Svizzera

  • Ok di Bruxelles all’acquisto di Vodafone Italia da parte di Swisscom

    La Commissione europea ha dato il via libera all’acquisizione di Vodafone Italia da parte di Swisscom ai sensi del Regolamento relativo alle sovvenzioni estere. Lo ha reso noto un comunicato della società di telecomunicazioni elvetica. “Questa decisione è un altro passo importante verso l’ottenimento delle autorizzazioni regolamentari necessarie per la conclusione della transazione”, ha riferito Swisscom. “A seguito del comunicato del 15 marzo 2024 in cui annunciava l’acquisizione di Vodafone Italia, come previsto dal Regolamento relativo alle sovvenzioni estere, il 19 agosto 2024 Swisscom ha notificato la transazione alla Commissione europea, direzione generale della Concorrenza. In data 23 settembre 2024, la Commissione europea ha annunciato che l’esame preliminare si è concluso e che la transazione può quindi essere completata senza riserve”, si legge nel comunicato.

    “Nel complesso, l’acquisizione di Vodafone Italia procede conformemente ai tempi prestabiliti. Swisscom si è assicurata il finanziamento per il prezzo di acquisto di 8 miliardi di euro a maggio 2024 e ha ricevuto il via libera incondizionato sia dalla presidenza del Consiglio dei ministri italiano (legislazione sul golden power) che dalla Commissione federale svizzera della concorrenza”, ha spiegato la società svizzera. “La transazione è tuttora soggetta ad altre autorizzazioni normative, tra cui quella dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato italiana. Quest’ultima ha annunciato l’11 settembre 2024 di aver avviato un’indagine approfondita sull’acquisizione ai sensi delle norme italiane in materia di controllo delle operazioni di concentrazione. Conformemente all’annuncio originale del 15 marzo 2024, Swisscom prevede che la transazione si concluda nel primo trimestre del 2025”, si conclude il comunicato.

  • Neutralità

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo dell’On. Dario Rivolta

    Cominciamo col dire che la Confederazione Svizzera, nonostante il suo nome ufficiale, non è una Confederazione. Infatti la sua stessa Costituzione è detta Federale (dal 1848) e il suo Governo, non a caso, si chiama Consiglio Federale. Di là da questo fatto di non minore importanza, il Paese elvetico ha (o aveva) due peculiarità che lo contraddistinguono (o contraddistinguevano) nel panorama politico mondale: il Governo non è composto solo dalla maggioranza parlamentare ma include anche rappresentanti della minoranza e, secondo, la neutralità (dichiarata “perpetua” dal Congresso di Vienna del 1815) che ha conservato la Svizzera fuori da tutte le guerre da più di due secoli.

    Al fianco del tempo indicativo presente ho usato, seppur tra parentesi, anche l’indicativo imperfetto poiché, mentre la struttura di governo è ancora la stessa sulla neutralità odierna della Svizzera ci sarebbe da discutere. La ragione del dubbio risiede in due aspetti: l’atteggiamento assunto verso la guerra in Ucraina e quello in merito al Trattato delle Nazioni Unite sulla Proibizione delle Armi Nucleari. Occorre anche precisare che il rapporto tra il Governo e il Parlamento (detto Assemblea Federale) non è più quello che ci si aspetterebbe da un Paese democratico, noto, per di più, attraverso il frequente ricorso alla democrazia diretta via referendum. Nel caso della guerra in Ucraina, anziché astenersi dal prendere parte per l’uno o per l’altro dei contendenti come supposto dalla definizione stessa di neutralità, la Svizzera ha deciso di schierarsi nettamente con uno dei due adottando le decisioni sanzionatorie volute da Stati Uniti, Europa e pochi altri Paese del mondo. In queste decisioni è incluso anche il congelamento preventivo dei beni dello Stato russo, degli imprenditori russi e di tutti i soggetti di quella nazionalità che avevano conti bancari o proprietà in Svizzera.

    Il secondo fatto che mina il concetto di neutralità e mette a rischio il rapporto tra Parlamento e Governo riguarda la non ratifica del Trattato di Proibizione delle Armi Nucleari. Il 5 giugno del 2018 con 100 voti a favore, 86 contrari e 1 astenuto il Consiglio Nazionale (una delle due Camere parlamentari) aveva approvato, invitando il governo ad adeguarvisi, una mozione (la 17.42.41) che approvava la firma e la ratifica di quel trattato. Il 12 dicembre dello stesso anno anche il Consiglio degli Stati (l’altra Camera) aveva approvato la stessa mozione con 24 voti favorevoli, 15 contrari e 2 astensioni. Purtroppo, nonostante questi voti teoricamente impegnativi, il Governo (cioè il Consiglio Federale) nello stesso 2018, nel 2019 e ultimamente il 27 marzo 2024 ha dichiarato che, “almeno per ora”, non avrebbe firmato quel Trattato. Occorre ricordare che l’accordo sulla proibizione di armi nucleari è entrato in forza nel 2021 ed è già stato ratificato da 70 Stati, tra cui tra i Paesi occidentali l’Irlanda e l’Austria. La giustificazione del Governo, piuttosto sorprendente da un Paese autodefinitosi neutrale, è che “Nessuno degli Stati nucleari né la maggioranza dei Paesi occidentali ed europei lo riconosce”. E poi: “Unirsi al Trattato di Non Proliferazione Nucleare complicherebbe la posizione della Svizzera nelle partnership per la sicurezza. Questo è particolarmente vero in relazione alla Nato che è un’alleanza dichiaratamente nucleare e rimarrà così nel prevedibile futuro”. Inoltre: “Unirsi a tale Trattato non è negli interessi della Svizzera dato l’attuale contesto internazionale”. Viene inoltre precisato che: “Come sodale del Trattato di Non Proliferazione Nucleare la Svizzera abbandonerebbe l’opzione di considerarsi esplicitamente sotto un “ombrello nucleare” nel quadro di tali alleanze (N.d.A.: Nato e Unione Europea). In linguaggio ancora molto più esplicito: non accettando di aderire a quel Trattato il Governo sta annunciando una adesione “di fatto” alla Nato.

    A ulteriore dimostrazione di questa concezione piuttosto originale da parte di un Paese neutrale, il Governo svizzero ha espresso commenti in merito all’ingresso di Svezia e Finlandia nella Nato: “Due Stati che hanno coltivato una lunga tradizione di neutralità durante la guerra fredda e in seguito si sono evoluti da neutrali a stati non allineati quando si sono uniti all’Unione Europea ed è entrato in vigore il Trattato di Lisbona sono ora giunti alla conclusione che la loro sicurezza è meglio garantita dalla Nato”.

    Queste parole significano che la Svizzera ha già scelto di essere, se non proprio un membro, almeno un alleato della Nato? Il timore che il Governo voglia diventarlo è rappresentato esplicitamente in una mozione approvata dalla Commissione per la Politica di Sicurezza del Parlamento Nazionale che, il 20 febbraio 2024, temendo una possibile decisione simile da parte del Governo, proibisce perentoriamente ogni forma di partecipazione a esercizi militari congiunti con la Nato.

    A parte che l’ipotesi che la Russia possa attaccare qualche Paese della Nato subito dopo la fine della guerra in Ucraina è pura propaganda basata sul nulla e contraddetta dal minimo buonsenso, c’è qualcuno in Svizzera che teme la Russia intenda attaccare il Paese elvetico? È veramente per questa assurda paura che il Governo rifiuta di adempiere alla volontà del suo Parlamento?

    Purtroppo, anche nella tradizionalmente neutrale Svizzera c’è davvero qualcuno che teme, o finge di temere, che qualcuno la voglia invadere tanto è vero che, indifferente al sentimento della maggioranza degli svizzeri, il Governo di Berna il 10 aprile scorso ha deciso di partecipare alla “European Sky Shield Initiative” lanciato nell’agosto 2022 dalla Germania e composto da 11 Stati europei con lo scopo di “rafforzare la difesa aerea in Europa e migliorare gli sforzi comuni”. Dov’è finita la “perenne neutralità”?

    È un peccato dover prendere atto di quanto sopra. Noi tutti abbiamo sempre ammirato e invidiato sia il sistema eccezionalmente democratico della Svizzera che conoscevamo, sia il suo lunghissimo atteggiamento di neutralità totale. Dobbiamo purtroppo dover constatare che anche la Confederazione Svizzera è ormai diventata un Paese come un altro.

  • Il Credit Suisse e i derivati

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi apparso su ItaliaOggi il 22 marzo 2023

    Il credito di salvataggio di ben 54 miliardi di dollari da parte della Banca centrale svizzera non è bastato a stabilizzare il Credit Suisse. Anche la fusione con la più grande banca elvetica, l’Ubs, non sembra calmare le acque turbolente dei mercati finanziari internazionali. La ragione, di cui si tende a non parlare, è una e semplice: l’esposizione in derivati finanziari speculativi otc, quelli non regolamentati e tenuti fuori bilancio, del Credit Suisse e delle banche too big to fail. In particolare quelle americane.

    L’ultimo rapporto sui derivati dell’Office of the Comptroller of the Currency, l’agenzia Usa di controllo bancario, ha rilevato che, al 30 settembre 2022, quattro banche statunitensi detenevano ben 195 mila miliardi di dollari di derivati finanziari, pari all’88,6% del valore nozionale di quelli presenti nel sistema bancario nazionale. JPMorgan Chase ne deteneva 54.300 miliardi di dollari, Goldman Sachs 50.970, Citibank 46.000 e Bank of America 21.600. Sebbene la legislazione Dodd-Frank promulgata dopo la grande crisi del 2008 richiedesse che i derivati passassero attraverso la compensazione centrale, il 58,3% di essi non lo fa, rimanendo nella totale opacità.

    Anche un recente studio della Banca dei regolamenti internazionali analizza le gravi complicazioni nella gestione dei derivati ed evidenzia che «le banche estere con sede al di fuori degli Stati Uniti hanno un debito in derivati otc di 39 mila miliardi. Più del doppio del loro debito registrato in bilancio e più di 10 volte il loro capitale». Un’esposizione ritenuta «sbalorditiva» e foriera di nuovi sconvolgimenti.

    Il Tesoro Usa sta esaminando l’esposizione delle banche statunitensi verso il Credit Suisse. Non si scopre adesso che il sistema bancario internazionale è strettamente interconnesso e che la crisi di un componente importante può diventare sistemica. Perciò, non regge la giustificazione secondo cui il problema sarebbe di origine estera, come le autorità americane hanno più volte sostenuto.

    Negli Usa il quadro normativo distingue le banche con sede sul territorio nazionale da quelle con sedi estere. Queste ultime non sono sottoposte agli stessi standard, come i requisiti patrimoniali e una liquidità più stringente. Conoscendo bene i rischi, l’hanno fatto per attirare negli Usa capitali, anche speculativi, per restare, a tutti i costi, il mercato dominante.

    La storia delle crisi del Credit Suisse è stata bellamente ignorata per anni e consapevolmente sottovalutata. D’altra parte, rivelava la malattia dell’intero sistema che non s’intendeva affrontare drasticamente e curare.

    Nel 2021 la banca aveva perso 5,5 miliardi di dollari a seguito di derivati pericolosi con l’hedge fund speculativo americano Archegos Capital Management, poi fallito. I segnali di allarme furono ignorati da tutti, non solo dal Credit Suisse. Quest’ultimo era già stato coinvolto, con forti perdite, anche nello scandalo e nel fallimento di Greensill Capital, la società di servizi finanziari britannica, che aveva lasciato un buco di 10 miliardi. In precedenza aveva pagato una multa di 5,3 miliardi di dollari alle autorità americane per aver ingannato gli investitori sul rischio dei titoli subprime legati alle ipoteche immobiliari.

    Credit Suisse, quindi, ha sempre operato sul mercato Usa. Da anni controlla la First Boston. Tra i suoi azionisti vi sono gli arabi, Arabia Saudita e Qatar, con il 20% e, poi, come sempre c’è l’onnipresente fondo americano BlackRock con circa il 5% delle azioni. Ben sapendo che si mettono in difficoltà le banche che hanno ingenti investimenti in titoli di Stato a lunga scadenza e a basso rendimento, l’aumento dei tassi d’interesse da parte delle banche centrali sembra essere una scelta obbligata. Nelle loro intenzioni mettere un freno all’inflazione resta la priorità, per evitare sconquassi economici e sociali. Per gli istituti finanziari in crisi metteranno a disposizione decine, centinaia di miliardi.

    È chiaro, però, che simili salvataggi pubblici non sono la soluzione. A ogni crisi il problema si ripresenta in dimensioni maggiori e peggiori. Perciò non ci si dovrebbe mai stancare di ripetere che una riforma globale della finanza è necessaria e ineludibile. Per riportare un po’ di sanità nel sistema finanziario, sarebbe opportuno ritornare alla separazione bancaria, alla legge Glass Steagall Act del presidente Franklin Delano Roosevelt, e battere la speculazione attraverso l’accantonamento dei derivati otc e il divieto della cosiddetta leva finanziaria.

    *già sottosegretario all’Economia **economista

  • La finestra svizzera

    Voltaire una volta scrisse: “Se vedi un banchiere svizzero saltare dalla finestra salta dopo di lui perché c’è sicuramente qualcosa da guadagnare”. Una frase che esplicita quale potesse essere una volta la percezione della affidabilità dei banchieri svizzeri unita alla sicurezza ed alla professionalità espressa nella gestione degli istituti di credito svizzeri.

    Da Voltaire ad oggi molte cose sono cambiate, non sempre nella direzione auspicabile, e soprattutto l’ultima vicenda legata alla crisi di Credit Suisse ha dimostrato come le peculiarità del “Sistema Svizzero”, e quindi comprensivo delle azioni del management, risultino diluite all’interno del mondo della finanza globale.

    Negli ultimi due anni l’istituto di Zurigo ha subito sanzioni per oltre 12 miliardi in relazione ad operazioni fraudolente come quella dei titoli venduti alla clientela privi di assicurazione, senza dimenticare lo scandalo del Mozambico.

    In questo contesto gestionale opaco si inseriscono la vicenda del Ceo pedinato dall’istituto e il patteggiamento a Milano per 110 milioni di evasione fiscale.

    Tuttavia il quadro reputazionale della banca toccò il minimo storico con la sentenza del 27 giugno 2022 nella quale il tribunale di Bellinzona, in Canton Ticino, riconobbe colpevole l’istituto di credito di Zurigo di riciclaggio a favore di un narcotrafficante bulgaro.

    Decisamente una sentenza storica nell’ambito del sistema bancario svizzero che compromise inevitabilmente la ieratica immagine dell’Istituto stesso ma anche dei Banchieri svizzeri in generale.

    Del resto non va dimenticato come lo stesso salvataggio di Credit Suisse vede protagonista UBS, la quale aveva ottenuto una ricapitalizzazione con le finanze pubbliche della Confederazione durante la crisi finanziaria del 2008.

    All’interno di un mondo finanziario assolutamente globale e digitale, specialmente nell’ultimo decennio, gli istituti bancari svizzeri si trovano stretti in un angolo dalla concorrenza dei fondi privati nella creazione di nuove ricchezze e conseguenti dividendi.

    Contemporaneamente hanno perso la propria posizione monopolista, diventata nei tempi passati quasi ormai una rendita di posizione, nella gestione dei grandi patrimoni.

    In questo contesto contemporaneo in continua evoluzione la priorità dell’intero sistema bancario elvetico dovrebbe focalizzarsi nel raggiungimento di una nuova credibilità da ottenere anche attraverso la elaborazione di un nuovo protocollo simile nei contenuti e nella forma a quello entrato in vigore per la tutela della produzione industriale: lo Swiss Made.

    Nello specifico questo dovrebbe rappresentare una sicurezza aggiuntiva per la clientela internazionale rispetto alle rinnovate competenze, espressione anche di un codice etico Suisse Made, applicato anche al management esattamente come lo Swiss made assicura la filiera industriale ed alimentare.

    Da Voltaire ad oggi molti lustri sono passati e le vicende relative a troppi istituti bancari elvetici ne hanno minato il patrimonio reputazionale.

    In attesa di una rinnovata credibilità espressa dalla classe politica e dirigente svizzera attraverso una nuova tutela normativa, nel caso in cui si dovesse assistere ad un banchiere che si gettasse dalla finestra sarebbe indicato neppure affacciarsi a quella finestra.

  • Il Bail-in Swiss Made

    Il Bail-in, che in Europa interviene per i depositi superiori ai 100 mila euro mentre negli Stati Uniti il limite è fissato a 250.000 dollari, rappresenta una forzatura del contratto di sottoscrizione dei servizi del depositante presso l’istituto bancario. In caso di difficoltà dell’istituto bancario con questa normativa vengono chiamati a concorrere con le proprie risorse anche i semplici titolari di conti correnti dopo gli azionisti e gli obbligazionisti.

    In altre parole, si è imposta una metamorfosi contrattuale, proprio attraverso l’introduzione del bail-in, sostenuta dagli organi istituzionali e dagli Istituti bancari, attraverso la trasformazione di un contratto di servizio in una vera e propria sottoscrizione di rischi molto simile ad un investimento azionario, escludendo però contemporaneamente il correntista da ogni possibilità di intervento nella strategia gestionale dell’istituto. Una normativa chiaramente a favore di una più ampia sostenibilità finanziaria, introdotta con questa norma, e per gli equilibri patrimoniali di ogni Istituto bancario.

    Il parziale salvataggio di Credit Suisse, tuttavia, propone un ulteriore passo verso l’obiettivo della assoluta irresponsabilità degli istituti bancari e del loro management. All’interno della operazione, infatti, emerge come mentre le azioni del Credit Suisse, titoli di rischio, vengano acquistate da UBS ad un valore inferiore del -68% rispetto all’ultima quotazione, le obbligazioni AT1 (*), cioè i certificati di credito emessi dalla banca stessa ai risparmiatori, vengono invece azzerate per un valore complessivo di oltre diciassette (17) miliardi.

    Si assiste in questo modo al sovvertimento totale del principio dell’investimento di rischio il quale nello specifico risulta interamente a carico dei creditori, cioè gli obbligazionisti ma salvando i correntisti, mentre, anche se solo in parte, viene addirittura indennizzato il settore delle azionisti i quali rappresentano il capitale di rischio e quindi soggetto ai rischi gestionali e operativi dell’Istituto di credito.

    Al di là delle soluzioni tecniche che verranno adottate per ricreare e soprattutto mantenere un colosso bancario elvetico nato dalla fusione dei due principali istituti bancari, l’effetto di questa strategia risulterà dirompente in relazione al rapporto fiduciario con il mondo del risparmio, tradito ancora una volta.

    Privilegiare il titolo di rischio ed azzerare un titolo di credito rappresenta l’annullamento di un qualsiasi rapporto fiduciario tra imprese ed risparmiatori, la cui responsabilità andrà interamente a carico delle istituzioni statali quanto delle banche.

    In altri contesti molto spesso si parla della certezza del diritto come uno dei fattori fondamentali come deterrente della criminalità. Questa strategia adottata per il salvataggio di Credit Suisse rappresenta l’annullamento di ogni certezza e un insulto nei confronti dei risparmiatori. Un’operazione che crea una voragine normativa nel diritto bancario senza precedenti e con conseguenze incalcolabili in termini di rapporto fiduciario con il mondo del risparmio.

    (*) I titolari obbligazioni AT1 partecipano agli squilibri gestionali finanziari dell’istituto di credito ma sempre successivamente agli azionisti

  • Swisscom e Deutsche Telekom: i modelli liberali contemporanei

    A poche giorni dalla manifestazione di interesse del fondo statunitense Kkr per il 100% di Tìm si cominciano a vedere le reazioni della nostra classe politica, sindacale ed intellettuale.

    Negli anni ‘90 Telecom fu considerata una delle migliori aziende di telecomunicazione ma il governo d’Alema con il ministro Letta (attuale segretario del Pd) diedero parere favorevole alla Opa di Colaninno e Gnutti completamente a debito. Da allora la società è stata spogliata prima del vantaggio tecnologico e successivamente, con un nuovo management nella gestione Tronchetti Provera, privata anche del patrimonio immobiliare.

    Un fondo statunitense con uffici a Londra si propone adesso per una acquisizione totale della azienda nella quale Vivendi (azionista francese) detiene la maggioranza ma comunque lo Stato italiano mantiene una presenza con Cassa depositi e Prestiti (CdP) a poco meno del 10%.

    Per valutare le implicazioni di questa operazione e le strategie di ispirazione che hanno portato il principale operatore di telefonia italiano alle soglie di questa Opa potrebbe essere utile proporre un esame comparativo con la prima economia manifatturiera in Europa ed il nostro principale concorrente, la Germania, ma anche con la vicina Svizzera come unica espressione di democrazia diretta e reale economia liberale.

    Nella prima economia europea le infrastrutture tedesche fisiche (autostrade) e tecnologiche (Deutsche Telekom) rimangono all’interno della gestione pubblica, ovviamente con delle necessarie ed evidenti specificità. Nel settore delle telecomunicazioni le forti tensioni concorrenziali sulle tariffe come i notevoli investimenti tecnologici per il continuo aggiornamento richiedono delle risorse e delle competenze alle quali lo Stato tedesco attinge anche con l’apporto di altri soci privati. Rimane, tuttavia, il controllo della maggioranza relativa in mano allo Stato tedesco quanto il potere di indirizzo dell’ex monopolista tedesco.

    Nella vicina Svizzera Swisscom rappresenta la principale società di telecomunicazione ed il 51% è posseduto dalla Confederazione Elvetica (CH). Delle gestione delle autostrade, poi, si è già abbondantemente parlato in passato ma va ricordato  come il controllo “statale”  di queste infrastrutture risponda allo logica di una visione avveduta dei diversi governi germanico e svizzero i quali li hanno preservati e mantenuti in quanto consapevoli della loro  importanza come fattori competitivi per le imprese tedesche nella competizione globale, quindi rendendoli di fatto non disponibili a operazioni finalizzate al trasferimento di monopoli ad interessi privati speculativi.

    Nel nostro Paese, invece, governato da oltre trent’anni da intere compagini politiche, dirigenti ed accademiche autodefinitisi ispirate dal modello “liberale”, le autostrade, o meglio le loro concessioni, sono state oggetto di “privatizzazioni” compiacenti che hanno portato nel solo giro di poco meno di un ventennio alla riduzione degli investimenti in manutenzione del 98% creando di conseguenza le condizioni perfette per la tragedia del ponte Morandi.

    Tornando alla vicenda Telecom, nella quale l’unica presa di posizione del “mondo liberale” emersa fa riferimento alla sospensione del golden power, questa dimostra un sostanziale ritardo nella elaborazione di un pensiero liberale contemporaneo. Chissà che nel prossimo futuro non si decidano di fare un giretto nella vicina Svizzera e magari apprezzino il modello gestionale della rete autostradale (la famosa Vignetta) o in Germania, dove le autostrade restano gratuite e la gestione delle infrastrutture comunicative risponde alle logiche degli interessi collettivi del Paese in considerazione della loro valenza come fattori competitivi a favore dell’intero sistema paese.

    In Italia, invece, in piena sintonia con il modello “di sviluppo latino-amaericano” i servizi statali ex monopolisti diventano occasioni di speculazione per capitali privati i quali possono operare non solo a danno dell’utenza (43 le vittime del Ponte Morandi) ma anche contemporaneamente dello stesso sistema paese.

    Solo in Italia nella vicenda Tim l’intelligentia liberale si definisce tale solo dal semplice e scolastico richiamo alla eliminazione del golden power*, come se Svizzera e Germania rappresentassero dei modelli economico-politici della ex cortina di ferro, dimostrando, ancora una volta, come non si possa solo pensare di operare in una società liberale solamente in base alla titolarità di un servizio o, meglio ancora, delle infrastrutture  quanto, viceversa, dai parametri gestionali adottati espressione di strategie complesse a medio e lungo termine.

    La definizione di cultura liberale non può più reggersi nel mondo contemporaneo sulle mera dichiarazione della tutela degli interessi del singolo individuo e dei soli valori del mercato ma contestualizzarsi in un sistema economico e politico contemporaneo sempre più complesso che vede spesso nuovi soggetti economici cercare e trovare opportunità di business speculativo.

    La contemporaneità del modello liberale dovrebbe così prevedere a una “sublimazione” degli interessi del singolo cittadino e della propria contemporaneità culturale ed economica e ricevere, di conseguenza, una tutela superiore in contrapposizione agli interessi speculativi dei pochi (come la tutela del Made in Italy).

    Invece dal mondo liberale si ode solo uno scolastico richiamo alla rimozione del golden power della vicenda Tim come risoluzione di una importante partita strategica.

    Una posizione assolutamente non sufficiente in previsione della futura gestione di asset strategici o, meglio, di quello che rimane come nella questione molto importante nel sistema difensivo e della possibile acquisizione estera della Oto Melara, prestigiosa azienda operante nel sistema della difesa.

    Si sente forte la necessità di un salto culturale non solo nel governo quanto anche nelle componenti politiche ed ideologiche una volta faro dello sviluppo ed ora arroccate su posizioni scolasticamente corrette ma ormai obsolete in ragione della stessa evoluzione della complessità del mercato.

    (*) solo in Italia considerato in contrapposizione con la locale visione liberale ma già ampiamente adottato tanto in Europa quanto negli Usa

  • L’Iran si conferma un posto insicuro per le feluche: diplomatica svizzera precipita dal balcone

    È giallo in Iran sulla morte di una diplomatica svizzera, trovata senza vita in un’area verde nei pressi del palazzo in cui abitava a Teheran. Secondo una prima ricostruzione, la 52enne sarebbe precipitata dal 18esimo piano di un edificio nel quartiere di Kamranieh, nella zona nord della città che nel ’79 ospitò l’aggressione e il sequestro degli americani in servizio presso l’ambasciata Usa. Una tragedia su cui le unità specializzate della polizia iraniana hanno aperto un’inchiesta, escludendo al momento l’ipotesi di un suicidio. Quando è stato rinvenuto il cadavere, ha riferito il portavoce del Dipartimento per le emergenze di Teheran, Mojtaba Khaledi, la donna era già “morta da un po’ di tempo”.

    La funzionaria lavorava presso l’ambasciata di Berna, spesso al centro dell’attenzione perché incaricata di curare gli interessi degli Stati Uniti nel Paese dalla rottura delle relazioni diplomatiche con la Repubblica islamica nel 1980. “Stamani, la cameriera della diplomatica è andata a casa sua. Non avendola trovata, ha chiamato la polizia. Successivamente, un addetto alla manutenzione in un giardino vicino all’edificio ha trovato il corpo, che è stato riconosciuto dal portiere del palazzo”, ha riferito Khaledi.

    Le indagini non escludono l’incidente né l’omicidio. Il corpo presentava fratture alla testa e a un braccio. Sarà l’autopsia a stabilire se siano effettivamente compatibili con la caduta da un balcone o una finestra, e se siano riscontrabili segni di violenza o colluttazioni. Il corpo è già stato messo a disposizione del medico legale. A Berna, il ministro degli Esteri Ignazio Cassis si è detto “scioccato dalla tragica morte” e ha espresso le sue “più profonde condoglianze alla famiglia”. Le autorità svizzere, che seguono la vicenda in coordinamento con quelle iraniane, non hanno fornito al momento dettagli sulle circostanze del decesso, né il nome della diplomatica per tutelarne la privacy. Dal canto suo, il ministero degli Esteri di Teheran ha inviato le sue condoglianze e promesso una rapida conclusione delle indagini.

    Il drammatico episodio giunge in un momento molto delicato per l’Iran, impegnato a Vienna con i partner dell’accordo nucleare nei negoziati sul ritorno degli Usa e la rimozione delle sanzioni. Trattative che secondo la Russia continuano a far segnare “progressi”. Ma la fase è tesa anche sul piano interno, dove a un mese e mezzo dalle presidenziali è scontro tra i fondamentalisti e i moderati dell’uscente Hassan Rohani sull’audio rubato in cui il ministro degli Esteri Mohammad Javad Zarif criticava il generale dei Pasdaran Qassem Soleimani, ucciso dagli Usa nel 2020. Un clima di accuse e sospetti che rischia di avvelenarsi ancora.

  • Mentre nella democratica svizzera…

    Nel nostro povero Paese, portato allo stremo da una classe dirigente indegna e con l’attuale al governo assolutamente disastrosa, si discute di un ridicolo referendum per il taglio dei parlamentari. Una riduzione che accrescerà il potere degli eletti, ridurrà la rappresentanza democratica e soprattutto permetterà a 100 senatori di modificare la Costituzione a proprio piacimento. Questo è il risultato di un declino culturale il quale, con gli ultimi due governi Conte 1 e Conte 2, si è trasformata in una vera e propria metastasi culturale.

    Mai il livello espresso da un governo aveva raggiunto dei livelli così infimi come quello degli ultimi due anni rappresentati dai Cinque Stelle, prima con la Lega e ora col PD. Il nostro Paese, se questo referendum dovesse dare esito positivo, si avvicinerebbe ad una repubblica sudamericana come Venezuela o Argentina.

    A soli 40 minuti da Milano, invece, nella confederazione elvetica, i cittadini svizzeri saranno chiamati ad esprimere il proprio parere relativo al mantenimento o meno della libera circolazione dei cittadini europei all’interno dei propri confini (https://www.swissinfo.ch/ita/economia/votazioni-del-27-settembre-2020_-gli-europei-che-sono-gi%C3%A0-in-svizzera-non-hanno-nulla-da-temere–/46010378). Mentre in Italia gli stessi sostenitori del Sì al referendum si fanno promotori di una nuova legge proporzionale, che sarebbe il disastro assoluto della nostra democrazia, nella democratica Svizzera, unico esempio di democrazia diretta, gli elettori svizzeri, attraverso il voto, esprimeranno la propria opinione assolutamente vincolante in merito ad una questione problematica.

    Se noi decliniamo verso un simil-peronismo 4.0, la vicina Svizzera ci insegna cosa sia la democrazia.

  • Sorpresa! La Cia spiava anche i Paesi alleati degli Usa

    Stupirsene sarebbe francamente ingenuo, ma adesso un’inchiesta del Washington Post, dell’emittente tedesca Zdf e della svizzera Srf attestano che il fatto che la Cia spiasse anche i suoi alleati è qualcosa di più della sensazione di chi sa come gira il mondo.

    Per mezzo secolo l’intelligence americana, in un’operazione congiunta avviata con gli 007 dell’allora Germania Occidentale, ha captato le informazioni top secret di mezzo mondo. In codice si chiamava ‘Operazione Thesaurus’ e in seguito ‘Operazione Rubicon’.

    Almeno 120 i Paesi a loro insaputa sotto osservazione, tra governi rivali dell’Occidente e governi alleati, compresi l’Italia e il Vaticano. Si tratta di tutti quegli Stati che dall’inizio della Guerra Fredda fino all’inizio degli anni 2000 godevano dei servizi della società svizzera Crypto Ag, leader mondiale nelle comunicazioni criptate ma segretamente controllata dalle ‘barbe finte’ americane e tedesche. In pratica la Crypto AG forniva a tantissimi Stati a suon di milioni di dollari le macchine per criptare i messaggi e i cablo diplomatici che poi però venivano consegnati alla Cia e alla centrale di intelligence tedesca Bnd, i cui uomini venivano messi in grado di decifrare i codici e dunque di decodificare anche le comunicazioni più riservate e segrete.

    Nella rete sono finiti Stati ostili agli Usa come l’Iran, l’Iraq, la Libia, oppure gli avversari sul fronte nucleare come Pakistan e India, e ancora alleati di ferro come Arabia Saudita, Giordania e Corea del Sud. Nel corso degli anni si sono avvalse dei servizi della Crypto AG anche molte delle ex giunte militari dell’America Latina. La lista dei clienti della società svizzera comprendeva, almeno fino agli anni ’80, pure diversi Paesi della Nato oltre all’Italia, come Spagna, Grecia e Turchia. L’elenco non comprende invece le due potenze che hanno rappresentato i più temibili avversari dell’Occidente negli ultimi decenni: Russia e Cina.

    I sospetti sul doppio gioco della Crypto AG cominciarono a circolare molti anni fa, ma la difficoltà è stata sempre quella di trovare delle prove concrete. Tanti però gli Stati (compresa l’Italia) che nel tempo hanno disdetto i contratti con la società elvetica che ha il suo quartier generale nella città di Zugo. L’inchiesta di Washington Post, Zdf e Sfr ha portato a individuare gli ex 007 che hanno coordinato il programma di spionaggio attraverso la Crypto AG e i manager del gruppo incaricati di attuare quel programma.

  • Svizzera e Toscana: i modelli di sviluppo Richemont

    La realtà supera spesso ogni  modello di riferimento. Al di là della la specificità del mercato alto di gamma della orologeria svizzera, della quale IWC è sicuramente uno dei massimi esempi, l’essenza del nuovo sito di produzione IWC dovrebbe rappresentare l’esempio della nuova strategia industriale che il gruppo di Schaffhausen sta consolidando.

    All’interno del nuovo centro di produzione infatti verranno realizzati sotto il medesimo tetto tutti  i vari componenti dei prestigiosi orologi, come le casse, ma  anche i movimenti degli orologi IWC.

    Una scelta strategica ed una politica industriale confermata anche dall’investimento che lo stesso gruppo Richemont sta realizzando parallelamente in Toscana. Il gruppo svizzero di proprietà sudafricana infatti ha trasformato quella che era una azienda di pelletteria, “Mont Blanc pelletteria”, nel gruppo “Richemont pelletterie” che produrrà per l’intero gruppo che possiede marchi di altissimo prestigio,  cinture, accessori e borse, quindi con un “valore unitario” certamente inferiore rispetto  all’alta orologeria svizzera. Tuttavia  viene  confermata la filosofia di organizzazione industriale.

    L’investimento di Schaffhausen nel sito di produzione dei famosi orologi IWC, come quelli in Toscana, dimostra la volontà del gruppo svizzero di organizzare la produzione attraverso una centralizzazione e gestione interna in assoluta antitesi rispetto all’outsourching, che ha come obbiettivo strategico la trasformazione di tutti i costi fissi in costi variabili.

    La scelta strategica viceversa viene considerata dal  gruppo svizzero valida sia per prodotti ad alto valore aggiunto, come l’orologeria, che per prodotti di pelle che hanno un valore inferiore, quindi indipendentemente dal ” valore intrinseco” del prodotto,ma semplicemente dal posizionamento nell’alto di gamma per ogni settore merceologico.

    In un mercato globale nel quale non esistono più le canoniche stagioni di vendita come di produzione l’intero arco dell’anno si presenta come una unica  stagione per entrambe le funzioni industriali, sempre  in costante e continua ricerca della sintonia con i mercati  che manifestano  esigenze e peculiarità tra le più diverse, il gruppo svizzero dimostra la propria soluzione strategica a tale richiesta del mercato globale  ed una delle ragioni del proprio  successo e della crescita rispetto alle altre dottrine economiche anacronistiche  per un  mercato globale. In più, l’applicazione della digitalizzazione nell’organizzazione produttiva (la tanto osannata industria 4.0) permette al gruppo svizzero di minimizzare l’impatto dei costi  della gestione ed organizzazione interna della produzione rispetto al vantaggio di un Time to Market assolutamente vincente e minimo rispetto ad un’azienda terziarizzata così da risultare perfettamente in sintonia con le diverse stagionalità di un mercato globale.

    Questa organizzazione strategico-industriale si confronta nel nostro Paese con il  senso generale della ineluttabilità delle vendita dell’ennesimo gruppo italiano, Versace, ad un azionista statunitense. Le ragioni possono risultare molteplici e non escludono una incapacità dell’attuale proprietà  di interpretare le innovazioni e richieste di un mercato sempre più esigente e competitivo.

    Sembra del resto incredibile come ancora una volta si assista ad una incapacità di interpretazione ma soprattutto di comprensione di come il sistema moda risulti  superato, in termini di riferimento, come modello industriale  dall’ agroalimentare e dal sistema del mobile e dell’arredamento.

    Certamente la legittima cessione dell’azienda da parte dalla famiglia nasce anche da un abbandono del mondo del credito che sempre meno sostiene le imprese e tanto meno i loro programmi di sviluppo, specie se Pmi.

    Ora, tornando al gruppo svizzero Richemont, resta da chiedersi come possano esistere, in Svizzera ed  in Italia, realtà economiche assolutamente  contemporanee e vincenti ma al tempo stesso distanti  da quella proposta economico strategica sostenuta dal mondo politico e dal mondo accademico negli ultimi vent’anni.

    Paradossale poi come “i nuovi e vincenti  modelli economici e soprattutto aziendali” non vengano più dalla elaborazione di modelli legati alla sola vitalità delle nostre Pmi (che continuano impavide e sole nel mercato internazionale) ma da aziende estere che hanno saputo rielaborare il nostro modello di “creazione del valore” classico degli anni ottanta ma che nel loro sviluppo risultano arenate anche per incapacità di sintonizzazione  delle proprie evoluzioni con il mercato globale.

    Non cogliere il significato strategico delle scelte del Gruppo Svizzero in Svizzera e in Toscana rappresenterebbe un errore di dimensioni epocali…

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