finanziaria per arrivare,  nella disponibilità delle casse dello Stato, ad  altri 40 miliardi.

    L’obiettivo “dichiarato” dovrebbe essere quello di ridurre, attraverso queste nuove risorse pubbliche, la tassazione alle  imprese  le quali, successivamente, dovrebbero così  venire incentivate all’assunzione di nuovo personale.

    Una teoria economica e strategica assolutamente non liberale e tanto meno liberista, delle quali tutte queste forze politiche citate si definiscono limpide interpreti, in quanto non può essere la spesa pubblica a  finanziare i nuovi posti di lavoro. Quando, invece,solamente una riduzione strutturale della pressione fiscale, ed attraverso risorse già disponibili come quelle del fiscal drag con quaranta miliardi in dotazione, potrebbe creare le condizioni  ottimali con l’obiettivo di attrarre nuovi investimenti e contribuire cosi ad aumentare l’occupazione.

    Tuttavia , al di là degli obiettivi da raggiungere con l’utilizzo delle risorse finanziarie pubbliche, ecco come in soli due passaggi lo Stato si ritroverebbe con ottanta (80) miliardi di risorse finanziare in più, e di conseguenza un aumento di oltre il 16 % del monte tasse totale pagate allo Stato nel 2021.

    Contemporaneamente le medesime risorse finanziare (80 miliardi) risulterebbero sottratte al mercato nazionale come riduzione della capacità economica del ceto medio il quale sostiene, attraverso la domanda interna, la crescita del Pil.

    In due  semplici scelte, governativa  e politica , viene spiegato perché, negli ultimi trent’anni, il nostro Paese abbia visto ridurre del -3,7% il reddito disponibile, unico in Europa, rispetto ad una crescita in Germania del +34,7% nello stesso periodo.

    Mentre continua ad aumentare la spesa pubblica, finanziata attraverso nuova pressione fiscale, assolutamente improduttiva ed espressione di una dottrina economia feudale, si manifesta evidente l’entità delle risorse sottratte al mercato interno, alla domanda ed al ceto medio impoverendo un’intera generazione di italiani.

  • In tutto il mondo gettate ogni giorno 3,4 miliardi di mascherine anti-Covid

    L’emergenza Covid-19 ha imposto ai Paesi di tutto il mondo l’immediata necessità di garantire enormi forniture di dispositivi di protezione individuale (mascherine innanzitutto), di vaccini e di attrezzature ospedaliere. La stessa attenzione, tuttavia, non è stata posta allo smaltimento sicuro e sostenibile dei rifiuti sanitari creati da questa pandemia. Una mancanza che rischia di avere un impatto pesante sull’ambiente e la salute. A lanciare l’allarme è l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) in un rapporto appena pubblicato in cui si evidenzia l’urgente bisogno di migliorare i modelli di gestione dei rifiuti e si stima che ogni giorno siano finite nella spazzatura fino a 3,4 miliardi di mascherine.

    Fare un bilancio dei rifiuti sanitari legati alla pandemia è difficile, spiega l’Oms. Tuttavia esistono numerose ricerche che danno una misura dell’entità del problema. Un’analisi dello United Nations Development Programme (Undp) ha calcolato che la pandemia, incidendo per esempio sui protocolli di sicurezza, ha aumentato la quantità di rifiuti sanitari a 3,4 kg al giorno per ogni letto ospedaliero, che è circa 10 volte di più rispetto ai tempi pre-pandemia. Gli stessi vaccini sono un’importante fonte di rifiuti: ne sono state somministrate oltre 8 miliardi di dosi a livello globale che hanno prodotto 144.000 tonnellate di rifiuti aggiuntivi, 88.000 in fiale, 48 mila in siringhe e 8.000 in contenitori termici.

    Il rapporto Oms porta anche l’esempio del programma messo in piedi dall’Onu all’inizio della pandemia per far fronte alle richieste di dispositivi di protezione individuale soprattutto da parte dei Paesi a basso reddito. Solo all’interno di questo programma sono state prodotte 87.000 tonnellate di dispositivi di protezione individuale (Dpi) acquistati tra marzo 2020 e novembre 2021 solo nell’ambito di una iniziativa di emergenza promossa dalle Nazioni Unite. Sono stati inoltre distribuiti oltre 140 milioni di kit per i test potenzialmente in grado di generare 2.600 tonnellate di rifiuti non infettivi (principalmente plastica) e 731.000 litri di solventi chimici (equivalenti a un terzo di una piscina olimpionica).

    “È assolutamente importante fornire i dispositivi necessari, ma è altrettanto fondamentale che il loro utilizzo e smaltimento avvenga in sicurezza e senza impatto sull’ambiente circostante”, dichiara Michael Ryan, direttore esecutivo del programma per le emergenze sanitarie dell’Oms.

  • La sorgente inflattiva

    La politica monetaria espansiva nell’Unione Europea è cominciata nel 2015 con la Presidenza della BCE di Mario Draghi ed il governo Renzi ed ha avuto il merito di abbassare quasi a zero i tassi di interesse e, di conseguenza, i costi del servizio al debito con punte di rendite negative per i Bund tedeschi.

    Il nostro Paese, come sempre governato con una visione prospettica al massimo di quindici (15) giorni, invece di ridurre la massa debitoria grazie al risparmio di oltre 30 miliardi l’anno di interessi ha sempre aumentato la spesa pubblica fino alla pandemia alla quale si è presentato con il 135% di rapporto debito sul Pil pari a 2.409 miliardi e già alla fine del primo anno di pandemia segnava un aumento di oltre 160 miliardi.

    Quello che risulta interessante, tuttavia, è come la politica monetaria espansiva delle autorità monetarie europee e di quelle oltre oceano, pur ideata con la funzione di fornire strumenti finanziari per una ripresa di fronte alla stagnazione complessiva della economia europea e statunitense, di fatto non abbia prodotto alcun effetto collaterale (inflazione). L’effetto complessivo assolutamente marginale di questa strategia monetaria, infatti, veniva non solo confermato dal perdurare della stagnazione economica e contemporaneamente dei consumi quanto confermata da tassi di inflazione sempre vicini, se non addirittura inferiori al punto percentuale. In più il consumo complessivo, come espressione della stessa stagnazione e della sua aspettativa, ha determinato acquisti di beni a minore valore aggiunto anche per la presenza sempre più massiccia di presenza di prodotti provenienti dall’estremo Oriente, espressione delle delocalizzazioni.

    La mancanza di un tasso di inflazione perlomeno prossima al 2% preoccupava le varie classi politiche, ed in particolare quella italiana, le quali vedevano ogni aumento della spesa pubblica (trend assolutamente inarrestabile) riverberarsi in un sensibile peggioramento del rapporto debito Pil (quindi di difficile giustificazione) il quale nel caso, invece, di un tasso di inflazione vicino o superiore al 2% avrebbe raggiunto un equilibrio migliore.

    Il mercato globale, quindi, ha dimostrato sostanzialmente come una politica monetaria espansiva abbia determinato degli esiti quantomeno marginali e contemporaneamente con effetti quasi nulli rispetto alle dinamiche di un mercato complesso la cui globalità determina inevitabilmente la perdita di potere ed efficacia dei vecchi strumenti di indirizzo come le politiche monetarie.

    Viceversa la spesa pubblica (vera ed unica costante in questo mondo in continua evoluzione) ha conosciuto un ulteriore incremento, quasi le risorse disponibili a bassi interessi NON venissero più considerate come un debito.

    Successivamente la terribile pandemia ha bloccato e stravolto l’economia mondiale, dando inizio ad un’altra ed ancora più impegnativa elaborazione di una nuova strategia di politica economica di contrasto al disastroso trend economico. In questo frangente, tuttavia, le economie occidentali si trovano di fronte ad un’impennata dei costi di beni intermedi e strumentali e della gestione delle filiere o supply chain la cui somma finale inevitabilmente si riverbera sulla crescita dei prezzi finali al consumatore. Nel mondo delle imprese, addirittura, questa spirale inflattiva sta portando alla chiusura di attività imprenditoriali (vetrerie Murano-Venezia) o alla sospensione della produzione per mancanza di margine in rapporto alle esplosione dei costi dell’energia la quale comunque, in Italia, prima della pandemia risultava già superiore del 30% alla media europea.

    Sicuramente l’avvio anticipato dell’economia cinese, molto anticipata rispetto a quelle degli altri paesi, ha determinato una sostanziale scarsità di materie prime con un conseguente aumento complessivo dei prezzi. Ora risulta fondamentale, come risposta, la questione relativa alle strategie politiche, economiche e monetarie da adottare in relazione a questa impennata dei costi che minaccia intere filiere industriali ed il crollo dei consumi.

    Gli Stati Uniti hanno avviato una politica di tapering lasciando sostanzialmente invariati i tassi di interesse con una crescita sostanziale invariata mentre nell’Unione Europea si comincia a parlare di una stretta monetaria finalizzata al contrasto dell’inflazione.

    Dopo quasi due anni ormai di disastrosa crisi economica legata alla pandemia e con questa inaspettata spirale inflazionistica si dovrebbe partire considerando gli scarsi se non nulli effetti del periodo precedente della politica monetaria sia sotto il profilo del rilancio economico quanto di un riavvio dell’inflazione per scongiurare la allora tanto temuta deflazione.

    Nel caso opposto, cioè in previsione dell’adozione di una politica monetaria restrittiva, le conseguenze potrebbero addirittura rivelarsi disastrose per gli effetti sull’economia reale in quanto ridurrebbe, come sempre e per l’ennesima volta, il potere di acquisto (soprattutto per le fasce meno abbienti) e darebbe l’illusione alla classe politica di “avere ridotto” il debito pubblico quando a beneficiarne sarebbe solo il rapporto tra valori nominali (debito/Pil) amplificati dall’effetto inflattivo.

    Mai come ora l’unica soluzione, compatibilmente con le varie realtà finanziarie dei singoli paesi ma inseriti in un mercato globale e con filiere sotto stress, dovrebbe essere quella di un “ammorbidimento fiscale” successivo ad una rimodulazione della spesa pubblica finalizzata a recuperare gli oltre 200 miliardi di sprechi certificati dalla Cgia di Mestre. Solo per offrire un esempio, se si volesse veramente mantenere inalterato il potere di acquisto delle fasce più deboli della popolazione si diminuirebbero le accise sui carburanti, specialmente quelle sul gasolio, in considerazione del fatto che oltre l’82% delle merci viaggia su gomma.

    Il solo modo, ormai, per ridare ossigeno all’economia è quello di riconsegnare un maggiore potere d’acquisto alle domande interne del continente europeo attraverso una diminuzione delle pressioni fiscali in seguito anche alla diminuzione delle spese correnti e contemporaneamente offrire uno scenario di certezza normativa fiscale ed economica. Invece, specialmente in Italia, si continua con le politiche dei bonus che privilegiano una categoria in nome di un’uguaglianza sempre più lontana ed espressione di arbitrarie attenzioni e quindi da un approccio politico nazionale sostanzialmente divisivo.

    Questa “ricerca” della uguaglianza, attraverso il perverso strumento della spesa pubblica, risulta invece talmente ideologica da ottenere negli ultimi trent’anni la diminuzione del reddito disponibile del -3,7% mentre nel medesimo periodo è cresciuta del +34,7% nella vicina Germania.

    La consueta richiesta di una stretta monetaria a fronte di una spirale inflazionistica della quale non si considera la sorgente dimostra come, ancora oggi, non sia compresa l’assoluta inconcludenza della politica monetaria in quanto il mercato globale ha cambiato le potenze di fuoco delle diverse teorie economiche in particolare della politiche monetarie. Ora più che mai, di fronte al pericolo di una politica monetaria restrittiva come azione deflattiva, sarebbe vitale comprendere come l’unico effetto si confermerà quello di penalizzare ancora una volta le fasce più deboli della popolazione lasciando inalterata la scellerata politica di espansione della spesa pubblica finanziata da un continuo aumento delle pressione fiscale.

    Si parla di globalizzazione senza ancora avere compreso le dinamiche complesse delle politiche economiche e soprattutto come la globalizzazione abbia disarmato le politiche monetarie all’interno di un sistema alla continua ricerca di un equilibrio il quale, per le complesse ed infinite variabili della globalità, non potrà mai venire raggiunto.

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