sviluppo

  • Il 2023 dell’Africa si apre all’insegna del debito

    Se il 2022 non è stato “facile” per l’economia dell’Africa Subsahariana, quello che si apre sembra non essere roseo. All’inizio del 2022 la regione soffriva a causa della pandemia e dei suoi effetti sull’economia. Il 2023 si apre con molte nazioni che stanno affrontando un’altra crisi: il debito insostenibile. La newsletter settimanale di Bloomberg spiega che la crisi è in  atto da anni, i prestiti a lungo termine sono più che raddoppiati raggiungendo i 636 miliardi di dollari nel decennio 2011-2021, una cifra che supera il Prodotto interno lordo di oltre 40 Paesi africani considerati nel loro insieme. La pandemia da Covid ha peggiorato la situazione economica e la guerra in Ucraina ha spinto sull’orlo del baratro molti Paesi, chiudendo l’accesso ai finanziamenti, esaurendo le riserve di valuta estera e mandando in tilt i bilanci nazionali. Non a caso il Fondo monetario internazionale parla di una regione che “vive sul filo del rasoio”. Il Ghana si è unito a Zambia e Etiopia nel tentativo di ristrutturare le passività, paesi come Nigeria e Kenya sono appesantiti da un debito sempre più preoccupante.

    Il debito è il problema maggiore che i Paesi della regione dovranno affrontare anche se l’agenzia di ratings, Fitch, prevede che il debito medio “nell’Africa subsahariana migliorerà e sarà al di sotto del 65% nel 2023, dopo aver raggiunto il 72% nel 2020, aiutato dalla ripresa economica dopo la pandemia, dall’aumento dei prezzi delle materie prime e dagli sforzi per ridurre i deficit di bilancio, ma questo livello si confronta con una media del 57% nel 2019, prima della pandemia, e con meno del 30% tra il 2007 e il 2013”. Secondo l’analisi del debito pubblico dei 19 Paesi dell’Africa subsahariana, quasi la metà dei Paesi (42%) a cui Fitch assegna un rating nella regione “hanno un rapporto debito-Pil superiore al 70%, mentre il rapporto medio debito-reddito continuerà a essere superiore al 300%, il doppio del valore del 2013”. Questo, secondo Fitch, prova il deterioramento dei fondamenti economici dei paesi della regione, nonché delle prospettive di evoluzione di queste economie. I rischi che dovranno affrontare questi paesi, dovuti al significativo rallentamento globale, sono legati all’elevata inflazione, alle difficili condizioni finanziarie, al generale indebitamento delle economie determinato dalla pandemia e ora dall’invasione russa dell’Ucraina. Fitch, inoltre, prevede che l’inflazione media nella regione scenderà dal circa 8% del 2022 al 5,5% di quest’anno e che la crescita del Pil sarà intorno al 4%, vicino alla media del 3,8% nei 5 anni fino al 2019, ma ben al di sotto della crescita registrata fino al 2014. In alcuni Paesi della regione, tuttavia, l’inflazione è ben al di sopra della media regionale.

    A ciò si aggiunge che ci sono 8 Paesi dell’Africa Subsahariana con pagamenti del debito pubblico, nel 2023, che rappresentano un quarto delle riserve estere. Secondo Bloomberg i responsabili politici africani possono far ben poco per influenzare i venti contrari globali, ma possono adottare misure per costruire una sorta di “tesoretto”. L’aumento dei prezzi delle materie prime in un continente in cui ce ne sono in abbondanza – dai diamanti ai minerali di ferro, alla bauxite, al cobalto, al platino, al rame, alle cosiddette terre rare, al petrolio e al gas – offre la possibilità di creare fondi di stabilizzazione o fondi sovrani per proteggersi da shock futuri. Il 2022, inoltre, è stato un anno in cui la maggior pare delle valute africane hanno perso valore, una tendenza che potrebbe proseguire anche nel 2023.

    Tra le monete più deboli ci sono quelle dei Paesi con un contesto complesso sia dal punto di vista economico sia da quello politico-sociale come il Sudan e lo Zimbabwe, mentre le monete di Ghana, Malawi, Sierra Leone, Etiopia ed Egitto, potrebbero subire un ulteriore deprezzamento di oltre il 10% a causa dell’inflazione. Non dovrebbe, invece, subire scossoni il franco Cfa, adottato da molti Paesi francofoni, la cui stabilità è legata all’euro. Sul fronte politico molti paesi saranno chiamati alle urne durante il 2023 e anche questi appuntamenti potrebbero far crescere il malcontento delle popolazioni già fortemente sofferenti per l’aumento dei prezzi dei generi di prima necessità. I cittadini di 8 Paesi saranno chiamati alle urne per le elezioni presidenziali. In Nigeria, il peso massimo del continente con oltre 200 milioni di abitanti, le lezioni generali sono previste per il 25 febbraio. Il presidente uscente Muhammadu Buhari non potrà candidarsi avendo già portato a termine 2 mandati. La Sierra Leone andrà al voto a giugno, la Liberia a ottobre, il Madagascar a novembre, i  presidenti uscenti di questi paesi – rispettivamente Jiulius Maada Bio, George Weah e Andrei Rajoelina – potranno candidarsi per un secondo mandato. In Gabon, la Costituzione consente al presidente Ali Bongo di ricandidarsi, in questo caso si tratterà di un terzo mandato settennale. Prima di lui il governo del Gabon e’ stato nelle mani del padre Omar Bongo per 41 anni. La Repubblica democratica del Congo andrà alle urne il 20 dicembre, la registrazione degli elettori è già iniziata, il presidente uscente, Felix Tshisekedi, ha già annunciato la sua ricandidatura, anche se molti analisti temono che possano essere rinviate a causa della perenne condizione di guerra che regna nell’Est del paese. Anche lo Zimbabwe andrà alle urne. Le elezioni generali, invece, sono già state rinviate in Sud Sudan, non si terranno quest’anno e la transizione è stata prorogata di due anni, fino al 2024. Il Sud Sudan non ha avuto elezioni presidenziali dalla sua indipendenza nel 2011. Nel 2013 è scoppiata una sanguinosa guerra civile e ancora oggi, nonostante gli accordi di pace, il paese vive una instabilità cronica.

  • Prospettive difficili per i costruttori di macchinari per plastica e gomma

    “Dopo un 2019 in ripiego – con un calo della produzione e dell’export di 6 punti, risultato peraltro atteso dopo un ciclo di crescita di 8 anni – non sarà certo il 2020 l’anno del recupero per l’industria italiana delle macchine per plastica e gomma, uno dei principali segmenti della meccanica strumentale del Paese. Difficile fare previsioni: quasi sicuramente non sarà nel 2021 che si tornerà ai livelli pre-crisi e una piena ripresa si concretizzerà probabilmente solo nel 2022”. Lo sottolinea Amaplast (l’associazione nazionale di categoria, aderente a Confindustria), segnalando come “il crollo degli ordini registrato nelle scorse settimane ha avuto un effetto praticamente immediato per i costruttori di ausiliari mentre ne risentiranno più avanti, anche nel corso del 2021, i fornitori di macchinari e impianti complessi e di maggior valore”. Amaplast segnala come i dati import-export relativi ai primi tre mesi evidenziano un cumulato che all’import risulta in calo di 7 punti
    e all’export di 13, rispetto all’analogo periodo del 2019 e “si tratta verosimilmente solo dei primi effetti – il cui picco probabilmente si verificherà nei prossimi mesi, con una coda che si protrarrà più a lungo – della crisi causata dalla pandemia”. A preoccupare è l’andamento nel continente americano che fa registrare, così come quello asiatico, un crollo delle esportazioni italiane di settore: -27% e -28%, rispettivamente (con -24% negli Usa e -27% in Cina). Per quanto riguarda il continente europeo nel suo insieme, l’arretramento è contenuto al 4%, ma con -3% la Germania e addirittura -40% per la Spagna. L’incognita sulla durata e l’intensità della pandemia nelle varie aree geografiche (nonché la possibilità che si ripresenti con nuove ondate nei prossimi mesi) “comporta grande incertezza da
    parte dei clienti esteri dei costruttori italiani di macchine per plastica e gomma, le cui vendite oltre confine si attestano mediamente al 70% della produzione, con punte del 90% per alcune tipologie di
    impianti. La contrazione degli ordini si accompagna alle limitazioni a cui sono ancora soggetti gli spostamenti delle persone, che rallentano o differiscono installazioni e manutenzioni, comportando tra l’altro anche ritardi nei pagamenti”. “Non va meglio naturalmente – osserva Amaplast – sul mercato interno, già strutturalmente debole, che non sembra al momento poter trarre beneficio immediato e consistente dalle misure straordinarie messe in campo dal governo per far fronte alla crisi”.

  • Milano sulla scia delle grandi città del mondo: studios su 20mila metri quadri

    Nonostante la pandemia, il lockdown, le difficoltà crescenti di una città che si è dovuta fermare, Milano prova a rialzare la testa e ad andare avanti. In uno dei quartieri diventati simbolo della rinascita urbana del capoluogo lombardo, Porta Nuova, aprono i battenti i Milano City Studios, un modello innovativo di location per la produzione di contenuti digitali, eventi, spot pubblicitari e riprese cine-televisive. Set di posa che si inseriscono nel cuore pulsante della città, tra grattacieli, uffici, abitazioni, percorsi ciclabili, passeggiate pedonali e un grande parco. Veri e propri teatri di posa che, ridando vita e funzionalità alle strutture preesistenti di un intero quartiere, offrono tecnologie all’avanguardia, aree di riprese indoor e outdoor per oltre 20mila metri quadrati complessivi, servizi on demand e centralità logistica.

    Un progetto per Milano e per l’Italia che nasce sulla scia dei modelli di Los Angeles, Londra e New York e che trova le sue fondamenta nell’esperienza di Big Spaces, società di venue management, con sede a Milano, che individua e gestisce spazi di eccellenza trasformandoli in amplificatori di contenuto. A monte, un accordo con Coima, la Sgr che ha in gestione i fondi che hanno contribuito alla nascita di Porta Nuova. Un piano di business realizzato in soli quattro mesi e gestito in piena emergenza Covid che trova solidità negli investimenti di una cordata di imprenditori privati ‘best in class’ del settore. Big Spaces ha infatti coinvolto nel progetto Next group, Clonwerk holding, Sts Communication, Icet Studios, Sfeera, G group international e Nexim con l’obiettivo di fornire alle aziende non solo scenari decisamente aspirazionali (concentrati in un’area unica e fortemente innovativa) ma anche l’approvvigionamento di una gamma completa di servizi e soluzioni.

    “Il progetto ha le sue fondamenta in un pensiero strategico che, traendo forza dagli stimoli tipici di un periodo non semplice quale questo dell’emergenza Covid, si è velocemente trasformato in un sistema manageriale concreto di gestione degli spazi – afferma Andrea Baccuini, partner e ceo di Big Spaces – Da oggi i Milano City Studios sono a disposizione di agenzie di comunicazione, broadcaster, etichette discografiche, case di produzione e di chi è chiamato a creare contenuti, siano essi live o digitali, nel pieno rispetto dei nuovi parametri di sicurezza. A noi il compito di occuparci della promozione, commercializzazione e gestione degli spazi, secondo il modello anglosassone del revenue sharing tra noi, la proprietà degli spazi stessi e i partner coinvolti”.

    Per i primi 18 mesi di attività, e dunque da fine giugno 2020 a dicembre 2021, il forecast del progetto si basa su più di 550 giornate di produzione complessive, distribuite su tutti gli Studios. Questo volume di utilizzo degli spazi indoor o outdoor dovrebbe generare ricavi per oltre 3,5 milioni di euro a cui potrebbe sommarsi un indotto per l’area almeno 10 volte superiore.

  • Crescita ed occupazione nell’UE grazie agli effetti del Piano Juncker

    E’ tempo di bilanci per la Commissione europea e per il suo Presidente uscente Jean-Claude Junker che lascerà la poltrona alla tedesca Ursula von der Leyen che si insedierà, con i 27 Commissari, il prossimo 1° novembre. Come dichiarato in una nota il piano di investimenti per l’Europa, il cosiddetto piano Juncker, ha avuto un ruolo chiave nel promuovere la crescita e l’occupazione nell’UE. Gli investimenti del Gruppo Banca europea per gli investimenti (BEI), con il sostegno del Fondo europeo per gli investimenti strategici (FEIS) del piano Juncker, hanno aumentato dello 0,9 % il prodotto interno lordo (PIL) dell’UE e creato 1,1 milioni di nuovi posti di lavoro rispetto allo scenario di riferimento. Grazie al piano Juncker, entro il 2022 il PIL dell’UE sarà aumentato dell’1,8 %, con 1,7 milioni di posti di lavoro in più. Sono questi gli ultimi calcoli del Centro comune di ricerca (JRC) e del dipartimento di economia del Gruppo BEI, basati sugli accordi di finanziamento che risultavano approvati a fine giugno 2019. “Abbiamo raggiunto l’obiettivo che ci eravamo prefissi: riportare l’Europa su un percorso di crescita solida e stimolare l’occupazione”, il commento di Juncker. Oltre all’incidenza diretta che ha avuto sull’occupazione e sulla crescita del PIL, il piano avrà anche un impatto macroeconomico a lungo termine sull’UE. Guardando al 2037, saranno ancora evidenti i benefici delle sue operazioni: un milione di nuovi posti di lavoro e un aumento del PIL dell’UE dell’1,2 %. La migliore connettività e la maggiore produttività derivanti dai progetti sostenuti dal piano Juncker stanno contribuendo a rafforzare la competitività e la crescita dell’Europa nel lungo periodo. A partire da ottobre 2019 il piano dovrebbe mobilitare 439,4 miliardi di euro di investimenti aggiuntivi in tutta l’UE. Più di un milione di start-up e piccole imprese dovrebbero ora beneficiare di un migliore accesso ai finanziamenti. Il 70% circa degli investimenti previsti provengono da risorse private, il che significa che il piano Juncker ha conseguito anche l’obiettivo di mobilitare gli investimenti privati.

    Grazie al sostegno del piano Juncker, la BEI e la sua controllata per il finanziamento delle piccole imprese, il Fondo europeo per gli investimenti (FEI), hanno approvato il finanziamento di quasi 1200 operazioni e stanno mettendo capitale di rischio a disposizione di più di un milione di start-up e di PMI in un’ampia gamma di settori in tutti i 28 Stati membri. In ordine di investimenti generati dal FEIS in rapporto al PIL, a ottobre 2019 i primi paesi sono la Grecia, l’Estonia, il Portogallo, la Bulgaria e la Polonia. I progetti del piano Juncker spaziano da un’infrastruttura paneuropea per la ricarica ad alta velocità dei veicoli elettrici a una società di gestione dei rifiuti alimentari in Romania, al reinserimento nel mondo del lavoro di ex militari nei Paesi Bassi.

    Oltre al finanziamento di progetti innovativi e delle nuove tecnologie, il piano Juncker ha sostenuto altri obiettivi dell’UE, ad esempio per quanto riguarda le politiche nel settore sociale, del clima e dei trasporti: più di 10 milioni di famiglie hanno accesso alle energie rinnovabili; 20 milioni di europei beneficiano di migliori servizi sanitari; 182 milioni di viaggiatori all’anno usufruiscono di migliori infrastrutture urbane e ferroviarie.

    Il Fondo europeo per gli investimenti strategici del piano Juncker sostiene idee innovative per proteggere il pianeta. I progetti finanziati dal Gruppo BEI nell’ambito del piano Juncker dovrebbero mobilitare 90,7 miliardi di € di investimenti a favore dell’azione per il clima: edifici a energia zero, parchi eolici, progetti nel settore dell’energia solare, docce a risparmio idrico, autobus ecologici e illuminazione a LED.

    Un altro importante obiettivo è contribuire a far decollare i progetti. Il polo europeo di consulenza sugli investimenti fornisce assistenza tecnica e consulenza ai progetti in fase iniziale. Dal suo avvio nel 2015, il polo ha gestito più di 1400 richieste da parte di promotori di progetti in tutti i paesi dell’UE; di questi, più di 400 hanno beneficiato di servizi di consulenza personalizzata e più di 50 progetti sono già stati inseriti nel portafoglio prestiti della BEI, come l’ammodernamento del sistema di illuminazione stradale di Vilnius, al fine di renderlo più efficiente sotto il profilo energetico. Inoltre, a settembre 2019, 890 progetti figuravano nel portale dei progetti di investimento europei, un luogo di incontro online tra i promotori di progetti e gli investitori. I progetti coprono tutti i principali settori dell’economia dell’UE, con proposte di investimento per un importo complessivo di 65 miliardi di euro. Da quando sono stati pubblicati sul portale, più di 60 progetti hanno ottenuto finanziamenti. Il portale offre anche servizi aggiuntivi, come l’organizzazione di occasioni di incontro tra i soggetti interessati.

  • Il Comitato europeo delle Regioni chiede all’UE una maggiore politica di innovazione sociale

    In occasione della Settimana europea delle Regioni e delle Città di quest’anno, la Piattaforma di Scambio di Conoscenze (Knowledge Exchange Platform)ha riunito esperti a livello locale ed europeo per discutere di come l’innovazione sociale può aiutare le città e le regioni a creare nuovi servizi in grado di rispondere ai bisogni sociali. Il presidente del comitato, Karl-Heinz Lambertz, ha sottolineato come molti progetti di innovazione sociale iniziano con il sostegno delle autorità locali. In questo contesto, il Comitato ha presentato alcuni esempi di successo, come quello della capitale croata, Zagabria, che ha adottato l’inclusività per migliorare l’accessibilità in tutti i settori, dall’assistenza all’infanzia ai trasporti pubblici e ai servizi sociali. Un altro esempio proposto è quello del Friuli Venezia Giulia, che mira a trasformare l’invecchiamento della popolazione in un’opportunità di sviluppo sociale ed economico, introducendo misure contro la solitudine. Il Comitato ha invitato la Commissione a rendere l’innovazione sociale uno dei criteri per le domande di fondi dell’UE e ad aprire i suoi programmi a istituzioni non tradizionali.

  • Il negazionismo evolutivo

    Quello che distingue qualsiasi teoria economica dagli effetti reali nella sua applicazione viene  rappresentato dalla natura e dall’entità  degli aspetti e dei contesti  dell’evoluzione continua e costante del mercato globale all’interno del quale tale teoria viene applicata in forma di  strategia economica.

    In altre parole, per quanto possa sembrare di difficile definizione la teoria dovrebbe attualmente, al suo interno, racchiudere anche uno spazio “evolutivo” e quindi un margine di forte incertezza in relazione ai molteplici effetti  condizionati da un mercato globale  in continua evoluzione. Basti pensare agli scarsissimi effetti della politica “monetaria espansionistica ” della BCE (Tltro e quantitative easing) la  quale intendeva offrire un sostegno ad un sistema economico europeo in crisi e dal raggiungimento di  inflazione al 2% risultasse fondamentale (come da  teoria) inondare il mercato di liquidità. Non avendo previsto, per esempio, come il fattore concorrenziale di un mercato globale determini un livellamento dei prezzi al ribasso (conseguenza dell’eccesso di offerta) contro il quale qualsiasi politica monetaria perda ogni effetto.

    Di conseguenza risulta evidente come il contesto economico reale determini  una forte modificazione dei risultati previsti che le teorie economiche propongono. Questo fattore di incertezza legato alle future evoluzioni di un mercato sempre più complesso, a partire dai numerosi ed incontrollabili fattori che lo influenzano, dovrebbe cambiare o quantomeno procedere ad una evoluzione delle teorie economiche e soprattutto delle loro applicazioni. Un aspetto molto importante specialmente quando l’applicazione di tali e semplicistiche teorie determini a sua volta un aumento del debito pubblico.

    Una delle giustificazioni che il governo in carica avanzava per giustificare la scelta di quota 100 con un conseguente aumento del debito pubblico attorno ai 10 miliardi era relativa alla creazione di nuovi posti di lavoro per la sostituzione dei nuovi pensionati che lasciavano il ciclo economico e produttivo. Ora emerge dai dati come solo il 24,7% delle aziende afferma di voler sostituire (e solo parzialmente) le uscite incentivate da quota 100: dati attesi tanto banali quanto espressione di un incompetenza economica evidenti. Va ricordato infatti come nell’attuale momento economico le imprese stiamo investendo in tecnologia digitale la quale offre una diminuzione dell’intensità di manodopera  per  milione di fatturato. Questa tendenza inevitabile, e giustamente  incentivata fiscalmente, ha  l’obiettivo principale di rendere più competitivo il sistema industriale italiano in un contesto di concorrenza globale. Inoltre offre un altro  effetto parallelo tanto nel medio quanto nel lungo termine perché  diminuendo appunto il costo della manodopera per milione di fatturato a causa della minore intensità, automaticamente renderebbe sempre più vantaggioso il reshoring produttivo, specialmente in un momento storico di forte criticità commerciale tra Stati Uniti e Cina (https://www.ilpattosociale.it/2019/05/22/tempo-reale/).

    Tornando alle ridicole elaborazioni  economiche che hanno ispirato questa strategia del governo in carica si può tranquillamente ricordare come, al di là delle dottrine economiche da cui scaturiscono le conseguenti strategie elaborate, non considerare il contesto evolutivo rappresenti un errore di dimensioni epocali. Questo negazionismo evolutivo si conferma come un ulteriore aspetto di un approccio assolutamente insufficiente alle complesse problematiche  economiche. Un atteggiamento frutto di una ormai datata erudizione economica priva di ogni contatto con i diversi fattori che contribuiscono a rendere il contesto  evolutivo economico imposto dal mondo globale sempre più articolato.

  • L’Ue punta a una partnership commerciale con l’intera Africa

    La Commissione europea vuole un accordo di libero scambio da continente a continente con l’Africa, spostando le relazioni dallo sviluppo del Continente Nero al commercio, in vista di una “nuova alleanza” da cui ci si attendono fino a 10 milioni di posti di lavoro (in Africa) nei prossimi 5 anni.

    L’annuncio del passaggio «da una relazione di tipo ‘donatore-destinatario’, basata su aiuti allo sviluppo e aiuti umanitari, a una partnership basata prima di tutto sulla partnership politica» è stato dato da Federica Mogherini, vicepresidente della Commissione e ‘ministro degli Esteri’ della Ue, a fianco del commissario allo sviluppo Neven Mimica e del vicepresidente Jyrki Katainen.

    «Stiamo lanciando un’alleanza Africa-Unione per investimenti e posti di lavoro sostenibili, che sarà una delle principali priorità per il nostro lavoro nei prossimi anni», ha detto ancora la Mogherini, riecheggiando parole che si erano sentite lo scorso novembre al vertice Ue sull’Africa in Costa d’Avorio. Poiché il 60% degli abitanti del Continente Nero è under 25 e la popolazione africana raddoppierà entro il 2050, l’Ue spera di trasformare quel trend demografico da problema (le immigrazioni attuali) a opportunità. La creazione di una forza lavoro spendibile in loco passa ovviamente per una migliore istruzione e formazione e la Mogherini ha annunciato l’intenzione della Ue di contribuire a finanziare la formazione professionale per 750.000 persone nei prossimi due anni (altri 100.000 prenderanno parte a Erasmus entro il 2027).

    Ma il più grande piano della nuova alleanza si basa sul piano di investimenti esterni dell’Ue. Lanciato nel 2016, mira a trasformare 4 miliardi di euro che figurano nel bilancio europeo in 44 miliardi di investimenti privati ​​in Africa nei prossimi anni. «Vogliamo continuare a utilizzare questo modello per il bilancio UE a lungo termine per il 2021-2027 e creare una piattaforma di investimento esterna che moltiplicherà i fondi disponibili», ha affermato Katainen. I fondi saranno forniti dal bilancio dell’Ue, dalla Banca europea per gli investimenti, dalla Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo, dalle banche per lo sviluppo degli Stati membri e dal settore privato, ha spiegato ancora Katainen.

    L’Ue è già oggi il maggiore investitore dell’Africa. Il totale degli investimenti esteri diretti in Africa nel 2016 è stato di poco inferiore ai 300 miliardi di euro, per la maggior parte convogliati verso Egitto, Kenya, Marocco e Sud Africa.

  • Jepp, Maserati, innovazione di processo e prodotto

    Non ho mai conosciuto Marchionne, tanto che non so neppure la sua marca di sigarette preferite. Quindi, rispetto a questo proliferare di aneddoti relativi alla vita professionale dell’amministratore di FcA, io non ho nulla da aggiungere se non le mie più sentite condoglianze alla famiglia.

    Tuttavia, dall’esito delle diverse tipologie di innovazione nella gestione di FcA, che di fatto hanno salvato il gruppo che perdeva 5,4 milioni al giorno al momento del suo arrivo, si possono trarre delle interessanti conclusioni.

    Oltre il 70% dei profitti dell’intero gruppo vengono dal marchio Jeep che rappresenta un must del mondo del fuoristrada. Il successo di tale marchio nasce dall’abbassamento della soglia di accesso economico al mondo Jeep (vera icona dai tempi della Seconda guerra mondiale) attraverso l’innovazione di prodotto come di processo che hanno permesso il mantenimento dell’attività produttiva in Italia ed ovviamente mantenuto ed aumentato il livello occupazionale, creando così una gamma di prodotti con un primo modello di Entry Level che ha allargato la base dei consumatori quindi delle vendite e aumentato conseguentemente il fatturato.

    Viceversa, la gestione del mondo Macerati, pur subendo le medesime innovazioni di processo come di prodotto, non ha ottenuto i risultati sperati. Va ricordato innanzitutto comunque come attraverso Maserati il gruppo FcA abbia salvato ed acquisito lo stabilimento della Bertone dando un’occupazione a quasi 900 persone che altrimenti avrebbero ingrossato i numeri della disoccupazione.

    Tuttavia da quasi un anno buona parte dei dipendenti degli stabilimenti Maserati di Torino, e da qualche mese anche a Modena, risultano in cassa integrazione a causa del non raggiungimento dei target di vendita fissati da FcA per le diverse autovetture, nonostante la nascita del SUV del marchio del Tridente.

    La considerazione che emerge in maniera abbastanza evidente è come l’innovazione di processo risulti sicuramente importante ma non risolutiva se non viene accoppiata ad una altrettanto forte innovazione di prodotto che incontri i favori della clientela. Un concetto talmente generale ma valido per ogni settore  quindi applicabile sia mercato delle automobili come dei maglioni od degli occhiali.

    Risulta quasi superfluo ricordare come negli ultimi anni tutto il mondo degli economisti e dei politici abbia investito tutta la propria attenzione sull’innovazione di processo come se questa rappresentasse la soluzione di ogni problema (industria 4.0). Il processo e la sua innovazione rappresentano la disposizione e la capacità attraverso le quali si propone un’azienda rispetto al mercato globale al cui interno non esistono più le stagionalità ma si vende e si produce dodici mesi all’anno. In altre parole, innovazione di processo pone le basi fondamentali per passare successivamente all’innovazione di prodotto. Come dimostrano le PMI italiane che non sono state in grado finanziariamente di innovare nei processi ma sono molto forti nella innovazione di prodotto e stanno ottenendo degli ottimi risultati soprattutto nell’export, anche se in flessione nel primo semestre 2018.

    Il mondo alle PMI dimostra come una forte innovazione di prodotto, con grande difficoltà a causa delle tempistiche sempre più strette tra produzione e distribuzione, riesca tuttavia a sopperire anche alla mancanza di una forte innovazione di processo. Viceversa l’innovazione di processo non seguita da un’adeguata rielaborazione e connessione del prodotto alle reali aspettative del mercato, quindi del consumatore, non ottiene alcun risultato economicamente positivo, dimostrando ancora una volta come le strategie economiche degli ultimi anni proposte nel mondo economico nazionale si siano rivelate assolutamente parziali e prive di visione complessiva dei mercato globale. Queste strategie risultano intrise da una idea di massificazione di prodotto tipica della ideologia economica tanto cara al mondo degli economisti e docenti.

    Rinnovo le mie condoglianze alla Famiglia Marchionne.

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