Tribunale

  • In attesa di Giustizia: contrappasso

    C’è qualcosa di allegorico, cabalistico, nella parabola professionale e di vita di Piercamillo Davigo che da magistrato del Pubblico Ministero aveva promesso di “rivoltare l’Italia come un calzino” magnificando lo standing dei suoi colleghi di funzione: “i magistrati sono il meglio della società civile ed i pubblici ministeri sono il meglio del meglio del meglio”, poi da giudicante aveva presieduto i Collegi di Corte d’Appello e di Cassazione  trasformandoli in altrettanti Comitati di Salute Pubblica; del resto, ipse dixit, non ci sono innocenti ma solo colpevoli che non sono ancora stati scoperti. Anche lui, viene ora da chiedersi?

    L’inesorabile trascorrere degli anni gli ha fatto terminare anzitempo la consiliatura al C.S.M. e da pensionato ha intrapreso quella di editorialista per un quotidiano giacobino che, nella versione cartacea, può essere destinato solo agli scopi meno nobili. Ma la parabola non si era ancora conclusa: l’ultima delle esperienze nel mondo della giustizia l’ha fatta in un ruolo che mai avrebbe immaginato, a stretto contatto – orrore! – con un avvocato cui ha affidato il compito di difenderlo smentendo se stesso a proposito del giudizio di appello, ritenuto superfluo e causa di malfunzione del sistema, ma che ha già preannunziato dopo la sua condanna.

    Quest’ultimo segmento di vita è stato scandito anche da correlazioni enigmaticamente realizzatesi: Davigo è stato rinviato a giudizio proprio nel giorno in cui ricorreva il trentennale dell’arresto di Mario Chiesa che diede inizio alla macelleria giudiziaria di “Mani Pulite” di cui è stato indiscusso protagonista e la sua sentenza di condanna è stata pronunciata mentre si celebrava la memoria di Silvio Berlusconi che, praticamente da solo, ha dato per decenni motivo di esistere alla Procura di Milano ed alla “casella delle lettere” messa a disposizione dal Corsera: se si vuole sapere il perché e gli si vuole dare credito, basta leggere il primo libro intervista di Luca Palamara con Sallusti.

    Torniamo a Brescia: il momento della lettura di una sentenza è un passaggio di grande solennità che si ascolta in piedi e le prime parole sono sempre “In nome del Popolo Italiano…” dando corpo al canone 101 della Costituzione; in nome di quel Popolo, a rappresentarlo durante la pronuncia di condanna, vi era anche Francesco Prete, che è il Procuratore Capo di Brescia, a fianco dei suoi sostituti che avevano condotto le indagini ed il dibattimento: un gesto volto a dimostrare che in quell’Ufficio ci si era mossi con iniziative condivise e probabilmente anche sofferte perché rivolte nei confronti di un ex collega.

    Francesco Prete, ai tempi di Mani Pulite, era un giovane P.M. in forza proprio a Milano e la sua stanza era vicina a quella di Davigo ma non ha mai fatto parte del famoso (o famigerato) pool: lavoratore, equilibrato, studioso, il suo tragitto professionale lo ha portato a dirigere tre Procure (Vasto, Velletri ed infine Brescia) senza mai cercare il “colpo di teatro”, l’inchiesta sensazionalistica che aiuta la carriera o – comunque – offre notorietà e non l’ha perseguita nemmeno ora che le regole di competenza per i processi ai magistrati assegnano a Brescia i procedimenti a carico di quelli milanesi e proprio la sua Procura di un tempo rivela l’esistenza di un verminaio di prassi opache, per usare un termine garbato, di cui si è sempre avuto il sospetto: Francesco Prete ha mantenuto un basso profilo con interviste ridotte al minimo, riserbo e parole misurate che dovrebbero essere patrimonio di chi svolge ruoli sensibili come il suo.

    Contrappasso anche in quest’ultima immagine che raffigura due uomini divenuti inaspettatamente avversari e due modi diversi di interpretare la funzione giurisdizionale mentre un comunicato della Giunta dell’Unione Camere Penali, senza (troppo) sarcasmo, auspica che nel futuro di Davigo, ora che ha scoperto il diritto all’appello, vi siano Giudici con una concezione delle impugnazioni diversa dalla sua.

    Ci mancava la solidarietà, obiettivamente un po’ di maniera, del nemico di sempre per trasformare in fiele il contenuto del calice già amarissimo toccato in sorte all’ultimo (speriamo) dei grandi inquisitori.

    Un augurio di buona sorte, nel rispetto della presunzione di innocenza non si nega a nessuno e lo formuliamo anche noi ma quello in cui è inscritta la parabola discendente di Piercamillo Davigo è come un arazzo che, attraverso ironie e contrappassi, sembra intessuto di una Giustizia quasi poetica.

  • In attesa di Giustizia: E tre!

    Per la terza settimana di fila questa rubrica si occupa di processi per gravissimi disastri in cui sono contestati reati colposi: e cosa ciò significhi, per il profano, si è tentato di spiegarlo con parole semplici proprio nel numero precedente. Questa volta è di scena il giudizio per crollo del Ponte Morandi con la cronaca – ed il commento – di una delle ultime udienze.

    Cronaca che staglia la distanza sempre più profonda che si va creando tra ciò che un processo penale dovrebbe essere, nel rispetto delle regole costituzionali ed ordinarie che lo istituiscono e lo governano, e ciò che si vorrebbe invece che diventi. E’ una cronaca che fa capire quale sia l’unica garanzia rispetto ad una montante deriva illiberale: e cioè l’indipendenza, la libertà morale e l’autorevolezza del Giudice.

    In aula vi è stata tensione altissima ed un durissimo botta e risposta tra la pubblica accusa ed il Tribunale, scaturita da una intemerata del P.M. il quale, azzardando un po’ di calcoli sul numero dei testimoni ancora da esaminare ed il ritmo delle udienze, prevede che l’istruttoria dibattimentale possa concludersi non prima del dicembre 2025, quando “alcuni dei reati più gravi” potrebbero essere già prescritti, sollecitando perciò un aumento del ritmo di celebrazione del processo, cambio di passo: un boccone ghiotto su cui la stampa si  è buttata a pesce, gridando a giustizia negata, alla prescrizione strumento di salvezza dei ricchi e dei potenti, eccetera. Il Presidente del Collegio si limita a giudicare troppo allarmistiche le previsioni del P.M. ma la mattina successiva ritorna sulla questione e definisce quello del PM un “proclama offensivo nei confronti del Tribunale” (che ha sospeso la trattazione di gran parte degli altri processi, per celebrare questo), e tocca il punto, che in questa, come in altre analoghe vicende processuali, viene sistematicamente ignorato. Se si ha a cuore l’aspettativa di una tempestiva risposta giudiziaria ad una simile tragedia “magari bisognava effettuare scelte processuali diverse e non contestare, ad esempio, un milione di falsi che devono essere accertati uno per uno” e conclude: “Se poi in quest’aula c’è qualcuno che ritiene che le sentenze si facciano senza processo, sbaglia”.

    Non può sfuggire il valore di questo accadimento, che va ben oltre la singola vicenda processuale, la quale ha peraltro tutti i crismi della parabola. Gli ingredienti ci sono tutti: processo di enorme impatto mediatico, aspettativa di condanne esemplari, diritti delle vittime dei reati rappresentati come incondizionatamente prevalenti sui diritti di difesa e sulla presunzione di non colpevolezza. Sullo sfondo, la fosca ed un po’ prematura previsione di una prescrizione salvifica. Sono già pronti i forconi, insomma. Ma ecco, diciamoci la verità, inatteso, un Giudice che – pur in un processo ad altissima esposizione mediatica – fa, imperterrito, il Giudice e sposta l’asse di quella lamentela del PM, come sempre occorrerebbe fare ma nessuno mai fa. Cominciamo a ragionare piuttosto – dice – su quanto siano durate le indagini, e se le scelte operate dalla Procura nell’esercizio dell’azione penale abbiano considerato la dimensione e l’impatto dell’accusa anche sui tempi del conseguente processo. Se si individuano 60 imputati e decine e decine di imputazioni, protraendo le indagini per anni, poi non si pretenda che gli imputati non si difendano con tutta la pienezza dei propri diritti. Ma è la seconda affermazione che merita ancora più ammirazione: questo Tribunale non è disposto a pronunciare sentenze senza processo. Nessuno si illuda – sostiene quel Giudice – di fare pressioni indebite, paventando populisticamente scenari drammatici che si vorrebbe addossare, alla fin fine, alla responsabilità del Tribunale da un lato, e del diritto di difesa degli imputati dall’altro. Parole dure che danno la esatta dimensione della solennità di ciò che il Giudice può e deve saper rappresentare nel giudizio penale, della indispensabilità della sua indipendenza da ogni forma di condizionamento, da ogni riflesso conformistico, da ogni sudditanza nei confronti di tutte le parti processuali. Ciò che, peraltro, deriva in termini di disillusone per chi è in attesa di giustizia è quando un accadimento come questo ci appare come una notizia straordinaria, quando invece dovrebbe essere una noiosa e scontata ovvietà. Ma il destino delle parabole è proprio questo: farti comprendere, quasi raccontandoti una favola, l’amara durezza della realtà nella quale ti trovi a vivere.

  • In attesa di Giustizia: (in)giustizia sportiva

    Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me…i giudici sportivi devono essere dei cultori  della Critica della Ragion Pratica per essere riusciti a condannare la Juventus ad una pena che, per l’illecito  che le è stato attribuito non esiste: un po’ quello che successe a Norimberga, allorquando i gerarchi nazisti furono processati per “crimini contro l’umanità”, delitto che, in sé e per sé non era contemplato da nessuna norma giuridica sebbene attenesse alla legge morale; ma, insomma, quella era Norimberga e il Tribunale finì per darne una definizione aggiungendo l’omicidio, lo sterminio di massa, la persecuzione su base razziale, politica o religiosa.

    In sintesi, e per avviare la riflessione, sono stati inflitti alla Juventus quindici punti di penalizzazione senza che sia stato formalizzato uno specifico illecito sportivo connesso al tema delle plusvalenze e la motivazione della sentenza altro non fa che confermare un clima di giustizialismo diffuso che è andato a toccare anche il settore sportivo.

    Il provvedimento dice, senza spiegarsi oltre, che è vero: la norma che si assume violata nel capo di imputazione non c’è ma i documenti arrivati dalla Procura di Torino (relativi ad un processo ancora da celebrarsi ed in cui verificare la fondatezza dell’accusa…) sembrano descrivere – in ogni caso – una realtà fatta  di imbrogli. Ed ecco che l’insulto alla legge morale supplisce alla mancanza di una contestazione scritta.

    Formalismi avvocateschi? Nossignori: ai bianconeri è stato ascritta l’inosservanza dei doveri di lealtà e probità sportiva: definizione un po’ generica se l’addebito viene mosso senza specificare in cosa siano consistiti e…si badi bene: stiamo parlando, e non ve n’è dubbio, di alterazione di scritture contabili.   Secondo il codice sportivo, per  arrivare ad una penalizzazione si sarebbe dovuto sostenere, e possibilmente dimostrare con delle perizie, che quei falsi erano intesi a dissimulare una situazione di insolvenza risalente al 2020 che avrebbe impedito alla Juve di iscriversi al campionato  successivo.

    L’ipotesi è  fantasiosa prima ancora che totalmente inesplorata: comunque sia, in mancanza di imputazione  e  di prove a supporto, la sanzione non avrebbe dovuto essere la penalizzazione in classifica ma una multa, salata ma pur sempre sopportabile dalla famiglia Agnelli.

    Anche in questa sede un ruolo decisivo lo hanno svolto le intercettazioni telefoniche, ovviamente fatte nell’indagine penale e trasferite al giudice sportivo senza che siano state ancora periziate (cioè verificato, come prevede la legge, che ciò che è stato manoscritto dagli agenti addetti all’ascolto corrisponda a ciò che è stato effettivamente detto e registrato). E’, a questo punto, inutile rilevare che il giusto processo per le società sportive è un traguardo ancora lontano da raggiungere e che la motivazione della sentenza di condanna della Juventus assomiglia di più ad una supercazzola che ad un funambolismo giuridico: certamente non a quella che dovrebbe essere la sostanza di un provvedimento reso al termine di un giudizio serio.

    Lo sport è qualcosa che appartiene alla vita di tutti noi e di tutti i giorni: per alcuni è una passione, un hobby, per molti altri è un lavoro da atleta o da dirigente e la pretesa che disponga di un ordinamento giuridico che non emuli il codice penale su base analogica dei tempi dell’URSS e sia affidato a giudici competenti non è fuor di luogo.

    Può darsi che questa rubrica torni in argomento e la questione  potrebbe essere meno stucchevole di un commento all’affaire Cospito: carcere duro o no per  un gentiluomo d’altri tempi ritenuto responsabile di aver piazzato due ordigni, di cui uno ad alto potenziale nell’assalto ad una Scuola Allievi dei Carabinieri?

    In attesa di Giustizia sportiva per ora è tutto, a voi studio centrale.

     

  • In attesa di Giustizia: non scrutate nell’abisso

    Chi lotta con i mostri deve guardarsi di non diventare, così facendo, un mostro. E se tu scruterai a lungo un abisso anche l’abisso scruterà dentro di te. Così scriveva Friedrich Nietzsche nel saggio filosofico “Al di là del bene e del male”

    E’ quello che deve  essere accaduto alla Ministra Marta Cartabia ed ai componenti delle sue Commissioni di studio quando hanno riguardato  – di necessità virtù – il sistema giudiziario italiano ponendovi mano per riformarlo: dallo sprofondo in cui giaceva (e giace tutt’ora)  uno stregonesco maleficio deve avere infettato le menti degli estensori della riforma lasciando inascoltate le voci di studiosi del processo del rango di Paolo Ferrua e Giorgio Spangher – solo per citarne un paio – che hanno da subito ammonito sulla necessità di più che un ripensamento.

    Niente da fare: avanti tutta con due progetti, perché si è intervenuti sia sul processo penale che su quello civile, destinati più che ad un banale fallimento ad accelerare il decesso e la decomposizione di un apparato disfunzionale ed agonizzante da decenni.

    La corsa era contro il tempo per il conseguimento entro fine anno dei fondi del PNRR di cui le esauste casse dello Stato hanno costantemente un bisogno estremo: e allora poco importa se gli Uffici Giudiziari hanno strutture inadeguate ad affrontare le novità, meno ancora se queste ultime presentano profili di autentica schizofrenia come nel caso della pezza messa all’obbrobrio della riforma della prescrizione sostanziale, voluta da quei raffinato giurista che risponde al nome di Alfonso Bonafede, che non è stata abrogata ma continuerà a convivere, almeno per un po’, con quella processuale.

    E non è tutto: da quest’anno avremo anche pene semi detentive per scontare le quali mancano le apposite sezioni penitenziarie e per realizzare le quali – come al solito – non ci sono né i soldi né il tempo.

    Il processo di appello è diventato (nelle ridotte ipotesi in cui si potrà celebrare) una burletta ma in compenso ed in molti casi, anche per reati di un certo rilievo, non avrà luogo neppure ad un giudizio essendo state cambiate alcune regole perché l’azione penale possa essere avviata. Il tutto, rigorosamente, senza la predisposizione di norme transitorie.

    Ah, già: le norme transitorie. Un tempo si diceva che la loro redazione fosse riservata ai giuristi migliori perché regolare il diritto intertemporale  non è  affar semplice dovendosi  bilanciare esigenze e garanzie tra un regime pregresso ed uno innovativo senza creare pregiudizi ai cittadini: ebbene, nella riforma “Cartabia” o non vi sono o sono semplicemente incomprensibili e già oggi, ad una settimana dalla entrata in vigore e tanto per fare un solo esempio, ci si confronta con il desolato stupore di cancellieri che non sanno se devono ricevere un atto manualmente o se deve essere spedito via pec.

    L’elenco potrebbe essere lungo ed i dettagli dello scempio difficili da illustrare perché a volte anche il giurista si interroga se stia leggendo un testo di legge o un numero speciale della Settimana Enigmistica.

    Questo, in sintesi, è quanto è riuscito a partorire in tema di giustizia il cosiddetto Governo dei Migliori: figuriamoci se fossero stati anche solo modesti e non i peggiori.

    Complimenti vivissimi, infine, anche alla Commissione Europea che, dopo qualche iniziale e timida critica al progetto di riforma, gli ha dato in ogni caso il via libera invece che affossarlo; salvo, poi, nella relazione annuale 2022 sullo Stato di diritto e nel capitolo dedicato all’Italia esprimere critiche durissime affermando che con perle normative di questo tipo si mette a rischio l’effettività stessa del sistema giudiziario.

    Nel frattempo, però, è stato tagliato il traguardo di fine anno vittoriosamente conquistando il premio in fondi europei ed  il futuro della giustizia è già iniziato presentandosi a mani vuote.

  • In attesa di giustizia

    C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, anzi d’antico…ed è la speranza che qualcosa cambi davvero nel desolante scenario del sistema giustizia nostrano perché se Giorgia Meloni riceverà l’incarico di formare il Governo, come sembra ormai altamente probabile, proporrà Carlo Nordio quale Ministro della Giustizia.

    L’uomo – che per la verità, preferirebbe un posto nella Commissione Giustizia della Camera – è una garanzia assoluta: preparatissimo, colto, garantista, liberale. Posso dirlo perché lo conosco da una quarantina d’anni: con Carlo Nordio come magistrato ho avuto a che fare una volta sola, quando ci conoscemmo, poi abbiamo coltivato un rapporto crescente di stima ed amicizia attraverso esperienze condivise partecipando da relatori a numerosissimi convegni e seminari e lavorando fianco a fianco nella Commissione Ministeriale (2001-2006) da lui presieduta con il compito di proporre un progetto di riforma del Codice Penale; a Carlo Nordio devo anche la prefazione ad un mio manuale sulla legittima difesa ed in cambio io ho presentato un suo libro, o meglio un’intervista a due voci trasposta in un libro che si intitola “In attesa di Giustizia, dialogo sulle riforme possibili” e che – non a caso – ha dato il nome a questa rubrica e lo spunto per l’articolo di questa settimana.

    “In attesa di Giustizia” raccoglie le opinioni, il pensiero, le idee di riforma del sistema penale di Carlo Nordio – appunto – Magistrato del Pubblico Ministero di impostazione tradizionalmente liberale e mai (fino ad ora, che però è in pensione da cinque anni) lasciatosi affascinare dalla politica e d Giuliano Pisapia, avvocato difensore molto vicino a Rifondazione Comunista, più volte parlamentare e Sindaco di Milano: i due sono molto legati e la lettura di quel libro, a carattere divulgativo e non squisitamente tecnico, consente di verificare come la Giustizia non debba avere e non abbia appartenenze ideologiche preconcette o colorazioni partitiche come dimostra il pensiero in grande misura sovrapponibile di due operatori del diritto di altissimo profilo, che nella vita professionale oltre che nel sentire politico sono agli antipodi.

    Del resto, basta scorrere la nostra eccellente Costituzione per averne la prova verificando la impeccabile confluenza della ideologia cattolico-liberale con quella marxista che condividono con quella hegeliano-gentiliana il tratto comune della subalternità assiologica della persona rispetto ai valori superiori di Dio e dello Stato Sociale. E i Padri Costituenti erano giuristi di ineguagliabile spessore.

    L’auspicio è, dunque, che una personalità di elevata statura come Carlo Nordio possa assurgere ad un ruolo che gli consenta di dare spunto e vita a quelle riforme che ha sempre caldeggiato, frutto di profonda riflessione ed esperienza quotidiana nelle aule di Tribunale.

    La  prospettiva è ottima sebbene appaia motivo di ambascia per qualcuno: Fofò Bonafede – naturalmente intervistato da Travaglio – ha mostrato sconsolata preoccupazione che la maggioranza di centro destra abolisca le leggi promulgate durante la sua (incomprensibile in un paese civile) presenza in via Arenula; già che c’era ha criticato proprio Nordio per la posizione mostrata su alcuni argomenti di diritto penale e processuale, Nordio che, ovviamente, non si preso neppure la briga di rispondere a quello che è stato il peggior Ministro della Giustizia da quando la carta ha perso il posto del papiro.

    Vedremo cosa succederà al Quirinale e dintorni nei prossimi giorni ma, per una volta, possiamo dire che siamo davvero in attesa di Giustizia.

  • In attesa di Giustizia: finché c’è Cuno c’è speranza

    Cuno Tarfusser, classe 1954, meranese: è un Magistrato che ha iniziato la sua carriera come avvocato (il che, forse, spiega molte cose…) e dal 1985 l’ha proseguita come Sostituto Procuratore della Repubblica a Bolzano dove nel 2001 è divenuto Procuratore Capo. In quella veste ha diminuito i costi ed aumentato l’efficienza dell’Ufficio tagliando le spese per le intercettazioni e ottenendo fondi europei per assicurare la liquidità necessaria al funzionamento ottimale della Procura che lo Stato non gli garantiva; la sua gestione è stata presa come modello…parrebbe non seguito da molti.

    Nel 2009 è stato eletto giudice della Corte Penale Internazionale, su proposta del Governo Italiano,  e dopo una dozzina d’anni circa passati a L’Aja, ora è Sostituto Procuratore Generale a Milano.

    Cuno Tarfusser è l’arkè socratico del Magistrato, è uno di quelli che offrono conforto alle speranze di chi è in attesa di Giustizia e a chi – giustamente – pensa che non tutti sono come Piercamillo Davigo o i compagni di merende dell’Hotel Champagne le cui gesta sono state svelate da Luca Palamara: anzi, è uno che si è detto onorato perché il C.S.M. lo ha escluso dalla “corsa” al ruolo di Procuratore Capo di Milano perché definito un “eretico” (in realtà perché non inserito in alcuna corrente).

    Da quando è a Milano, sia pure in un ruolo diverso, ha fatto molto parlare di sé anche se quasi solo negli ambienti giudiziari: al di fuori se ne sa poco, ma vediamo di riassumere con qualche esempio cosa è stato in grado di fare ultimamente contribuendo a ridare credibilità ad un Ordine Giudiziario in totale dissesto.

    Tarfusser è colui che – nel 2021 – era talmente convinto della innocenza di alcuni imputati per traffico di farmaci avariati (condannati in Tribunale a pene pesantissime) che ne chiese lui stesso l’assoluzione quando il processo giunse in Appello e contro la sentenza di conferma della Corte propose anch’egli ricorso per Cassazione allineandosi alla difesa: cosa assolutamente inusuale ma che dovrebbe essere una regola se si vuole essere organo di giustizia e non un inquisitore vincolato al ruolo a prescindere. E la sentenza è stata annullata dalla Suprema Corte come chiedeva Tarfusser.

    Nel mese di agosto sempre del 2021 fu mandato per un brevissimo periodo a Lecco in veste di Procuratore Capo facente funzioni: il C.S.M. infatti tardava a nominare il nuovo vertice dell’Ufficio ed al termine del suo incarico scrisse una durissima lettera indirizzata proprio al Consiglio Superiore ed inoltrata tramite il Procuratore Generale di Milano: un “addio ai monti” che fotografava lo stato di abbandono di quell’Ufficio Giudiziario definito in  “una situazione desolante… nel disinteresse di chi dovrebbe ovviarvi…paradigmatica del fallimento del cosiddetto autogoverno della magistratura: un organismo del tutto incapace di gestire in modo anche solo decente i suoi amministrati in modo da metterli in grado di garantire un servizio giustizia degno di questo nome”. In undici punti elenca, poi, tutte le manchevolezze registrate durante la sua permanenza a Lecco concludendo con un ringraziamento a tutti coloro che con lui hanno collaborato affrontando difficoltà di ogni genere nel rispetto e considerazione che si devono ai cittadini. Poi è inutile chiedersi perché al C.S.M. non è particolarmente amato.

    Pochi giorni fa è intervenuto in merito al programmato sciopero proclamato dalla Associazione nazionale magistrati per protestare contro le riforme della Ministra Cartabia (che, pure, dice non piacergli particolarmente) definendolo “sovversivo” perché è la protesta di chi esercita un potere dello Stato contro un altro potere dello Stato.

    Afferma ancora che “è come se in vista di un processo che non sta procedendo verso l’esito atteso, il Governo o il Parlamento decidessero di scioperare contro la magistratura” e conclude considerando anche che “le modalità con cui oggi i magistrati si autovalutano non so se sono più ridicole o vergognose”.

    Finchè c’è Cuno c’è speranza, quindi: e come lui ve ne sono molti altri, è giusto dirlo e che si sappia: altri che – magari – hanno l’unico difetto di non essere iscritti alla corrente giusta, o alla Loggia Ungheria o, comunque, di non avere potenti padrini (o padroni).

  • In attesa di Giustizia: Odeon, tutto quanto fa spettacolo

    S’ode a destra uno squillo di tromba, a sinistra risponde uno squillo…quella tra uffici giudiziari è una tenzone che sembra non conoscere tregua nell’offrire uno spettacolo desolante.

    La settimana scorsa, in questa rubrica, abbiamo commentato talune, purtroppo tradizionali, inefficienze, questa volta, con una cronaca sintetizzata, ai lettori sarà offerto, selezionato fior da fiore, qualcosa di peggio tra le ultime notizie. Perché al peggio non c’è limite.

    Sia ben chiaro, innanzitutto, che non spetta alla Lombardia, con la decaduta Procura di Milano, il triste primato di magistrati inquisiti: da qualche tempo glielo contende la Puglia dove ben quattro sono stati arrestati, ed alcuni anche già ritenuti responsabili di reati infamanti.

    L’ultimo, in ordine di apparizione, è Giuseppe De Benedictis (ex Giudice per le Indagini Preliminari di Bari non nuovo a guai giudiziari) che è stato condannato a nove anni e nove mesi di reclusione in sede di giudizio abbreviato: il che significa che, senza la riduzione della pena prevista per chi sceglie quel rito, staremmo parlando di una sentenza vicina ai quindici anni di carcere.

    Corruzione: in ipotesi di accusa (sostenuta anche dal contenuto di intercettazioni ambientali) il signor giudice, molto semplicemente, “vendeva” arresti domiciliari e libertà al miglior offerente ed in particolare ad un avvocato di Bari, Giancarlo Chiariello, anch’egli sanzionato in egual misura.

    C’è invece chi in galera ci va ingiustamente ed il legislatore è dovuto di intervenire con una legge, recentemente e finalmente applicata, a chiarire che il risarcimento per una carcerazione ingiustificata spetta anche ha scelto di avvalersi della facoltà di non rispondere.

    Questa opportunità, per quanto sancita dalla Costituzione, è stata a lungo strumentalizzata con bizantine giustificazioni per non riconoscere neanche un euro di ristoro. Uno dei Distretti di Corte d’Appello che anche prima della riforma ha dovuto  riconoscere il maggior numero di riparazioni per ingiusta detenzione è quello di Catanzaro: per fare un esempio, nel 2018 furono 182, il doppio rispetto a Roma, mentre a Bolzano ce ne fu una sola. Sarà una fortuita combinazione ma è il territorio in cui Nicola Gratteri fa fioccare le ordinanze di cattura salvo poi vedersele annullare “a mazzi da dodici”.

    A Potenza, invece, accadono altre cose quantomeno stravaganti: c’è un Pubblico Ministero che, sospettando – non si sa bene in base a cosa – che sia falso un certificato medico spedito da un avvocato per giustificare l’impossibilità a partecipare ad un’udienza determinandone il rinvio, manda successivamente le Forze dell’Ordine insieme ad un medico per sottoporlo ad accertamenti, a tentare una sorta di maldestra perquisizione in studio e lo indaga; nemmeno questo è dato sapere a quale titolo: il Tribunale aveva già ritenuto legittimo l’impedimento a comparire

    Il commento a margine è uno solo: se fossimo un paese civile questo magistrato andrebbe rapidamente buttato fuori a calci dall’Ordine Giudiziario e la stanza da lui occupata purificata con la calce viva e con il fuoco prima di assegnarla a qualcun altro.

    A Potenza, invece che dilettarsi con manifestazioni muscolari da Repubblica delle Banane, dovrebbero  studiare di più sia i P.M. che i Giudici.

    In quattro diversi  – omettiamo i nomi per carità cristiana – non sono riusciti a capire una cosa che (con l’eccezione sicura di Alfonso Bonafede)  sanno gli studenti del primo anno di giurisprudenza: che le persone giuridiche – cioè le aziende – sono una cosa diversa dalle persone fisiche, cioè gli esseri umani.

    Non stiamo parlando di scienza missilistica ma in quattro, tra giudici e pubblici ministeri, hanno impiegato cinque anni per dare la risposta sbagliata: se un procedimento in base alla legge sulla responsabilità, appunto, delle persone giuridiche si dovesse fare a carico di un Consorzio (risposta esatta) o del suo Presidente, morto nel frattempo di covid (risposta sbagliata). Gli svarioni assommati in questa indagine sono anche molti altri ma questo è grossolano al punto da far credere di essere su Scherzi a Parte: la legge di riferimento è del 2001 e in ventun anni c’è persino chi completa un corso di studi e si laurea: a Potenza non sono riusciti a studiare decentemente una legge prima di tentare, malamente, di applicarla.

    Tuttavia, un futuro questo quartetto lo ha in ogni caso: se candidati con i Cinque Stelle potrebbero senz’altro  aspirare al Ministero di via Arenula.

    Negli anni Ottanta c’era una deliziosa trasmissione televisiva sulla RAI: “Odeon, tutto quanto fa spettacolo”, un misto tra Paperissima e Lo Show dei Record e come si vede anche nel settore della Giustizia lo spettacolo non manca mai ma è indecente.

  • In attesa di Giustizia: Venerdì Santo

    Siamo, è vero, in periodo di Quaresima ma per talune amministrazioni dello Stato, il venerdì è sempre da santificare come a Pasqua.

    Prendiamone uno qualsiasi, a caso: 25 marzo, una tiepida giornata di primavera più che mai suggestiva per una gita fuori porta, una boccata d’aria buona senza mascherina che, al chiuso, invece è ancora d’obbligo.

    Ecco allora che si può assistere alla desertificazione dei Palazzi di Giustizia; anche in questo caso prendiamone uno a campione, ma che sia un campione significativo: il tribunale penale di Roma, per esempio, che è il più grande d’Europa con dieci sezioni, più di cento magistrati addetti, e personale delle cancellerie in numero imprecisabile ma almeno il quadruplo. Sono tanti, poverelli, e si farà fatica a pagarli ad aprile con la eliminazione temporanea delle accise sulla benzina per finanziare le guerre Puniche; giusto, quindi che si prendano un po’ di meritato riposo. C’è anche il caso che tutto ciò sia dovuto all’apprezzabile intenzione di meglio garantire l’integrazione di migranti di fede musulmana, mostrando loro che anche da noi il venerdì è di festa.

    Roma, per intenderci, è la sede giudiziaria nella quale solo durante il primo lockdown, quello tosto di inizio pandemia, in un paio di mesi si è assistito al rinvio di oltre 25.000 processi. Ma venerdì 25 marzo c’era il sole e la situazione (con la pioggia, probabilmente, nulla sarebbe cambiato) proponeva quindici aule rigorosamente sbarrate: altre decine di processi che non si faranno mai…salvo poi sostenere che è colpa degli avvocati che si inventano ogni possibile nequizia per ritardarli e fare prescrivere i reati.

    Reati che, con la geniale riforma del buffo Guardasigilli del Governo grillino, potrebbero non prescriversi mai: e, allora, perché celebrarli? Tanto c’è tempo e c’è il sole di primavera.

    Il Paese reale, tuttavia, offre anche esempi di implacabile dedizione al lavoro anche durante il week end, mostrando insensibilità assoluta alle lusinghe del clima mite. Prendiamo un altro esempio a caso: Pavia.

    Solerti servitori dello Stato, infatti, hanno notificato ai difensori la citazione a giudizio di un morto: Lazzaro, alzati e cammina, senza fretta mi raccomando, tanto l’udienza sarà a febbraio 2023.

    E, si badi bene, il morto non è uno qualsiasi, ma un morto piuttosto famoso proprio a Pavia: Youns El Boussettaoui, ucciso il 20 luglio scorso a Voghera durante una misteriosa colluttazione con l’assessore Massimo Adriatici…misteriosa anche perché il Pubblico Ministero non voleva mettere a disposizione degli avvocati della famiglia della vittima i filmati delle telecamere di sorveglianza che, per ottenerle, si sono dovuti rivolgere al Giudice per le Indagini Preliminari che ne ha ordinato la consegna: e poco ci è mancato che dovessero intervenire i Carabinieri perché il Pubblico Ministero non voleva proprio mollare la presa su quelle riprese nemmeno di fronte a un provvedimento giudiziario.

    Cosa ci sarà mai in fotogrammi così gelosamente custoditi? Forse lo sapremo quando si farà il processo. Certo…se mai si farà, se il buon Dio, in attesa di Giustizia ci avrà conservato in questo mondo.

  • Achtung, binational babies: I segreti dello psicologo e le menzogne teutoniche

    La settimana scorsa abbiamo spiegato come in Germania nelle separazioni binazionali vengono usati alternativamente alcuni stratagemmi, a seconda che la madre o il padre sia il genitore italiano e straniero in genere (qui). In questo articolo desideriamo mostrare come anche l’ascolto del minore non sia un elemento che assicura l’imparzialità delle decisione, o meglio il raggiungimento di quella che dovrebbe essere la finalità nei procedimenti familiari, l’interesse superiore del bambino. L’ascolto, così come avviene in Germania, è un ulteriore strumento di quel sistema per allontanare il bambino dal suo genitore non tedesco. Attenzione dunque ad avvocati e psicologi italiani che pensano di potervi dare dei consigli in questo ambito, potrebbero mettervi in ulteriori difficoltà perché la prassi italiana è completamente diversa. Analizziamo il caso di una perizia disposta dal tribunale. In Italia, oltre al perito nominato dal giudice (CTU o Consulente Tecnico d’Ufficio), è permesso alle parti di nominare ognuna un consulente appunto detto di parte (CTP o Consulente Tecnico di Parte). Il bambino incontrerà i tre consulenti che potranno tra di loro interagire, suggerendo anche le domande da porre. Gli incontri vengono registrati (audio o video) e saranno a disposizione delle parti. In Germania la figura del Consulente di Parte non è prevista, mentre le registrazioni audio e video sono, nella maggior parte dei casi vietate, e comunque mai accessibili alle parti.

    Alleghiamo a riprova la risposta di un perito forense, nominato dal tribunale, che testualmente dice al genitore che chiede tali documenti: “Con riferimento al suo fax del 3 marzo 2020, desidero precisare quanto segue: Come già informato con mia lettera del 16 ottobre 2019, tutti i documenti relativi al suo caso familiare sono già stati distrutti – comprese le registrazioni video e audio.

    Pertanto non possono essere consegnati. Inoltre ogni professionista renderebbe tali registrazioni disponibili solo al tribunale in quanto committente, ma non alle parti coinvolte.

    I dati personali dei suoi figli sono stati trattati nel corso della perizia – lei aveva segnalato il suo consenso a questo proposito. Dopo la conclusione del procedimento peritale, come già detto, i dati sono stati cancellati e non sono stati raccolti altri dati.

    Cordiali saluti (segue timbro e firma)” – Il documento è l’immagine che pubblichiamo:

    In questo modo, con perizie e audizioni completamente segrete e praticamente sempre arbitrarie, si può dare parvenza di legalità a qualsiasi decisione. Se non è possibile motivare la decisione di allontanamento con la nazionalità del genitore è invece estremamente agevole costruire motivazioni apparenti manipolando il bambino con domande suggestive, o addirittura – caso per nulla raro – completare a piacimento le risposte del bambino. Poiché non esiste neppure la trascrizione di quanto è stato chiesto e risposto e solo un riassunto compare nel fascicolo (il riassunto esiste solo se l’audizione è fatta dal giudice stesso e non da un perito) è facile comprendere come, nel riassumere, si possa modificare il senso di ogni affermazione.

    Anche per questo non si può parlare in Germania di “interesse superiore del bambino” (in tedesco, beste Interesse des Kindes) così come tutelato dalle convenzioni internazionali, ma esclusivamente di bene della comunità dei tedeschi attraverso il bambino, ciò che nei documenti tedeschi viene indicato come Kindeswohl. Chiunque sia passato per un tribunale di famiglia tedesco potrà ritrovare questa parola nei suoi documenti, purtroppo quasi sempre tradotta erroneamente in italiano.

    Membro della European Press Federation
    Responsabile nazionale dello Sportello Jugendamt, Associazione C.S.IN. Onlus – Roma
    Membro dell’Associazione European Children Aid (ECA) – Svizzera
    Membro dell’Associazione Enfants Otages – Francia

  • In attesa di Giustizia: a che punto è la notte

    La Corte Costituzionale si è pronunciata sulla ammissibilità dei referendum di iniziativa popolare: degli otto quesiti, tutti in materia di giustizia,  cinque sono stati ammessi e i tre che non hanno superato il vaglio sono relativi alla responsabilità civile dei magistrati, la liberalizzazione dell’uso delle droghe leggere e l’eutanasia.

    Al deposito delle motivazioni il ragionamento seguito sarà chiaro e, ovviamente, in linea con la struttura della nostra Costituzione che guida le decisioni della Corte…magari con un aiutino in termini di  interpretazione in determinati casi. E valga il vero: in un Paese con radicata tradizione cattolica le problematiche di fine vita sono ancora un tabù non meno che l’uso di cannabis e marijuana anche se sono in vendita, blandamente regolamentata, intrugli alcoolici di cui viene fatto largo uso e che per la salute sono altrettanto – se non ancora più – dannosi. Per non parlare della responsabilità dei magistrati.

    Se pure si terranno – in alternativa vi è un intervento legislativo-correttivo del Parlamento sulle materie oggetto di  referendum – le consultazioni popolari residue non sembra, tuttavia, che avranno la capacità di immutare significativamente il quadro anche perché, a seguire, sarà data nuovamente la parola alle Camere per gli “aggiustamenti” del caso: e qui, con un legislatore che definire sciatto ed approssimativo è ancora eufemistico, non c’è molto da sperare.

    Un segnale, tuttavia, c’è stato e non è da sottovalutare e riguarda – almeno apparentemente – il superamento da una parte dei cittadini di quella populistica affezione ai giudici vendicatori.

    Proprio nei giorni del trentennale di “Mani Pulite”, la coincidenza appare sintomatica.

    In effetti, grandi celebrazioni per questa ricorrenza non ve ne sono state: tra i protagonisti superstiti, in larga misura silenti o silenziati, ha fatto notizia Piercamillo Davigo perché è stato rinviato a giudizio per la vicenda legata alla propalazione di verbali secretati della Procura di Milano ricevuti con modalità opache dal P.M. Storari il quale, nel medesimo processo, ha chiesto di essere giudicato con rito abbreviato e per il quale è già stata chiesta la condanna.

    Il popolo italiano questa volta non è sceso in strada a commemorare l’evento con deliranti striscioni (all’epoca, in più in voga, recavano scritto: “Di Pietro, Davigo, Borrelli, fateci sognare”): troppo in basso è precipitata la credibilità di quella magistratura che ha dato l’avvio alla notte della Repubblica; con micidiale tempismo – cui non sono estranee ragioni di marketing editoriale – sono usciti in sequenza il secondo libro a firma Sallusti/Palamara e “Giustizia ultimo atto: da Tangentopoli al crollo della magistratura” di Carlo Nordio.

    Qualcuno, poi, di tanto in tanto torna ad auspicare, come vera ed incidente riforma della Giustizia, il diritto dei cittadini stessi di giudicare il proprio concittadino dotandosi di giurie popolari di stampo anglosassone che – a loro volta – affondano le radici in quelle previste dal diritto romano e  che potevano decidere, ad esempio, sulle accuse di malversazioni dei governatori provinciali, entro il Comitium, con dei  processi comiziali; ma, Il trial by jury  (perdonate: il latino, purtroppo, sta diventando desueto) può essere davvero il  rimedio alla tirannide dei Giudici di professione?

    Francamente vi è da dubitarne: se qualche segnale di ripresa della coscienza civile si annota, troppo diffuso è ancora il populismo giustizialista anche in settori culturalmente evoluti della società. Provate a immaginare l’equilibrio una giuria popolare in cui, facilmente, confluirebbero abbonati de Il Fatto Quotidiano, elettori dell’indimenticato Fofò Bonafede Ministro senza portafoglio della ilarità fuor di luogo, adoratori del pensiero unico “alla Gratteri”. Tanto per citarne alcuni.

    Qualcosa, forse, si muove per le riforme ma bisognerà misurarne la qualità: per ora ci si può solo domandare a che punto è la notte.

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