spesa

  • Avere un’auto nel 2019 è costato il 6,58% in più che nel 2018

    I costi medi per il mantenimento di un’auto per gli automobilisti italiani sono pari, in media, a 1.614 euro con un incremento del 6,58% rispetto allo scorso anno. E’ quanto emerge dall’analisi effettuata da SosTariffe.it ad ottobre 2019 sulle varie fonti di spesa per l’auto regione per regione.

    La principale voce di spesa per gli automobilisti italiani è il carburante, che comporta un esborso di circa 891 Euro all’anno. A seguire vengono la polizza RC Auto, pari a circa 573 euro, e i costi per bollo e revisione (circa 149 euro). L’incremento registrato a livello nazionale è dovuto soprattutto ai rincari in quattro regioni: Friuli, Valle d’Aosta, Puglia ed Emilia Romagna. Il picco dei rincari, rispetto ai dati raccolti nel 2018, viene registrato in Friuli Venezia Giulia dove si tocca quota +35% su base annua per i costi di mantenimento. Lo scorso anno, gli automobilisti friulani hanno speso in media 1.117 euro all’anno per l’auto, nel 2019 ne hanno spesi 1509. In Val d’Aosta il rincaro è stato del 22%: gli automobilisti valdostani sono passati da un esborso di 1.259 euro l’anno nel 2018 a uno di 1.536 euro quest’anno. I costi di mantenimento dell’auto sono cresciuti del 22% anche in Puglia, passando da 1.529 a 1.863 euro. Agli automobilisti dell’Emilia Romagna, quest’anno la macchina è costata quasi il 20% in più: 1.576 euro contro i 1.314 dell’anno passato.

    In controtendenza spicca invece il Molise dove i costi di gestione dell’auto sono scesi del 19,76%, pari a oltre 300 euro in meno di spesa complessiva su base annua. Cali netti anche in Umbria (da oltre 1.893 euro a 1.624, -14.17%) e in Veneto (da 1.722 a 1.649 euro, -4.26%). In Veneto peraltro si registra il costo più alto per quanto riguarda il carburante che incide sulla spesa complessiva per 1.000 euro all’anno circa. Sono calate del 2% anche le spese di mantenimento per gli automobilisti in Campania (da 2.155 a 2.112 euro l’anno) mentre in Trentino Alto Adige la riduzione è stata solo dell’1,67%.

  • Quale difesa per il contribuente?

    In mezzo ai vari provvedimenti proclamati, poi smentiti, poi nuovamente promossi che hanno caratterizzato il susseguirsi di notizie di quest’ultimo periodo, questa mattina ne ho letto uno che mi ha lasciato oltremodo basito.

    La Corte dei Conti, con un proprio comunicato stampa del 24 ottobre 2019, ha offerto, “quale Magistratura posta dalla Costituzione a salvaguardia degli interessi dell’erario, il proprio contributo al miglior esercizio della giustizia tributaria stessa”. Il passaggio sconvolgente, a parere dello scrivente, è proprio quello di candidarsi in nome della funzione costituzionale di tutela degli interessi erariali, dimenticandosi di un passaggio fondamentale che è quello della necessaria terzietà della magistratura!

    Il timore, fondato visto il presupposto citato dalla Corte stessa, è quello che venga meno questa necessaria terzietà e quindi vengano lesi i diritti, costituzionalmente previsti, di difesa e di un giusto processo che devono essere garantiti a ciascun contribuente. Timore, peraltro, avallato dall’Unione nazionale camere avvocati tributaristi che, prontamente, ha segnalato il proprio disappunto in una nota ufficiale.

    La giustizia tributaria è già al centro di un grosso dibattito da anni, di cui è consapevole la Corte stessa che nel comunicato prosegue, sottolineando la sua necessaria riforma “alla luce dei più rilevanti problemi che oggi caratterizzano la giustizia tributaria, sia in termini di maggiore imparzialità, indipendenza e terzietà dei giudici tributari, che in termini di rafforzamento della loro professionalità, da assicurare anche mediante uno statuto unitario di assunzione e di trattamento economico, così come pure in termini di recupero di una più “ragionevole durata” del processo tributario, da assicurare anche mediante “giudici monocratici” e con istituti deflattivi del contenzioso”. Concetti di imparzialità, indipendenza e terzietà dei Giudici che, quindi, sono ben chiari alla Corte e che non si capisce come possano essere coniugati in maniera efficace con la funzione di difesa degli interessi erariali cui la stessa è chiamata.

    Da troppo tempo i diritti dei contribuenti non appaiono paritetici se raffrontati con quelli dell’ente accertatore che, dal legislatore in primis, e nella gestione del processo dopo, dovrebbe essere trattato in maniera paritaria con la parte ricorrente. Invece spesso, per le annose ragioni di gettito, così non è: si pensi al fatto che il contribuente è chiamato a pagare parte della pretesa erariale ancora prima che inizi il processo, salvo che ottenga la sospensiva della riscossione, evento per altro non scontato e automatico, o ancora ai provvedimenti legislativi che “salvano” pregiudizievoli che avrebbero reso nulli o annullabili gli atti emessi. Ancora, accade che l’Ufficio difenda fino in Cassazione posizioni indifendibili, sperperando risorse delle Stato e denaro dei contribuenti.

    Spesso la pretesa accertata si basa su presunzioni con l’aggravante dell’inversione dell’onere della prova: il contribuente viene accusato e si trova a dover dimostrare di non aver commesso il fatto rasentando, a volte, l’insulso della probatio diabolica.

    Se il quadro velocemente dipinto non fosse già abbastanza preoccupante e indicatore della ormai imprescindibile riforma della giustizia tributaria, lo diventa oltremodo, se si legge il recente comunicato della Corte dei Conti incardinandolo nel contesto della lotta all’evasione nonché nei toni assunti dal dibattito politico al riguardo. Lotta all’evasione, per carità, che è sacrosanta ma che non dovrebbe assumere i caratteri dell’inquisizione e dovrebbe essere accompagnata da provvedimenti di revisione del sistema fiscale che è ormai del tutto inadeguato al Paese.

    Mi auguro, quindi, che il Presidente del Consiglio in carica, ricordando la propria estrazione di giurista, accademico e avvocato, nonché la promessa fatta di essere “l’avvocato del popolo italiano”, respinga garbatamente la proposta formulata dalla Corte dei Conti, forse in un impeto di disponibilità, e si acceleri invece su una seria riforma della giustizia tributaria che valorizzi il ruolo del Giudice attraverso la sua specializzazione, che preveda la separazione delle carriere e pari trattamento e tutela per tutte le parti del processo.

  • Gli acquisti per la scuola fatti online costano anche il 33,3% in meno

    Chi ha comprato online ad agosto quanto serve per l’anno scolastico ha conseguito risparmi fino al 33,3%. Lo rivela un’analisi condotta da idealo, portale internazionale di comparazione prezzi leader in Europa, sui prodotti scolastici necessari per gli studenti di tutte le età (elementari, medie e scuole superiori).

    Tra i prodotti maggiormente scontati vi sono gli zaini scuola, che online arrivano a costare il 40,1% in meno (i dieci brand preferiti dagli italiani per gli zaini scuola sono Seven, Invicta, Ergobag, Scout, Herlitz, Santoro, Giochi Preziosi, McNeill, Nikidom, Panini).

    Analizzando 15 categorie di prodotti legati al mondo della scuola come astucci, diari e quaderni, idealo evidenzia che il mese più conveniente è quello di settembre, mentre quello più caro è gennaio.

    Sempre più spesso per la scuola ci si avvale anche di notebook o tablet, a volte utilizzando anche e-book reader. Secondo idealo, per queste tre categorie di prodotti, è possibile risparmiare online, verificando però prima qual è il mese più conveniente: notebook -13,6% acquistando a dicembre, tablet -15,7% acquistando ad Agosto e e-book reader -12,6% effettuando l’acquisto a novembre. In generale, il mondo dell’informatica presenta importanti opportunità di risparmio massimo medio a dicembre: -28,5% se si acquista in quel mese.

  • Gli “effetti” della spesa pubblica

    La spesa pubblica finanziata attraverso il prelievo e la  gestione della pressione fiscale assieme alla gestione del credito rappresentano le vere due forme di potere in Italia (https://www.ilpattosociale.it/2018/11/26/la-vera-diarchia/). Avendo questa superato ormai gli 840 miliardi all’anno (quasi il 49% del PIL) sarebbe interessante individuare i parametri attraverso i quali valutarne l’efficacia di tale fiume di risorse il cui fine, secondo i politici, dovrebbe risultare  quello di riequilibrare le disparità reddituali attraverso l’accesso ai servizi.

    E’evidente, infatti, come l’aumento continuo della spesa corrente (a discapito della spesa in conto capitale ormai ridotta al lumicino) assicuri un ritorno elettorale in quanto attraverso la spesa pubblica si “agevola” il proprio bacino di elettori di riferimento con l’attribuzione di risorse o semplicemente con agevolazioni ed esenzioni fiscali. Tuttavia il livello dei servizi che questa dovrebbe garantire non risulta ancora oggi sufficientemente parametrato e di fatto viene sottratto ad un confronto anche all’interno dell’Unione Europea con il fine proprio di stabilire gli effetti di tale flusso finanziario alle casse dello Stato.

    Dai tempi del liceo si parla della necessità di una “efficentazione della spesa pubblica sanitaria che introduca parametri del settore privato”. In altre parole, attraverso queste fumose dichiarazioni, da oltre trent’anni, si manifesta l’intenzione di eliminare gli sprechi mantenendo o addirittura aumentando il livello di servizi garantiti alla popolazione. La semplice comparazione degli effetti di tale strategia seguita da tutti i governi italiani, nessuno escluso, nella gestione della spesa sanitaria ed anche dalle regioni, da quando ne hanno avuto competenza, potrebbe aprire uno scenario decisamente imbarazzante. In tal senso, infatti, va ricordato come la spesa sanitaria attualmente rappresenti circa l’80% del bilancio regionale la quale parametrata agli “effetti ” degli altri stati  dell’Unione Europea viene assolutamente ridicolizzata.

    In termini generali in tutta l’Unione Europea si è avviato un processo di riordino e riduzione di qualche punto percentuale dei posti letto. La Germania, tuttavia, prima economia manifatturiera  con un PIL di 3564 miliardi di euro, offre una disponibilità di 883 posti letto per 100.000 abitanti.

    La Polonia, che rappresenta da parecchi anni uno dei principali poli industriali europei nel settore automobilistico, assicura ai propri concittadini 663 posti letto per 100.000 abitanti. La stessa Francia, alla quale noi spesso facciamo riferimento, con un PIL di 2544 mld, riesce ad offrire alla propria cittadinanza 621 posti letto per 100.000 abitanti.

    Il paradosso poi che conferma l’assoluta distrazione della spesa pubblica rispetto agli obiettivi dichiarati viene attraverso il confronto con economie anche notevolmente inferiori in termini assoluti rispetto a quella  italiana. Il Belgio, per esempio, nonostante un pil di 499 miliardi di euro assicura alla propria popolazione 634 posti letto per 100.000 abitanti e persino il Portogallo ha una offerta di 332 letti avendo un pil di 272 miliardi. Il nostro Paese, con un pil di circa oltre 1750 mld di euro, presunti come per i precedenti del resto, assicura 331 posti letto per 100.000 abitanti.

    Questa semplice analisi comparativa dimostra, ancora una volta, come la spesa pubblica non risulti finalizzata ad alcuna redistribuzione del reddito attraverso il prelievo fiscale e diminuzione delle disparità retributive attraverso i servizi finanziati. Semplicemente la spesa pubblica, come la sua gestione, rappresentano la prima forma di potere in Italia attraverso la quale poter assicurare a chi opera in nome dello Stato strumenti impareggiabili di influenza economica e politica.

    Una ulteriore ed inattaccabile conferma dell’assoluta e totale disonestà intellettuale di chi gestisce la spesa pubblica, non tanto  per il conseguimento del maggiore benessere per i cittadini ma esclusivamente per conseguire ed instaurare, attraverso il sistema pubblico e la sua spesa, vere e  proprie rendite di posizione e servitù di passaggio.

    N.B. I dati relativi al numero di posti letto sono forniti da www.quotidianosanita.it e The Spectator Index (@spectatorindex).

  • La geografia dell’Italia in base al carrello virtuale della spesa

    Supermercato24, primo player italiano della spesa online con consegna a domicilio in giornata (anche entro un’ora), ha analizzato i trend della spesa online del 2018 sia sotto il profilo degli acquisti che delle preferenze degli acquirenti. Ecco i risultati più significativi.

    La spesa media per carrello su Supermercato24 nel 2018 è stata di 60 euro: Roma e Milano sono le province in testa per numero di ordini, seguite da Torino e, poi, dalle venete Verona e Padova, che chiudono la top five. Il podio dei prodotti più acquistati vede in testa la categoria Acqua, Bibite e Alcolici, col 12,5% degli ordini totali: nel corso del 2018, Supermercato24 ha consegnato circa 1.5 milioni di litri d’acqua (l’equivalente di 60 autocisterne). Al secondo posto, poco distante, la categoria Formaggi e Salumi (12%), mentre a completare il podio troviamo la categoria Frutta e Verdura (11,5%), con circa 1500 tonnellate di frutti e ortaggi consegnati ai clienti direttamente dal loro supermercato preferito: ore di fila e chili di borse pesanti risparmiate per i clienti, che hanno così potuto dedicare tempo prezioso a se stessi, alla famiglia e al tempo libero.  

    Roma si conferma essere la provincia più sana negli acquisti della spesa online: Roma è stata infatti la provincia in cui la percentuale di spesa per frutta e verdura sul carrello complessivo è stata la più alta di tutta Italia, con un 13.5% sugli ordini totali. A completare il podio, due città amanti del buon cibo e della buona cucina: Bologna, con il 12,8% e Modena, con il 12,5%; a seguire nella top 5, Pordenone e Varese (entrambe col 12%). La provincia di Varese s’aggiudica il primato nel consumo di carne e pesce: l’11% della spesa media dell’anno nella provincia lombarda è stato dedicato infatti ai prodotti di questa categoria. Seguono Pesaro Urbino (10,3%), Monza-Brianza (10,2%) e le romagnole Rimini e Ravenna (10%). La provincia in cui s’acquistano più formaggi e salumi è quella di Forlì e Cesena, che s’aggiudica il primato col 14% del totale della spesa nazionale per l’acquisto di questi prodotti, seguita da Bergamo, Catania e Roma al 13%, e, infine, Torino al 12,7%. Pordenone è invece la provincia che vanta il primato per l’acquisto di dolciumi (9,7% sul totale della spesa online cittadina), precedendo Modena (9%), Rimini (8,6%), Verona (8,5%) e Catania (8,5%). Ancora Pordenone è la provincia in cui si acquistano più yogurt (8,2%), davanti a Vicenza e Ravenna (8%), Catania (7,8%), e, a chiudere la top5, la provincia di Forlì e Cesena (7,6%). Infine, la provincia che nel corso dell’anno scorso ha comprato i maggiori quantitativi di vino, birra e simili è stata quella di Pesaro Urbino (8%), seguita dalle lombarde Mantova e Varese (6%) e, poi, da Genova e Vicenza (5,9%). 

  • L’Italia non produce più cibo a sufficienza per festeggiare il Natale

    Per il terzo mese consecutivo cala in Italia la produzione alimentare che fa segnare una riduzione dello 0,6% a settembre rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente; una frenata preoccupante in vista del Natale, periodo tradizionalmente di picco per i consumi a tavola. E’ quanto emerge da una analisi della Coldiretti sulla base dei dati Istat sulla produzione industriale a settembre.

    Si tratta di un risultato che è anche il frutto di un profondo cambiamento nella scelta dei luoghi di acquisto con il calo delle vendite in tutte le diverse forme di dettaglio tradizionale, eccetto i discount alimentari, dove la spesa incrementa dell’1,5% a settembre rispetto allo stesso mese dell’anno precedente.

    L’aumento delle vendite alimentari nei soli discount, precisa Coldiretti, conferma l’importanza di aver scongiurato nella manovra il previsto aumento dell’Iva per non cadere in una pericolosa fase di recessione; ma allo stesso tempo rappresenta anche il segnale di difficoltà in cui versano molte famiglie italiane. Dietro la spesa low cost, conclude Coldiretti, si nascondono spesso ricette modificate, l’uso di ingredienti di minore qualità o metodi di produzione alternativi.

  • Aumenta la spesa degli italiani per comprare carne

    Nel 2018 le famiglie italiane hanno incrementato di oltre il 5% la spesa delle famiglie italiane per la carne, secondo quanto emerge da una analisi della Coldiretti su dati Ismea relativi al primo trimestre dell’anno in corso.

    L’aumento dei consumi riguarda tutte le diverse tipologie di carne, da quella di pollame (+4%) a quella di maiale (+4%) fino a quella bovina (+5%) che fa registrare il maggior incremento nel primo trimestre rispetto all’anno precedente, in un quadro di sostanziale stagnazione della spesa alimentare (+1,4%). Il consumo medio annuo in Italia di carne (pollo, suino, bovino, ovino) è sceso ai livelli di 79 chilogrammi pro-capite, tra i più bassi in Europa dove i danesi sono a 109,8 chilogrammi, i portoghesi a 101 chilogrammi, gli spagnoli a 99,5 chilogrammi, i francesi e i tedeschi a 85,8 e 86 chilogrammi. E la situazione non cambia se il confronto viene fatto a livello internazionale visto che, secondo il Dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti, nel 2018 il consumatore medio americano mangerà 222,2 chili tra carne rossa e pollame.

    Nel Belpaese si assiste ad una decisa svolta verso la qualità con il 45% degli italiani che privilegia quella proveniente da allevamenti italiani, il 29% sceglie carni locali e il 20% quella con marchio Dop, Igp o con altre certificazioni di origine secondo l’indagine Coldiretti/Ixe’. Vola, infatti, il consumo di bistecca “Doc” con un balzo del 20% nel numero di animali di razze storiche italiane allevati negli ultimi 20 anni sulla base delle iscrizioni al libro genealogico. La domanda di qualità e di garanzia dell’origine ha portato ad un vero boom nell’allevamento delle razze storiche italiane da carne che, dopo aver rischiato l’estinzione, sono tornate a ripopolare le campagne dagli Appennini alle Alpi. La razza piemontese con lo storico riconoscimento comunitario dei “Vitelloni Piemontesi della Coscia” a Indicazione Geografica Protetta (Igp) è la più diffusa e può contare su oltre 315mila capi mentre sono più di 52mila quelli di razza marchigiana, quasi 46mila di chianina, 12mila di romagnola, 11mila di maremmana e più di 35mila di podolica per un totale di oltre 472mila animali allevati.

  • Sei mesi al gennaio 2019

    Solo sei mesi, questi sono gli ultimi sei mesi del 2018 in cui l’Italia potrà giovarsi del Quantitative Easing che ci ha permesso di vivere in assoluta sospensione dalla valutazione dei nostri parametri economici e finanziari, quindi in sospensione dalla realtà. Una situazione assolutamente anomala, nata dalla crisi finanziaria del novembre 2011 e protrattasi fino a tutto il 2018 e  che ci ha permesso di creare 346 (!) miliardi di nuovo debito pubblico non per finanziare la ripresa o fattori competitivi ma semplicemente per sgravi fiscali lasciando completamente inalterata le dinamiche della pubblica amministrazione che rappresentano il vero problema della mancanza di crescita italiana. E qualcuno ha pure il coraggio di affermare che l’Italia viveva in un clima di austerità imposto dall’Europa quando gli ultimi sette anni dimostrano essenzialmente come siano le modalità della spesa e non la spesa in quanto tale ad essere il problema italiano.

    In altre parole, esattamente come quando la Banca d’Italia finanziava il debito pubblico per legge (una visione tanto cara i nuovi sovranisti del ritorno alla Lira), dal 2011 in poi la Bce ha acquistato  a scatola chiusa e senza batter ciglio il nostro debito pubblico ad interessi progressivamente inferiori grazie all’inondazione di  nuova liquidità sui mercati finanziari. Una condizione favorevole ed assolutamente nuova dal dopoguerra ad oggi per i vari governi in carica che avrebbe dovuto spingere i governi Letta, Renzi e Gentiloni, grazie ai risparmi sul costo al servizio del debito, ad utilizzare appunto tali risparmi per la riduzione debito stesso. Invece di ridurre il debito il governo Renzi è riuscito addirittura a raddoppiare la velocità di crescita del debito pubblico rispetto al governo precedente: da 2230 euro/secondo ai 4463, sempre al secondo.

    Ora da dicembre, o meglio da gennaio 2019, il presidente Mario Draghi ha confermato che sospenderà il Q.E., magari riducendolo gradualmente aggiungiamo noi. Allora l’Italia tornerà sulla terra e verrà di nuovo sottoposta all’analisi dei fondamentali economici in rapporto alla sostenibilità del debito. In questo ritrovato contesto di normalità risulterà interessante capire e vedere chi finanzierà il nostro debito pubblico e soprattutto quali saranno gli interessi che verranno richiesti agli operatori finanziari, anche in considerazione del fatto che dall’otto giugno 2018 i titoli del debito pubblico vengono considerati più a rischio di quelli della Grecia!

    Un fatto di una gravità epocale che non ha suscitato nessuna reazione del mondo politico, sia espressione della maggioranza che dell’opposizione. Ancora oggi si illude il Paese parlando di  riforme relative alla flat Tax, al ritorno alla Lira, alla riduzione delle accise e al mantenimento dell’Iva attuale quando il contesto macroeconomico relativo alla sostenibilità del debito pubblico italiano si sta deteriorando davanti ai nostri occhi. Basteranno sei mesi per comprendere quale sia la reale situazione economico-finanziaria del nostro Paese che già ora viene percepito come a rischio in quanto i tassi di interesse sul finanziamento al nostro debito continuano a crescere.

    Logica conseguenza di questa situazione che si aggraverà progressivamente e renderà necessaria sicuramente, se non alla fine di quest’anno ma nei primi tre mesi all’anno successivo, una ulteriore manovra correttiva che permetta di trovare la copertura finanziaria per sostenere l’aumento dei tassi di interesse sul debito.

    Sei mesi. Solo sei mesi per il ritorno alla realtà economica ordinaria. Sei mesi che seguono vent’anni di ordinaria follia.

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