Tasse

  • Si lotti prima coi grandi elusori. Ue non può fare più finta di guardare altrove

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Maro Lettieri e Paolo Raimondi pubblicato su ItaliaOggi dell’11 ottobre 2019.

    La legge di bilancio è sempre un momento difficile per il governo, per i cittadini e per lo stato. Soprattutto se l’economia è in profonda stagnazione, a volte dentro, a volte appena fuori da una vera e propria recessione. Quando la crescita non c’è, inevitabilmente c’è scarsità di reddito e, di conseguenza, manca regolare gettito fiscale. Perciò, far quadrare i conti senza un aumento delle tasse, dell’Iva per quanto riguarda il nostro paese, diventa opera di un equilibrista. È una storia vecchia, ma l’Italia non può permettersi un’evasione fiscale ai livelli di una «repubblica delle banane».

    L’ultimo studio del ministero dell’economia riporta che nel 2016 l’evasione fiscale è stata di 107 miliardi di euro. Secondo la società inglese di ricerca, The Tax Research LLP, sarebbe addirittura di 190,9 miliardi di euro. Il totale europeo sarebbe di ben 823,5 miliardi. L’Italia è la prima in Europa, seguita dalla Germania con 125,1 miliardi di evasione. È il caso di ricordare che la nostra spesa pubblica per la sanità è di 115 miliardi e quella per la scuola di 60.

    Un secondo studio, “The European Tax Gap”, misura il rapporto tra tasse evase e il gettito fiscale. In Italia è del 23,29%. Siamo quarti in Europa, dopo la Romania, la Grecia e la Lituania. Nonostante che il denaro recuperato dall’evasione sia quadruplicato in poco più di 10 anni, dai 4,4 miliardi del 2009 ai 19,2 del 2019, il problema resta sostanzialmente irrisolto. Rispetto ai totali di evasione menzionati è davvero parva res, piccola cosa…

    Vi è poi l’elusione fiscale, cioè l’utilizzo di tutte le cosiddette «strade legali» e di alcuni trucchi per sottrarsi al fisco. La praticano in particolare le grandi imprese internazionali. Sfruttano i paradisi fiscali, ancora legalmente irraggiungibili dalle autorità degli stati. Sono noti i casi legali nei confronti, per esempio, di Amazon, Facebook, Google, Apple e di altri giganti del web. Si calcola che l’elusione dei grandi gruppi esteri in Italia potrebbe generare ammanchi di entrate tra i 5 e i 20 miliardi di euro (a secondo delle stime adottate). A tutto ciò si dovrebbero aggiungere le attività illegali (prostituzione, droga, criminalità organizzata, ecc) che nei calcoli stranamente non sono prese in considerazione. Il piano annunciato dal governo italiano per la lotta all’evasione dovrebbe portare nelle casse dello stato 7 miliardi di euro. Ridurre l’uso del contante a favore dei pagamenti elettronici farebbe aumentare il numero delle operazioni tracciate e potenzialmente anche diminuire il numero degli evasori.

    Aumentare la tracciabilità dei pagamenti è sicuramente importante, ma deve essere accompagnata, meglio se preceduta, dal potenziamento e dalla modernizzazione delle agenzie preposte alla lotta all’evasione. Oggi la grande evasione, purtroppo, corre sempre davanti alle regole e agli interventi dello stato. Si creano innegabili distorsioni e disuguaglianze tra coloro che si trovano in una condizione che permette di evadere le imposte e quelli che sempre le pagano. Al riguardo è opportuno ricordare che i 17 milioni di lavoratori dipendenti, pubblici e privati, e di pensionati pagano le imposte fino all’ultimo centesimo, in quanto, com’è noto, trattenute direttamente sulla busta paga e sulla pensione.

    In Italia vi sono poi 5 milioni di lavoratori autonomi, imprenditori, artigiani e partite Iva che potrebbero, se volessero, evadere anche percentuali significative rispetto al dovuto allo stato. Secondo alcune stime circa 33 miliardi di euro di imposte sul reddito (Irpef), pari al 63% del dovuto da parte degli autonomi, non arriverebbe al fisco.

    Ancora più evasa è l’Iva, l’imposta sugli scambi di beni e servizi. Si stima che ogni anno non sarebbe versata per 35 miliardi di euro. La lotta all’evasione ha tentato sempre di ricuperare l’Iva evasa. Esaminando il flusso degli acquisti e delle vendite si è in grado di ricostruire meglio anche il reddito degli operatori. Ci sembra che la strada sia quella giusta. Si stima che nel 2019 la semplice introduzione della fatturazione elettronica sembra possa produrre un gettito aggiuntivo di Iva superiore a 4 miliardi.

    In merito all’uso del contante l’accanimento mediatico ci sembra francamente esagerato e pretestuoso. I pagamenti telematici, bancomat e carte di credito varie, dovrebbero essere introdotti in modo progressivo e accompagnati dalle necessarie semplificazioni degli adempimenti fiscali e, soprattutto, non gravati da alcun costo per gli utenti. Se la lotta all’evasione e all’elusione è prioritaria per il rilancio dell’economia, diventa urgente migliorare le qualificazioni tecnologiche delle varie agenzie preposte e l’aumento dei relativi organici.

    Tutti devono pagare le tasse dovute e contribuire proporzionalmente al bene comune, così come prevede la nostra Carta costituzionale. La lotta contro l’evasione e l’elusione fiscale deve, però, cominciare veramente con i grandi evasori.

    Si può ulteriormente accettare supinamente che grandi società operanti in Italia spostino la loro sede fiscale in Olanda per pagare meno tasse? O si deve, invece, pretendere che l’Ue adotti norme fiscali omogenee per tutti i paesi dell’Unione? Questo è il salto di qualità che si chiede all’Europa per avere maggiore credibilità.

    * già sottosegretario all’Economia ** economista

     

  • Da Monti a Gualtieri: il bullismo fiscale ed istituzionale

    La Tobin Tax rappresenta una tassazione applicata a tutte le transazioni finanziarie di borsa, inserita ed attuata unilateralmente dal governo Monti. Tale “scelta strategica” ha rappresentato un fiasco clamoroso in quanto dei possibili due miliardi di nuove risorse previste nel bilancio di previsione ne vennero incassati solo 870 milioni. La posizione del governo Monti, poi, comportò come inevitabile conseguenza un ulteriore isolamento normativo e politico in quanto le altre nazioni non applicavano tale normativa fiscale ed il valore di questa tassazione è direttamente proporzionale all’ampiezza dei sistemi normativi che l’adotterebbero.

    A questo isolamento politico del nostro Paese ne seguì quindi anche una minore attrattività della piazza finanziaria di Milano, con un ulteriore evidente danno per l’economia nazionale. Ovviamente si omise, allora come oggi, colpevolmente, di valutare ma sopratutto di comprendere le conseguenze finanziarie e politiche di questa scelta del governo Monti. Prova ne sia la volontà dell’attuale ministro Gualtieri di inserire all’interno della manovra economico-finanziaria l’applicazione della Web Tax in modalità assolutamente unilaterale esattamente come il governo Monti con la Tobin Tax.

    Mentre, infatti, l’Unione europea sta cercando con grandi difficoltà di elaborare un quadro normativo e fiscale omogeneo, e quindi inclusivo, il nostro governo, adottando l’atteggiamento sprezzante del governo Monti, inserisce questa normativa determinando un ulteriore isolamento del nostro Paese all’interno del quadro europeo.

    Gli ultimi due governi Conte hanno evidenziato una sempre maggiore marginalità del nostro Paese all’interno dell’Unione europea a causa, durante il governo Conte uno, delle farneticanti affermazioni relative ad una uscita imminente dall’euro e dell’intenzione di una “emissione a debito zero” dei  minibot  o, alternativamente, del conio di una moneta parallela. Tutto questo mentre il debito pubblico aumentava con un trend di più centosessanta (160) miliardi negli ultimi diciotto mesi.

    Confermando questa linea di comportamento, la scelta della introduzione di una Web Tax del governo Conte 2 esattamente come nel caso della Tobin tax rappresenta un atto di vero e proprio “bullismo fiscale” il quale presenta forme forse più eleganti rispetto al dozzinale “bullismo mediatico” del governo Conte 1, causando però  le medesime conseguenze.

    In un contesto internazionale qualsiasi atto di bullismo, va ricordato, viene naturalmente percepito come  espressione di una volontà di prevaricazione unita ad una arroganza tanto meno giustificabile quando a risultarne responsabili siano esponenti governativi incapaci di valutare il peso e le conseguenze delle proprie decisioni politiche, fiscali e finanziarie.

    Anche queste diverse forme di bullismo istituzionale rappresentano la conferma di un declino culturale del nostro Paese del quale non si vede il limite ultimo.

  • La triste favola del Re che portò all’estinzione i propri sudditi

    Alla fine di ogni estate il sovrano del Regno di Taxland, per ammansire i propri sudditi fiscali, individuava nella crescente evasione delle decime sul raccolto la motivazione che lo condannava e costringeva ad un aumento delle tasse sul macinato e al conseguente impoverimento del popolo lavoratore.

    Il Regnante, a giustificazione della propria inevitabile scelta, ricordava ai propri sudditi che se tutti avessero pagato il dovuto allora il maggiore gettito avrebbe permesso all’intera popolazione di avere una riduzione delle decime e perciò i sudditi avrebbero goduto di una maggiore disponibilità economica.

    Il sovrano, ovviamente, dimenticava, ma soprattutto ometteva colpevolmente, come ad ogni aumento delle tasse pagate dal popolo suddito corrispondesse parallelamente sempre un aumento delle proprie attribuzioni e costi generali per il mantenimento del palazzo e dei servitori mentre il livello di sopravvivenza della popolazione risultasse drasticamente in caduta verticale.

    In altre parole, tutte le affermazioni del sovrano erano viziate dal regale e conflittuale interesse di quest’ultimo con il semplice fine di migliorare il proprio appannaggio e conseguentemente il proprio potere attraverso l’esplosione percentuale delle decime che avrebbero trasformato i sudditi fiscali in veri e propri schiavi privi di ogni indipendenza economica e quindi progettualità di vita.

    Questa pericolosa sintesi di tasse e crescita della miseria per il popolo lavoratore si tradusse inevitabilmente in un calo demografico in quanto per una famiglia un figlio, e quindi anche solo una bocca in più da sfamare, rappresentava un costo aggiuntivo insostenibile.

    Questa progressione della pressione fiscale si tradusse quindi nella successiva estinzione della popolazione del regno che nel giro di pochi decenni passò da una posizione economica e politica importante alla propria estinzione economica e demografica.

    Tornando ai giorni nostri, nella prima metà degli anni settanta Indro Montanelli sottolineò come sempre (e soprattutto, aggiungiamo noi, esattamente come il Sovrano della favola) alla fine dell’estate i vari governi introducessero, con la complicità dei media asserviti ormai alla nomenclatura politica, la tematica dell’evasione fiscale a giustificazione dell’aumento delle tasse e della pressione fiscale complessiva.

    Da allora, ai tempi del regno, fino ad oggi nulla risulta cambiato auspicando, comunque, che l’infausto esito per il  popolo italiano non sia quello dell’estinzione come accadde nel regno di Taxland.

    Abbandonando il terreno della fantasia, l’amara realtà ha dimostrato come la classe politica italiana, nel remoto come recente passato e ancora oggi, rimanga assolutamente intellettualmente disonesta al di là di ogni colore politico. Ancora oggi infatti si cerca di ammansire le popolazioni (il cosiddetto popolo bue per il mercato finanziario) proponendo lo scenario di un favoloso futuro ma soprattutto immaginario nel quale, a fronte di un aumento di una pressione fiscale e di un contemporaneo allargamento della base, verrebbe ridotto per ogni singolo cittadino l’ormai insostenibile peso fiscale.

    Il grafico nella foto, reale quanto crudo, dimostra invece come ad ogni aumento della pressione fiscale sia sempre corrisposto un aumento della spesa pubblica, dimostrazione, ancora una volta, di come quest’ultima rappresenti la prima forma di potere per il ceto politico assieme alla gestione del credito (https://www.ilpattosociale.it/2018/11/26/la-vera-diarchia/).

    Nella regno di Taxland, poi, il sovrano era con chiarezza assolutamente inattaccabile da una qualsiasi possibile critica dai sudditi fiscali in quanto protetto da un esercito di magistrati nominati a propria discrezione e rendendo quindi questa forma arcaica di sistema giudiziario al di fuori di ogni controllo terzo se non quello della famiglia reale.

    Questa triste favola dimostra ancora una volta come la realtà del vivere quotidiano dei sudditi fiscali italiani sia assolutamente più grama rispetto al più immaginifico mondo della fantasia della favola nella quale peraltro un sovrano ridusse all’estinzione i propri sudditi.

    P.S. Ogni riferimento a persone e organi contemporanei risulta assolutamente voluto e ricercato.

     

  • In Italia ci sono già patrimoniali per 45,7 miliardi

    In Italia sono già in vigore tasse patrimoniali per 45,7 miliardi di euro, rileva Ferruccio De Bortoli su L’Economia, e se anche il governo Conte2 varerà misure fiscali di quel genere, come appare probabile per tenere a bada i conti, la novità che il premier ha promesso essere rappresentata dal suo governo bis sarà una novità ben poco confortevole per gli italiani. La patrimoniale colpisce infatti beni registrati, che non possono essere occultati proprio perché registrati, ma ne deprime il valore: il valore di un immobile diminuisce nel momento in cui il possibile acquirente teme di dover pagare su di esso tributi prima non in vigore e chi pensi di cambiare auto non è certo incentivato a farlo se teme di veder applicati nuovi balzelli su di essa. Insomma, la novità promessa da Giuseppe Conte rischia di consistere semplicemente nello svilimento del patrimonio degli italiani. E peraltro, se patrimoniale sarà, il Conte2 si muoverà all’insegna di una continuità che risale addirittura all’Italia monarchica. Altro che novità, la patrimoniale comparve nell’Italia repubblicana già un anno prima della Costituzione, nel 1947. Ma la sua prima apparizione risale al 1919, primo governo Nitti. Prima di Mario Monti e Giuliano Amato, gli ultimi premier che vi hanno fatto ricorso, fu utilizzata anche dal Fascismo, nel 1936 e nel 1940.

    La patrimoniale peraltro ha sempre reso meno delle attese, nel 2018 le varie misure di questo tipo (bollo auto, imposta di registro, Imu e Tari) hanno reso l’equivalente dell’1,2% del Pil, 45,7 miliardi appunto. Ma per un governo di sinistra come si preannuncia il Conte2 il rincaro dell’Iva – frutto delle misure del governo Conte1 (reddito di cittadinanza e quota 100) – sarebbe esiziale. Non tanto e non solo perché deprimerebbe i consumi mentre venti di recessione spirano sul mondo intero, quanto perché l’Iva è un’imposta indiretta che tutti pagano in identica misura a prescindere dal loro reddito e dai loro averi. La patrimoniale può essere invece una misura progressiva o classista, tarata solo su alcuni (e infatti a un liberista come Luigi Einaudi non piaceva).

    Certo, c’è sempre la lotta all’evasione per far fronte alle necessità finanziarie dello Stato. Ma un governo la cui componente maggiore ha già dimostrato di amare moltissimo affacciarsi al balcone per dare annunci tonitruanti come la sconfitta della povertà potrà mai rinunciare a misure propagandistiche, di consenso elettorale? Ecco allora che la persistenza dell’evasione elettorale offre l’alibi a quella classe politica per continuare a prendere in giro le masse con promesse da Bengodi. Basta mettere a preventivo entrate per tot euro alla voce recupero dell’evasione per poter dire che interventi dal chiaro intento elettoralistico godono della copertura finanziaria di cui per legge ogni intervento governativo in ambito economico deve godere. Ma certo, se l’evasione fosse davvero debellata, un simile giochetto non si potrebbe più fare. Il partito (movimento) dell’onestà dovrebbe riconoscere i limiti di azione  in cui inevitabilmente il governo incorre. E a quel punto la Casaleggio non potrebbe più vantare l’entusiasmo con cui la gente partecipa alle votazioni sulla piattaforma Rosseau.

  • Il camouflage fiscale degli ultimi governi

    Da oltre trent’anni il tema dell’evasione fiscale ha rappresentato la giustificazione classica per coprire le inefficienze nella gestione della spesa pubblica e contemporaneamente i risibili risultati delle ridicole politiche di sviluppo finanziate (https://www.ilpattosociale.it/2019/01/10/il-falso-alibi-dellevasione-fiscale/). Di fatto questa tattica comunicativa ha permesso, in particolare agli ultimi governi Renzi/Gentiloni e Conte/Salvini, di operare delle scelte fiscali indegne se paragonate alla tanto agognata “giustizia fiscale” accomunata alla altrettanto  dichiarata “diminuzione della pressione fiscale”. Obiettivi che sicuramente rappresentano ancora oggi l’unica via per una politica di sviluppo e di sostegno alla domanda interna per i contribuenti italiani. Il governo Renzi, “ottimamente coadiuvato” dai dott. Padoan e Calenda, ha adottato come espressione della propria politica fiscale il concetto di contributo fiscale fisso di 100.000 euro per tutte le persone che residenti all’estero volessero porre il proprio domicilio fiscale in Italia. Di fatto una persona con un reddito da 1.000.000 si vedrà applicata una aliquota al 10%, o ancor meglio al 5% se il reddito risultasse di cinque milioni, per ridursi all’1%  con un reddito di 10 milioni. L’1% rispetto al 62% del total tax rate che mediamente viene pagato dai contribuenti italiani rappresenta effettivamente un insulto all’Italia che lavora. Quelli che si definiscono, rispetto al governo attuale, espressione della cultura economica occidentale hanno annullato in un solo battito di ciglia il principio dell’utilità marginale decrescente del denaro (e sicuramente a loro insaputa).

    Non pago di questo vero e proprio insulto fiscale il  governo Gentiloni, sempre in questo aiutato dai preziosi dott.  Padoan e Calenda, nel dicembre 2017 ha inserito nella legislazione fiscale l’aliquota fissa (oggi definita flat tax) per le rendite finanziarie al 26% favorendo tutte le rendite superiori ai 750.000. In più viene prevista in questa innovativa normativa fiscale anche la possibilità della compensazione tra crediti e debiti fiscali tanto invocata dal mondo del lavoro ed imprenditoriale italiano ma concessa viceversa solo ai grandi “risparmiatori”.

    In questo quadro avvilente che dimostra le priorità dei governi Renzi e Gentiloni il governo in carica Conte/Salvini/Di Maio ha convertito in legge (n.58) il decreto legislativo n.34 che prevede la riduzione del 50% del calcolo dei contributi per gli sportivi residenti all’estero da due anni ed ora tornati sul suolo italico. In altre parole viene istituzionalizzato una sorta di reshoring fiscale a vantaggio delle società prevalentemente del settore calcistico mentre l’industria, i servizi ed il turismo attendono invano la riduzione del cuneo fiscale. Quest’ultimo fondamentale per ridare un po’ di fiato alla domanda interna e rendere più competitive  contemporaneamente le aziende italiane che competono nel mercato globale.

    Quindi mentre quota 100 e reddito di cittadinanza vengono inserite a debito e contemporaneamente la flat tax, oggi finanziariamente insostenibile, viene modificata nella proposta per la  stessa definizione della tassa (la doppia aliquota per due fasce di  reddito risulta ridicola in quanto non più flat) il governo sceglie di aiutare le società sportive. In  particolare quelle del mondo del pallone le quali, a fronte di un ingaggio di dieci milioni per un calciatore, non dovranno più pagare diciotto milioni complessivamente ma solo tredici, ed ovviamente questa copertura relativa alla riduzione del cuneo fiscale andrà anche a questa il debito.

    Il nostro paese si trova nella incredibile situazione nella quale a fronte di un aumento della pressione fiscale contemporanea  ad un quasi annullamento dei tassi di interessi con riduzione dei costi di servizio al debito (espressione del quantitative easing) riesce ad avere una crescita del debito superiore a quella del  Pil.

    In questo contesto l’Italia è l’unico paese in Europa ad essere ancora al di sotto di 1,4% di reddito disponibile rispetto al 2008. Un dato che di fatto boccia senza appello il gotha economico governativo italiano.

    In ultima analisi, quindi, questi  tre esempi di “camouflage fiscale” rappresentano l’arte di camuffare dietro la dichiarata ricerca di grandi obiettivi fiscali ed economici (anche quest’anno la pressione fiscale è aumentata e i consumi sono diminuiti dello 0,4% per  oltre un miliardo) la volontà di favorire gli interessi di pochi  a spese della collettività.

  • Accise ridotte dall’1 luglio, birre artigianali italiane in vendita a prezzi ‘scontati’

    Con l’1 luglio è scattato lo sconto per le birre artigianali grazie al taglio del 40% delle accise sulle produzioni dei microbirrifici che spingono l’aumento degli acquisti Made in Italy. Col nuovo mese è infatti entrato in vigore il Decreto inserito nella Legge di Bilancio 2019 che prevede un alleggerimento del peso fiscale per chi produce fino a 10mila ettolitri all’anno. Ben 9 microbirrifici su 10 beneficeranno dell’agevolazione, secondo un’analisi della Coldiretti.

    Il bonus si traduce in un sostegno al consumo di una bevanda che riscuote un successo crescente con la moltiplicazione di iniziative imprenditoriali: 862 birrifici agricoli e artigianali, in aumento del 330% negli ultimi dieci anni. Il risultato viene spinto dall’aumento dei consumi che hanno raggiunto i 33,6 litri, il massimo di sempre, con un incremento del 14,3% negli ultimi 10 anni. Il balzo della birra italiana è favorito anche da una forte diversificazione dell’offerta in particolare nella birra artigianale: dalla birra aromatizzata alla canapa a quella pugliese al carciofo, dalla birra senza glutine al riso Carnaroli del Piemonte a quella con la zucca, da quella con le arance di Sicilia a quella con le scorze di bergamotto, per fare alcuni esempi. Con l’inizio dell’estate 2019 la Coldiretti ha promosso la nascita del Consorzio a tutela della birra artigianale Made in Italy che garantisce l’origine delle materie prime, dal luppolo all’orzo. Il boom delle birre artigianali made in Italy infatti ha spinto le semine di orzo che aumentano quest’anno del 3% per un totale di 267.868 ettari.

  • Italia e italiani in mutande e il governo cerca la soluzione nei sexy shop

    Procedura d’infrazione per l’Italia comminata dall’Unione europea? Scelta del dicastero per il commissario italiano? Trattative per le altre nomine europee, dal presidente della Commissione al presidente dell’Unione? Scambi di vedute sul futuro mentre rimangono insoluti i problemi legati all’immigrazione, all’aumento della povertà, alla mancanza di lavoro? L’elenco delle emergenze nazionali ed europee è molto lungo ma il governo italiano preferisce varare un provvedimento che agevola e aiuta i sexy shop piuttosto che affrontare i temi europei, che ci riguardano, o i temi nazionali che opprimono tante categorie di cittadini e lavoratori.
    Mentre decine di migliaia di persone, espulse dal mondo del lavoro o che al mondo del lavoro tradizionale, anche a tempo determinato, non sono mai riuscite ad arrivare e si devono accontentare di fare i prestatori di servizi per lavori che durano da un giorno a poche settimane e sono pagati, se sono pagati, dopo 90 giorni, il governo si occupa dei sexy shop. Non facciamo commenti morali, ogni governo ha la sua morale, ma certo dopo che la Lega, in passato, ha acconsentito alla coltivazione ed alla vendita dei prodotti derivanti dalla cannabis ed ora chiude i negozi e di conseguenza le coltivazioni di quegli stessi prodotti che prima erano consentiti, ci sembra veramente paradossale che nelle nuove disposizioni per combattere la povertà e la disoccupazione si ignorino le centinaia di migliaia di prestatori di servizi e ci si occupi dei piccoli esercizi che potrebbero aprirsi nei piccoli centri per distribuire vibratori e quant’altro utile a fare del sesso non un sano piacere ma un piccolo business. Come se non fosse già sufficiente tutto quello che esiste nel settore.
    I prestatori di servizi non solo sono pagati a 90 giorni ma spesso non sono pagati e certo chi non è pagato non potrà fare causa per 100 o 200 euro! Resta un settore di persone abbandonate dallo Stato, che non possono accedere ad un prestito bancario o di altro genere, che non hanno garanzie non solo sulla continuità, anche temporanea, del loro lavoro ma neppure garanzie di retribuzione a lavoro svolto. Mentre le agenzie che danno gli incarichi sono pagate subito, i prestatori di servizi, dei quali si avvalgono, ricevono il compenso, se lo ricevono, dopo mesi. Questo è libero mercato o sfruttamento? Perché né l’Europa né i partiti al governo, M5s e Lega, hanno detto una parola? Perché anche i partiti d’opposizione tacciono? Forse perché questi lavoratori a fine anno non rientrano, ovviamente, tra i contribuenti interessanti per lo Stato? Forse perché la politica è tanto distante e avviluppata su se stessa da non conoscere la realtà?
    Potremmo fare molte battute sulle agevolazioni per i sexy shop, preferiamo lasciarle a chi ha una testa per pensare e giudicare. Ma vogliamo comunque condannare l’insipienza di crede che si possa far politica non conoscendo la realtà e le necessità del Paese, perché sia al governo che all’opposizione non vediamo più dilettanti allo sbaraglio ma semplicemente degli ignoranti. Il Paese è in mutande, gli italiani sono in mutande, ma certo non è nei sexy shop che la classe politica italiana può trovare la risposta adeguata, se proprio dobbiamo dirlo con una battuta!

  • La Corte di giustizia Ue impone all’Italia di recuperare l’Ici sugli immobili della Chiesa cattolica

    L’Italia dovrà recuperare il mancato gettito Ici dovuto dalla Chiesa. La Corte di Giustizia Ue ha annullato la decisione con cui la Commissione europea ha rinunciato a ordinare il recupero di aiuti illegali concessi dall’Italia sotto forma di esenzione dall’imposta comunale sugli immobili, Ici, per gli enti ecclesiastici e religiosi.

    Il caso fa seguito al ricorso presentato al Tribunale Ue dall’istituto d’insegnamento privato Scuola Elementare Maria Montessori (‘Scuola Montessori’) e da Pietro Ferracci, proprietario di un ‘bed & breakfast’, per chiedere di annullare la decisione della Commissione del 19 dicembre 2012 che stabiliva che l’esenzione Ici alla Chiesa era un aiuto di stato ma non ne ordinava il recupero, ritenendolo assolutamente impossibile. Inoltre in quell’occasione Bruxelles stabilì che l’esenzione Imu introdotta nel 2012 non costituiva un aiuto di Stato. Ma la Scuola Montessori e Ferracci hanno lamentato, in particolare, che tale decisione li ha posti in una situazione di svantaggio concorrenziale rispetto agli enti ecclesiastici o religiosi situati nelle immediate vicinanze che esercitavano attività simili alle loro e potevano beneficiare delle esenzioni fiscali in questione. Il Tribunale ha dichiarato i ricorsi ricevibili, ma li ha respinti in quanto infondati.

    La Scuola Montessori e la Commissione hanno dunque proposto impugnazioni contro tali sentenze. E con la sentenza di oggi la Corte di giustizia esamina per la prima volta la questione della ricevibilità dei ricorsi diretti proposti dai concorrenti di beneficiari di un regime di aiuti di Stato contro una decisione della Commissione la quale dichiari che il regime nazionale considerato non costituisce un aiuto di Stato e che gli aiuti concessi in base a un regime illegale non possono essere recuperati. Nel rilevare che una decisione del genere è un “atto regolamentare”, ossia un atto non legislativo di portata generale, che riguarda direttamente la Scuola Montessori e il sig. Ferracci e che non comporta alcuna misura d’esecuzione nei loro confronti, la Corte conclude che i ricorsi della Scuola Montessori e di Ferracci contro la decisione della Commissione sono ricevibili. Quanto al merito della causa, la Corte ricorda che l’adozione dell’ordine di recupero di un aiuto illegale è la logica e normale conseguenza dell’accertamento della sua illegalità.

  • Fiscalità e condono: l’effetto beffa

    Ogni governo negli ultimi vent’anni ha elaborato il proprio condono fiscale presentandolo sempre come “l’ultimo, quello definitivo e magari quello tombale”. La titolazione ha visto la fantasia della politica esprimersi ai massimi livelli con proclami del tipo “rottamazione delle cartelle” o “voluntary disclosure” per far rientrare capitali all’estero. L’obiettivo era sempre quello di racimolare un minimo di risorse finanziarie, spesso unite a nuovo deficit che, insieme, dovevano offrire la copertura per nuove spese considerate irrinunciabili per caratterizzare l’azione del governo ed espressione della “rinnovata centralità della politica” rispetto alla bieca e cinica finanza, anche per questo varato dal governo in carica. Tuttavia si pone una questione estremamente importante, soprattutto nell’ottica del rispetto dell’istituzione, che il governo comunque rappresenta, ma anche per  tutte le istituzioni che in nome e per lo Stato operano.

    Al di là della terminologia utilizzata e del peso delle percentuali applicate per “chiudere i contenziosi”, emerge evidente il senso della beffa per chi ha sempre pagato il dovuto allo Stato come per chi, in difficoltà economica, abbia chiesto una rateizzazione rinunciando ad ampie fette del proprio benessere e stile di vita per far fronte a quanto richiesto dal sistema fiscale e dallo Stato.

    Questo senso di forte frustrazione si può ovviamente trasformare in una progressiva perdita di rispetto e considerazione per le istituzioni stesse le quali, ancora una volta, come negli ultimi vent’anni, premiano, e neppure troppo implicitamente, chi abbia deciso di mantenere una posizione debitoria penalizzando parallelamente i “poveri e regolari” contribuenti che invece regolarmente o attraverso un accordo con Equitalia hanno deciso di ottemperare alle proprie incombenze fiscali anche con grandi sacrifici.

    Questo sentimento sempre più radicato nella sempre meno considerata classe dei “contribuenti onesti e tempestivi” dovrebbe invece trovare una approfondita valutazione e non scientemente ignorata da tutto il ceto politico, se non altro per le sue gravissime ripercussioni sotto il profilo anche della tenuta della credibilità delle stesse istituzioni democratiche.

    Si pone quindi a questo punto la necessità di indicare una soluzione per rendere accettabile o per lo meno non insultante per i contribuenti regolari un qualsiasi tipo di condono fiscale che oltre alla beffa non penalizzi ancora più chi invece ha pagato nei termini stabiliti dalla legge le proprie incombenze fiscali.

    La storia dei governi degli ultimi vent’anni ci insegna come i condoni fiscali rappresentino “l’estrema ratio” con l’obiettivo appunto di reperire le risorse finanziarie aggiuntive, e quindi una tantum finalizzate alla copertura finanziaria di scelte di politica specifiche del governo per l’anno in corso, e probabilmente per quello successivo, che dovrebbero caratterizzare l’unicità come l’espressione della politica del governo in carica regolarmente eletto.

    Quindi, al di là della sterilità di una norma finanziaria una tantum, che successivamente vede poi spesso riaprirsi i termini per l’adesione ai nuovi parametri temporali del condono, l’unica soluzione possibile per evitare che buona parte degli italiani che invece regolarmente paga le incombenze fiscali percepisca il senso della beffa dal condono stesso è semplicemente rappresentata dalla decisione di destinare tutte le risorse reperite attraverso la lotta all’evasione fiscale e la chiusura di posizioni fiscali debitorie dei vari contribuenti interamente destinate alla diminuzione della pressione fiscale complessiva.

    In altre parole l’opportunità di fornire un supporto normativo alle persone che non fossero in grado di pagare le proprie incombenze fiscali dovrebbe rivelarsi un vantaggio o quanto meno non una beffa anche per la maggioranza dei contribuenti che invece hanno sempre rispettato le regole il cui contenuto finanziario si possa tradurre, negli anni a seguire, in un alleggerimento della pressione fiscale stessa. Tale decisione strategica di trasformare una scelta prettamente politica (condono fiscale) in un vantaggio generale per tutti i contribuenti, destinando le risorse all’alleggerimento della pressione fiscale stessa, rappresenterebbe un primo passo verso quella riduzione della pressione fiscale promessa, essa stessa legata a proclami vuoti e privi di copertura finanziaria, ma invece espressione di una strategia di impiego di risorse innovativa.

    Sottovalutare l’aspetto beffardo della lunga serie di condoni fiscali nei confronti di chi ha sempre ottemperato ai propri obblighi rappresenta uno dei più grossi errori dei governi degli ultimi vent’anni come di quello attuale.

  • Fiscalità di vantaggio: cui prodest

    La scelta relativa a dove realizzare il sito di produzione dei Suv BMW da parte della casa bavarese venne influenzata dalla politica di fiscalità di vantaggio che lo stato del South Carolina offriva per attirare  investimenti produttivi. Viceversa la Mercedes per la propria produzione scelse l’Alabama per i medesimi motivi e medesimi Suv. Attualmente, ancora la Mercedes ha deciso di investire un miliardo di dollari negli Stati Uniti nella produzione del primo Suv elettrico. In questo caso un elemento aggiuntivo è sicuramente la riduzione della tassazione sugli utili di impresa (corporate tax) operata dall’amministrazione Trump.

    In entrambi i casi risulta evidente l’effetto dell’azione di politica fiscale dei singoli stati statunitensi i quali cercano di attirare investimenti (che permettono quindi un aumento degli occupati e del PIL) promettendo innanzitutto la stabilità fiscale ed una vera e propria fiscalità di vantaggio che si esprime attraverso aliquote che rendono competitivo il maggior costo del lavoro rispetto ai paesi del Far East, ma compensabile grazie all’ottimo livello della pubblica amministrazione e la grande qualità professionale.

    In entrambi i casi la sintesi tra fiscalità di vantaggio e quindi sostenibilità unita alla decisione del presidente Trump di abbassare l’aliquota nazionale sui redditi di impresa manifesta  l’intenzione e soprattutto ottiene il risultato di rendere di nuovo competitivi ed attrattivi gli Stati Uniti d’America grazie al combinato di due politiche fiscali, nazionale e dei singoli Stati della Federazione.

    Una politica che  in Europa viene da tempo ampiamente adottata dalla Gran Bretagna nella quale FcA ha stabilito la propria nuova sede fiscale ma anche dall’Irlanda, dall’Austria, dalla Slovenia ed ora anche dalla Croazia.

    Al di là ed al di qua dell’Atlantico, in altre parole, la leva fiscale (ma potremmo dire tutto l’approccio al rapporto tra il sistema fiscale e le imprese) viene utilizzata in chiave competitiva dalle autorità politiche che hanno compreso come  un mercato globale esponga anche i singoli stati (espressione di sistemi politici ed economici) alla concorrenza nella ricerca di investimenti produttivi. Logica conseguenza evidenzia come sia vitale ottimizzare il pacchetto che un paese intende offrire  con il combinato tra  sistema fiscale, qualità della pubblica amministrazione e dei servizi.

    Una strategia economica e fiscale che ha dato grandissimi risultati ottenuti con la riduzione delle aliquote su redditi di impresa dell’amministrazione Trump, vista la fuga per esempio della FcA dal Messico riportando la propria produzione di Pick Up all’interno degli Stati Uniti. Una tendenza confermata anche dai nuovi investimenti di Google a Londra, di Jp Morgan ed Apple sempre all’interno del perimetro statunitense.

    In Italia viceversa il governo Renzi ha introdotto l’aliquota fissa di 100.000 euro per tutte le persone con redditi  milionari affinché questi scelgano l’Italia come propria residenza fiscale. La logica di tale scelta (in modo alquanto imbarazzante) viene spiegata attraverso la convinzione che la presenza di queste persone dotate di una forte capacità di consumo possano, a caduta, offrire un miglioramento della qualità della vita per i contribuenti italiani.

    Il confronto tra le strategie economico fiscali italiana e statunitense ed europea relativamente all’utilizzo della leva fiscale dimostrano il livello culturale ed economico ed evidenziano  l’imbarazzante declino assoluto al quale è ormai e arrivato il nostro Paese, partendo dalla semplice analisi delle immediate ricadute che un’impresa che localizzi il proprio sito produttivo all’interno di un  territorio offra in termini di occupazione diretta ed indiretta rispetto ad un singolo milionario.

    A conferma di questo insostenibile, e ripeto, oltremodo imbarazzante confronto tra la politica fiscale  italiana rispetto a quella europea e statunitense basti ricordare che il nuovo calciatore della Juventus Ronaldo, al di là dell’ingaggio che percepirà (come lavoratore dipendente i contributi vanno pagati dalla Juventus), per gli altri circa 24 milioni aggiuntivi che percepirà dalle varie società contribuirà con 100.000 euro complessivamente a saldare ogni spettanza con il sistema tributario italiano, mentre per un  lavoratore come per un imprenditore la pressione media fiscale è del 43.2% mentre il Total Tax Rate va oltre il 62% .

    In perfetta continuità con la decisione del  governo Renzi infatti per le rendite finanziarie il governo Gentiloni  ha introdotto una flat Tax del 26% con la possibilità di compensare le minusvalenze (possibilità negata alle imprese in relazione ai crediti con la pubblica amministrazione): un’aliquota che favorisce le rendite  finanziarie oltre i 750.000 euro penalizzando ancora una volta i piccoli risparmiatori.

    Tornando quindi ai percettori di reddito  milionari, il sistema fiscale italiano applica aliquote che vanno dal 10% per un reddito di 1.000.000 al 0,4% per i probabili oltre 24 milioni di utili che le diverse società assicurano a Ronaldo.

    In altre parole, mentre all’estero si utilizza la leva fiscale per attrarre investimenti che producono occupazione diretta ed indiretta assieme a PIL aggiuntivo, in Italia i governi degli ultimi tre anni, Renzi e Gentiloni, hanno utilizzato questa leva fiscale per favorire le rendite finanziarie ed attrarre singoli percettori di redditi milionari. La differenza tra le due diverse strategie ed ovviamente obiettivi raggiunti viene certificata dai livelli di sviluppo economico.

    Al tempo stesso le due  politiche fiscali rappresentano la distinzione tra lo spessore culturale e le competenze economico-strategiche della nostra classe dirigente e politica i cui effetti risultano  ormai ampiamente verificabili.

    Il  nostro Paese nell’attuale situazione di declino economico si preoccupa di creare le condizioni ideali per un calciatore ma non per un’impresa che crei occupazione e Pil aggiuntivo.

    Una scelta…Una strategia…espressione inequivocabile del nostro declino culturale…

     

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