Tribunale

  • In attesa di Giustizia: tutto il mondo è paese

    Nella vicina Francia sta divampando un’accesa polemica tra il Ministro della Giustizia, Dupond Moretti, e l’U.S.M. che è il più importante sindacato di categoria dei Magistrati;  come dire, l’equivalente della nostra equilibrata A.N.M. Motivo? Un presunto conflitto di interessi: accade nientemeno che Dupond Moretti – nell’ambito di un più ampio progetto di riforma del sistema giudiziario – abbia proposto all’Assemblea Nazionale una disciplina a maggiore protezione degli avvocati e…Dupond Moretti è un avvocato penalista.

    Il Guardasigilli francese, in realtà, si è speso in favore non tanto della categoria quanto del diritto di difesa affermando (cosa ovvia che non dovrebbe scandalizzare nessuno) che gli studi legali sono luoghi sacri e non può esistere difesa adeguata senza segreto professionale: tanto è bastato per fare insorgere i magistrati che sostengono la malafede di un Ministro che lavorerebbe nell’interesse dei suoi amici e colleghi.

    Dupond Moretti si è limitato a ribattere che il suo intervento è volto a riaffermare, e non a torto visti i precedenti, lo Stato di diritto contro metodi da spie.

    Tutto il mondo è paese: veti incrociati e compromessi porteranno a delle modifiche della riforma nel suo insieme ma nel frattempo l’Assemblea, con voto bipartisan, ha approvato un emendamento che rafforza comunque la tutela del segreto professionale e si aspetta – da qui ad un paio di settimane – il voto del Senato.

    Basta quindi intercettazioni selvagge, perquisizioni e sequestri senza garanzie negli studi legali e intrusioni con ogni metodo nel rapporto confidenziale avvocato/cliente.

    Non è esattamente motivo di consolazione, ma in Francia sono successe cose che voi umani non potete neppure immaginare e che da noi, con grande scorno di Davigo e dei suoi claquers, non sono possibili mentre Oltralpe risultano ampiamente legittime: emblematico il caso giudiziario che ha coinvolto l’ex Presidente Sarkozy, condannato insieme al suo storico difensore grazie ad intercettazioni illegali – e poi ammesse in giudizio – dopo un’indagine condotta per tre anni senza che gli interessati ne sapessero nulla.

    Lo scandalo, quindi, consiste nell’apporre un freno agli abusi investigativi, qualcosa che – evidentemente – si verifica anche altrove, anche in un Paese in cui vi è dipendenza gerarchica tra le Procure medesime ed il Ministro della Giustizia, e sebbene non via sia la separazione delle carriere che da noi viene presentata come il viatico per subordinare il potere giudiziario e l’esercizio dell’azione penale alla volontà della politica.

    Anche da noi, tuttavia,  succedono in continuazione cose strane come – tanto per ricordarne uno – il caso bizzarro del trojan inoculato nel cellulare di Luca Palamara che subiva improvvisi, inspiegabili, guasti intermittenti a seconda degli interlocutori intercettati e degli argomenti trattati…e non si trattava del Presidente della Repubblica o del suo entourage come nella nota vicenda del processo Stato-mafia.

    No, al Quirinale Palamara – sia come Presidente dell’A.N.M. che come componente del C.S.M. – ci andava di persona: sistema più riservato e sicuro per confrontarsi con Giorgio Napolitano e i suoi collaboratori (come sostiene l’ex magistrato) o come, in termini più insidiosi sostiene Alessandro Sallusti, “per prendere ordini”.

    Non lo sapremo mai: a quel tempo Palamara forse non era ancora intercettato e poi da noi il Colle è intoccabile e, se tutto va male, un palmare – come tutte le diavolerie moderne – può avere un inatteso problema di funzionamento.

  • In attesa di Giustizia: compagni che sbagliano

    Lo avevamo previsto nell’articolo della settimana scorsa: come a teatro, il gran finale della stagione giudiziaria prima delle ferie propone reingressi dei protagonisti sul palcoscenico, saliscendi del sipario, ovazioni del pubblico (intese come lancio di uova preferibilmente marce).

    Giustappunto: a proposito di ferie giudiziarie, la cui mutilazione di quindici giorni per legge non è ancora stata digerita (fino a qualche anno fa duravano ufficialmente dal 1° agosto al 15 settembre, ufficiosamente circa da metà luglio fino almeno alla data astronomica dell’autunno) una menzione d’onore spetta ad un magistrato donna di Varese che ha motivato il rinvio di un’udienza da metà luglio a metà ottobre perché “il periodo di ferie deve essere del tutto effettivo ed assicurare il pieno recupero delle energie psicofisiche” con periodi “cuscinetto” di avvicinamento alle agognate vacanze e di soft landing al rientro.

    Tutto ciò è possibile nel rispetto di una “raccomandazione” del C.S.M. del 2016, Consiglio Superiore che – invece – è destinato a un duro lavoro anche in questo inizio di agosto: soprattutto la sezione disciplinare.

    Infatti, da un lato è stato disposto il rinvio di una settimana per decidere sulla richiesta di trasferimento d’urgenza del P.M. Storari – la rubrica si è occupata anche di questo – dall’altro sono pervenute altre richieste di sanzioni da parte del Procuratore Generale della Cassazione che nei confronti di cinque ex componenti del Consiglio medesimo ha chiesto la sospensione dalle funzioni: due anni per Luigi Spina, Antonio Lepre e Gianluigi Morlini, uno per Corrado Cartoni e Paolo Criscuoli, ritenuti responsabili di avere partecipato ad incontri con Palamara, Luca Lotti e Cosimo Ferri (quest’ultimo fuori ruolo in quanto deputato non si sa più bene con quale formazione politica ed, a sua volta, sottoposto a procedimento disciplinare) volti alla spartizione degli incarichi direttivi.

    Non va in ferie neppure Francesco Prete, Procuratore Capo a Brescia che ha recentemente iscritto nel registro degli indagati il suo Collega Francesco Greco, alla guida – come è noto – della Procura di Milano, per omissione di atti di ufficio in relazione alla mancata apertura di un’inchiesta sulla famigerata “Loggia Ungheria”: un colpo di coda inquietante nella vicenda dei verbali di interrogatorio secretati dell’avvocato Amara finiti ovunque tranne dove avrebbero dovuto restare o essere trasmessi.

    E non vanno in ferie nemmeno Giancarlo Caselli, ex Procuratore di Torino e Palermo (ma, tanto, è già in pensione) e Nicola Gratteri, Procuratore a Catanzaro, che da pulpiti diversi si scagliano contro la riforma del processo penale elaborata dalla Commissione istituita dalla Guardasigilli Cartabia: “la peggiore riforma della giustizia mai vista” afferma Gratteri alla trasmissione “In Onda” su La 7 nel corso di un’intervista che sarebbe stata abbisognevole dei sottotitoli in italiano.  Caselli, invece, si schiera nettamente contro la modifica della prescrizione plaudendo implicitamente all’operato di Fofò Bonafede. Si vede che in tempi di chiusura delle discoteche ha nostalgia di un dj che pochi altri rimpiangono.

    A parte la querelle destinata a non esaurirsi sulla riforma, che sarà sottoposta a voto di fiducia, prosegue incessantemente a sprofondare nell’abisso la credibilità della magistratura: un abisso nel quale, come suggeriva Nietzsche, è meglio non guardare a lungo perché anche l’abisso ti guarda dentro.

    Nonostante tutto ciò, l’Associazione Nazionale Magistrati non sembra interessata a formulare per i suoi iscritti quantomeno un richiamo generale al ritorno a comportamenti visibilmente virtuosi ed una presa di distanza netta dal verminaio scaturito in seguito all’ affaire Palamara e non solo da quello. La corporazione, piuttosto, si stringe a difesa tacita dei suoi componenti: in fondo sono solo compagni che sbagliano, come si diceva dei brigatisti quando rapine, omicidi e sequestri erano visti come un modo di interpretare il marxismo, le “diversità” viste come degenerazioni borghesi e proprio il PCI  – formidabili quegli anni in cui non si parlava di DDL Zan – discriminava gli omossessuali sino al punto di espellere Pier Paolo Pasolini dal partito per indegnità morale.

    Sipario? Forse…

  • In attesa di Giustizia: processi senza aula

    Sembra che i processi debbano sempre più spesso celebrarsi fuori dalle aule e in questi giorni se ne è avuta più di una preoccupante riprova.

    Lo sfogo di Grillo sembra la nemesi che si ritorce contro colui che ha costruito una fortuna politica sul linciaggio mediatico di presunti innocenti (presunti, perché non ancora giudicati) offrendoli con la tradizionale eleganza oratoria alla rappresentazione del vaffaday come già condannati dalla folla televisiva.

    Garantismo a corrente alternata, quindi, di chi in altre occasioni si genuflette in adorante e servo ossequio del Torquemada di turno ed invocando il “crucifige” di chiunque abbia avuto la sventura di essere sottoposto ad un indagine, seppure ben lontano da una condanna definitiva.

    Un po’ di coerenza, serietà e consapevolezza non guasterebbero: i processi sono una faccenda terribilmente seria per essere affidati agli show televisivi ed alle compagnie di giro.

    Riportando l’attenzione sulla vicenda – drammatica – di Denise Pipitone (la bimba siciliana scomparsa ormai da moltissimi anni), Quarto Grado ha voluto tener fede al proprio nome imperniando nella quasi interezza una puntata per contestare il triplice e definitivo giudizio assolutorio della sorellastra che per l’ipotesi di sequestro di persona non potrà mai più essere giudicata in nome di un divieto per legge a garanzia di chi sia stato assolto con sentenza non più appellabile.

    Ma il mondo dei media, dei social non trova mai quiete se si tratta di celebrare processi sommari: per giorni si sono agitate le acque, senza farne il nome, intorno alla figura di un magistrato uso a consumare pranzi e cene nei ristoranti vicini al Tribunale di Milano senza pagare il conto: una brutta storia ma per altri motivi.

    Alzi la mano chi crede che ci possa essere un cronista che, non si sa bene in virtù di quale illuminazione e con i locali chiusi, si mette al rintraccio di ristoratori per porre una domanda del tipo “Scusi, le è mai capitato di avere come cliente un magistrato scroccone?”. E’ chiaro che c’è stata una soffiata ed essendo altrettanto impensabile che provenga simultaneamente da diversi esercenti, non può altro che derivare dall’”interno” anche perché adesso si dice che tra i magistrati tutti sapevano tutto e del problema se ne sarebbe occupato anche il Consiglio Giudiziario.

    Francamente tutto ciò ha il sapore acre del regolamento di conti, a pochi mesi dal pensionamento e poche settimane dalla partecipazione ad un processo di grande rilievo politico economico, in quell’ambientino ormai saturo di veleni che è la magistratura.

    Ha fatto benissimo Piero Gamacchio, questo è il nome del giudice, a uscire subito allo scoperto, ammettendo tutto e ponendosi in aspettativa: se qualcuno ha pensato di tenerlo sotto schiaffo, ora ha le polveri bagnate.

    Comunque la si riguardi è una storia più triste che brutta cui ha fatto subito seguito la notizia della incolpazione del Presidente del Consiglio di Stato per induzione indebita e, per non farsi mancare nulla (una al giorno), quella dell’arresto di un giudice di Bari per corruzione.

    Ormai la credibilità dell’Ordine Giudiziario tra diffusi gossip, veleni e incriminazioni sta sprofondando in un abisso; i processi un aula sono altrettanto temuti da chi con la magistratura deve confrontarsi perché, come scriveva Nietzsche, se si guarda in un abisso anche l’abisso ti guarda dentro.

  • In attesa di Giustizia: varie ed eventuali

    Sono diversi gli ultimi accadimenti interessanti (o preoccupanti, a seconda) nel mondo della giustizia.

    Intanto che riprendono le preoccupazioni per il diffondersi di varianti molto contagiose della pandemia, alcuni Ordini Professionali, soprattutto in Toscana, hanno ottenuto la priorità nella vaccinazione degli avvocati; un privilegio? Niente affatto, come ha spiegato molto bene il Consigliere Giacomo Ebner, magistrato romano illuminato (sarebbe più corretto dire “normale”, ma con i tempi che corrono…) secondo il quale vi sono tre ottime ragioni alla base di questa scelta.

    Innanzitutto, quello dell’avvocato – secondo Ebner, ma soprattutto secondo la Costituzione – è un ruolo essenziale nel funzionamento della macchina della Giustizia, inoltre la categoria è stata tra quelle più segnate dalla crisi conseguente alla emergenza sanitaria ed è corretto agevolarne una ripresa in sicurezza – per sé e per gli altri –  della attività, in terzo luogo, l’avvocato svolge una funzione che rende indispensabile il contatto con le persone che non possono essere private della possibilità di conferire più adeguatamente e riservatamente con il proprio difensore senza ricorrere alla intermediazione di Skype call o telefonate. Sì, è vero, di recente, sono emersi altri casi di intercettazioni, anche video, negli studi di avvocati nonostante il divieto per legge…ma questa è un’altra storia.

    Un’altra storia che non è pensabile che offra preoccupazioni a Piercamillo Davigo, della cui giacobina presenza non ci siamo ancora liberati, anzi…nonostante il pensionamento, continua ad imperversare. Editorialista del Fatto Quotidiano lo era già in pectore da magistrato e, sfortunatamente, anche i talk shows continuano ad assicurargli soliloqui che ne esaltano (almeno apparentemente) virtù da oracolo posto che rappresenta la permanente ed effettiva corrente di pensiero dominante nella magistratura italiana, o – almeno, è ciò di cui finiscono con l’essere convinti i cittadini cui non vengono offerte misure di confronto.

    Ultimamente gli è stato richiesto di commentare Paolo Mieli, che ha profetizzato per Draghi infauste ghigliottine giudiziarie ove dovesse azzardarsi – come puntualmente accaduto in passato – a mettere mano alla riforma della giustizia senza il placet della magistratura italiana.

    Davigo orripila ed accusa Mieli di parlare di cose che ignora…sarà ma Mieli era il Direttore del Corriere della Sera durante Mani Pulite: ma l’ex magistrato spiega (siamo a Piazza Pulita) che “per aprire un provvedimento ci vuole una notizia di reato, non è che il pubblico ministero si sveglia la mattina e dice: chi incrimino oggi?”.

    “Però non è detto che quei reati vengano dimostrati”, osserva Formigli, il conduttore. “Questo è un altro discorso – è costretto ad ammettere Davigo -, tra l’altro possono non essere dimostrati perché non ci sono, o perché per mille e una ragione non si riesce a dimostrarli, magari per le leggi particolari che abbiamo in questo Paese e che altri Paesi non hanno”.

    E qui viene il bello (si fa per dire): può accadere che una accusa sia infondata? Il dott. Davigo ammette con enorme fatica, che ciò che soprattutto accade è che la Verità, naturalmente insita nella originaria ipotesi poliziesca, venga soffocata dalle regole del processo penale italiano, intriso di inaccettabili trappole garantiste. Per esempio che le evidenze acquisite durante le indagini preliminari di regola non valgono durante il dibattimento, e questo spiega perché persone che erano state raggiunte da elementi molto forti e concreti ma non utilizzabili nel processo poi vengano assolti. In realtà la ragione è molto semplice: proprio il codice dice che ciò che viene raccolto durante le indagini – con alcune eccezioni – non costituisce prova ma solo elemento utile per valutare la sostenibilità di una incriminazione nel giudizio il quale è regolato dalla Costituzione; durante il processo che gli elementi di accusa vengono valutati dal giudicante in seguito al contraddittorio tra le parti senza tener per buono le deposizioni di testimoni sentiti in solitudine in un commissariato, le intercettazioni telefoniche riassunte e selezionate a propria discrezione dalla Polizia Giudiziaria, le consulenze tecniche anche in discipline scientifiche adoperate in modo unilaterale dal P.M.

    Questa roba qui, secondo il nostro, sarebbe la ragione per la quale spesso accade – orrore! – che gli imputati vengano assolti. Insomma, ecco il disastro della giustizia italiana: è il processo in quanto tale.

    Davigo ne resterà disgustato ma c’è anche chi il processo lo evita del tutto perché l’ipotesi accusatoria frana già al termine delle indagini. Come nel caso di Alex Schwarzer, l’atleta sospettato di impiego di doping la cui posizione è stata archiviata. Ci sono voluti quei quattro/cinque anni (che in una carriera agonistica rimasta ferma pesano non poco) ma per lui l’attesa di Giustizia non è stata vana.

  • In attesa di Giustizia: DJ set

    Un DJ set è per il DJ quello che per il musicista è il concerto, ovvero lo spettacolo in cui l’artista presenta al pubblico la musica da lui selezionata utilizzando più volte la tecnica del mixaggio… e mercoledì 27 gennaio ne andrà in scena uno assai atteso dagli addetti ai lavori del settore della Giustizia: parliamo dello show a Camera e Senato del più celebre dei Disc Jockeys nostrani: quel Fofò cui – incomprensibilmente – è affidata la guardiania dei Sigilli della Repubblica.

    Relazione sullo stato della Giustizia, che potrebbe riassumersi in una sola parola: “disastroso” e così sollevando deputati e senatori dal tormento di ascoltare frottole ammannite con quell’inestinguibile sorriso che evoca il detto latino risus abundat in ore stultorum.

    Invece, chissà cosa toccherà sopportare: forse la magnificazione del processo a distanza, il cui impiego è stato rivolto ad incombenti giudiziari che sarebbe stato preferibile – e possibile senza grandi difficoltà dal punto di vista del garantito distanziamento sociale – celebrare in presenza omettendone, invece, una quantità che si sarebbero potuti agevolmente svolgere da remoto. Forse tratterà il tema della attenzione alla salute dei cancellieri destinati allo smart working seppure in mancanza degli strumenti idonei a fare alcunchè da casa tranne la moka per trasformare incolpevolmente tutta la giornata in una pausa caffè. O, chissà mai, la generosa opzione di sospendere i termini di redazione e deposito delle sentenze: proprio un’attività che, a regola, si svolge dal domicilio.

    Sua Eccellenza il Ministro attenderà, magari, la prima salva di applausi dalla claque delle truppe cammellate e giallovestite subitanemente imitate dai colleghi del PD atterriti all’idea che possa aggravarsi la crisi con il rischio di perdere il cadreghino prima dell’inizio del salvico semestre bianco perchè la parola d’ordine è una e una sola: resistere fino a giugno.

    Ma la musica non è finita: può immaginarsi il silenzio sulla epocale riforma della prescrizione? Non sia mai e dalla dorata consolle fluiranno le note che parlano della incessante battaglia che il condottiero trapanese ha vinto debellando la criminalità diffusa nel Paese che si affidava alle infinite astuzie di quegli azzeccagarbugli degli avvocati per far trascorrere il tempo sottraendo i propri assistiti al magli della giustizia secolare: una battaglia, questa e come altre, che ha avuto il supporto di media autorevoli come Il Fango Quotidiano, pardon, Il Fatto Quotidiano, e di celebrati orfani dell’inquisizione come Piercamillo Davigo.

    Tutte frottole ma poco importa e qui non è escluso che dai banchi dell’alleato di governo il plauso si intiepidisca ma non di molto: infatti è già stato redatto un disegno di legge (a firma, tra gli altri, Orlando Andrea, non Vittorio Emanuele) di modifica della legge e che ripristina il corso della prescrizione ma con tempistiche che possono soltanto definirsi truffaldine, probabilmente ritenute buone solo a salvare la faccia tentando di spendersi come garantisti.

    Il tormento potrebbe essere di lunga durata e Dio non voglia che vengano magnificate le doti – facendone anche i nomi dei partecipanti – delle diverse cabine di regia allestite al Ministero della Giustizia per fronteggiare l’emergenza: potrebbero essere attesi sotto casa per un’ovazione finale da parte di operatori del diritto e cioè a dire un cospicuo lancio di uova marce.

    Nulla, invece, vi sarà da attendere quanto alla ignominiosa condizione in cui versa ormai da tempo il Tribunale di Bari (quello chiuso perchè pericolante) o il dubbio, già aleggiante, che – dopo aver dilapidato milioni in monopattini e banchi da luna park –  vi siano le risorse per pagare gli stipendi ai neo Magistrati che stanno per entrare in ruolo.

    L’elenco delle disfunzioni sarebbe ancora molto lungo ma – certamente – non vi sarà fatto cenno e non per ragioni di sintesi: Socrate, tra l’altro, ricordava che l’intelligenza dell’uomo si rivela nella sintesi e non è certo questo il caso.

  • In attesa di Giustizia: la parola alla difesa ai tempi del grande freddo

    Succede anche questo, e della deriva cui sembra avviato il processo penale di Appello se ne è trattato di recente proprio in questa rubrica.

    Siamo a Milano, alla Seconda Sezione della Corte d’appello sez. 2 Milano, udienza in presenza – cioè con la richiesta dei difensori di andare in aula e discutere invece che affidarsi alla lettura degli atti senza contraddittorio da parte della Corte – e come dal ruolo d’udienza risultano solo tre cause “in presenza” fissate a distanza di quindici minuti una dall’altra, indipendentemente dalla delicatezza degli argomenti da trattare, a seguire una decina di processi “cartolarizzati”: si dice così di quelli in cui è stata rinunciata l’oralità…che dovrebbe essere il cuore del processo penale.

    La prima udienza è fissata alle 9.15 ma la Corte si palesa con mezz’ora di ritardo: quella mezz’ora in cui si era già previsto di “sbrigare” un paio di pratiche. Inutile dirsi che nessuna giustificazione né – men che mai – scusa del ritardo viene offerta.

    A Milano andiamo un po’ meglio che a Bari dove si facevano le udienze nelle tende da campeggio perché il Tribunale è risultato edificio abusivo (e fatiscente in maniera pericolosa) o a Genova il cui Palazzo di Giustizia risiede in una struttura destinata ad un ospedale ed ora non garantisce i livelli di aereazione necessari per la prevenzione del contagio: dunque le udienze si fanno dove capita, altrove.

    Bene, dunque, ma non benissimo nel capoluogo lombardo ma nell’aula i microfoni non funzionano, le porte – chissà perché –  vengono lasciate aperte, entrano aria fredda e rumori esterni, il frastuono dell’androne del primo piano.

    Il processo è per bancarotta, le pene sono elevate si capisce che in primo grado è durato anni e vi sono sette capi di imputazione e un’infinità di questioni processuali e l’avvocato inizia ad illustrare con la attenzione necessaria ma dopo una manciata di minuti – sì, qualcuno in più del quarto d’ora complessivo che si voleva dedicare a questa vicenda – il Sostituto Procuratore Generale di udienza interviene ed interrompe lamentandosi che fa freddo, c’è corrente d’aria e troppo rumore…già le porte aperte che, forse bastava chiudere. Quindi chiede alla corte di intervenire per togliere la parola al difensore: “Tanto avvocato, il suo dotto appello possiamo leggerlo tutti. E poi ci sono altri processi. E poi il diritto alla salute viene prima del diritto di difesa!”.

    Già, fa freddo e allora ecco il presidente (donna) annuire vistosamente approvando le richieste del Sostituto Procuratore Generale e dice: “avvocato c’è il covid, possiamo leggerlo il suo appello, le manderemo la sentenza via pec entro stasera”. Già, magari farlo anche decidere da un algoritmo a computer.

    Per chi non lo sapesse, oltre il 40% delle sentenze vengono riformate in secondo grado, sarà per questo che l’appello è così inviso? E per chi ci crede ancora, l’attesa di giustizia continua…

  • In attesa di Giustizia: profondo rosso

    Ne abbiamo appena parlato ma, sfortunatamente, si deve tornare in argomento: nulla è cambiato a dispetto di promesse e proclami e l’amministrazione della Giustizia si avvia al tracollo finale, sopraffatta anch’essa dalla seconda  ed ampiamente prevista ondata di contagi.

    I rimedi e gli interventi annunciati – e non solo nel settore di cui si occupa questa rubrica – quando ci sono  (e non è scontato) nel migliore dei casi sono tardivi e nel peggiore raffazzonati se non entrambe le cose come a proposito della estensione del metodo di celebrazione del processo a distanza la cui disciplina è stata inserita nei decreti “ristori” con una tecnica legislativa bizzarra per la assoluta disomogeneità degli argomenti.

    Questa non è, peraltro, una novità assoluta né un primato dell’attuale maggioranza di Governo: anni fa venne modificato il Testo Unico sugli Stupefacenti con un decreto legislativo che conteneva disposizioni sulla celebrazione delle Olimpiadi Invernali di Torino: c’è voluto un po’ ma quella modifica è stata sbriciolata dalla Corte Costituzionale per eccesso di delega creando, tuttavia, una serie di problemi non indifferenti a causa delle decine di migliaia di processi per droga celebrati, nel frattempo e per anni, con una “legge illegale”.

    Nessuno, allora, ebbe la decenza di ammettere – scusandosi in qualche modo – la commissione di un errore pacchiano per il c.d. “legislatore”: ma da sempre, quando si tratta di riconoscere i propri  errori, la nostra classe politica ha un comportamento simile (per chi lo ricorda…) a quello di Fonzie di Happy days a cui si attorcigliava la lingua proprio in quel momento cruciale.

    Ogni tanto viene anche da chiedersi se – con qualche lodevole eccezione – gli accademici assurti ai sogli della politica nazionale non abbiano conseguito i propri titoli con un concorso in cui sono richiesti i punti fragola dell’Esselunga.

    A tacere della tecnica e della topografia normativa, ritornando in maniera più mirata alla soluzione, accettabile a talune condizioni, di celebrare i processi a distanza è appena il caso di dire che ci sono sedi giudiziarie che la primavera scorsa non avevano gli strumenti tecnologici necessari e che non li hanno tutt’ora e non parliamo di scienza missilistica: con buona pace della criticità data dal dover far spostare avvocati, testimoni, periti ed imputati anche da una regione rossa ad un’altra. I rinvii delle udienze sono la conseguenza scontata.

    L’On. Bonafede, che al Ministero della Giustizia occupa la scrivania che fu di di Zanardelli, Rocco, Vassalli e Conso (per citarne alcuni che si rivoltano nella tomba), qualche settimana fa aveva annunciato trionfalmente la distribuzione in corso di migliaia e migliaia di computer nuovi che avrebbero consentito a cancellieri e funzionari amministrativi di lavorare da casa con aumento della produttività e riduzione del rischio di contagio.

    Interpellato in proposito un Dirigente del Tribunale Penale di Milano ha così risposto: “se crede anche a Babbo Natale, visto il periodo, gli scriva la letterina e veda se, almeno per me, un computer per il collegamento da remoto me lo fa avere…”.

    Processi rinviati, Tribunali senza connessione, personale amministrativo a casa a non lavorare, incolpevolmente… cancellerie semi deserte, il vuoto delle aule affidato all’isolato passaggio di un Carabiniere a guardia del nulla: è l’immagine del lock down di una Giustizia in profondo rosso ma, lo può ben spiegare Rocco Casalino – memore dell’esperienza del confessionale del Grande Fratello – anche la solitudine può essere un momento di beatitudine.

  • In attesa di Giustizia: giustizia in rosso

    Ci siamo: almeno in alcune regioni è di nuovo zona rossa e molte attività  sono state chiuse,  la libertà di movimento grandemente limitata. Il governo, tra le altre cose si è occupato delle aule scolastiche, ma ha sostanzialmente dimenticato quelle in cui si amministra Giustizia. Cosa tutt’altro che insolita.

    O meglio: un decreto legge in cui si tratta di giustizia c’è ma è anteriore al DPCM che distingue il Paese in fasce di rischio contagio e si basava su una situazione di fatto che, oggi, potrebbe valere forse per le zone arancioni, ma non per quelle rosse.

    Sarebbe infatti davvero singolare che, vietate le lezioni in presenza a 20 alunni, si consentisse la celebrazione di processi con più avvocati, magistrati, cancellieri, testimoni ed imputati in ambienti in cui spesso il ricircolo dell’aria è problematico. Del resto, il concetto di aula non cambia se muta la natura dell’attività svolta al suo interno.

    Intanto già si moltiplicano i rinvii dei procedimenti già fatti slittare durante il lockdown di primavera perché, come era immaginabile, con i servizi amministrativi adibiti ad un “lavoro agile” sprovvisto degli strumenti necessari ad evitare che fossero in realtà ferie retribuite, un numero sgomentevole di notifiche non è stato fatto o lo è stato in maniera irregolare.

    Una soluzione che si sta riproponendo per evitare che le esigenze di sicurezza e prevenzione del contagio confliggano con quelle di prosecuzione della attività giudiziaria è quella che prevede – per tempi  e materie definite – la trattazione da remoto: che convince poco anche per la permanente mancanza di strumenti tecnologici adeguati, ma rappresenta (almeno per le zone rosse) un’alternativa prudentemente praticabile.

    Anche in questo caso, come è accaduto nel settore della sanità, vi è stato il tempo per allestire le migliori condizioni di lavoro e di supporto logistico volte a fronteggiare la prevedibilissima “seconda ondata” facendo tesoro dell’esperienza maturata nei primi mesi dell’anno e invece…

    …invece abbiamo i proclami del Guardasigilli a proposito della distribuzione di migliaia di nuovi computer portatili che renderanno finalmente possibile l’assolvimento delle funzioni di cancelleria anche in smart working ma – per ora – non se ne sono ancora visti e ci sono uffici che neppure dispongono di una casella pec. Il raffinato giurista, peraltro, è di buonumore a giudicare dall’espressione ridente scolpita in permanenza sul volto: forse perché ha letto la bozza del decreto “ristori bis” nella quale, tra le molte perle, in merito al processo penale di appello, si prevede che la trattazione “fisica” dell’udienza debba essere richiesta dagli avvocati almeno 25 giorni prima della data prevista per la celebrazione.

    Senonché la legge prevede che l’avviso di fissazione sia notificato almeno 20 giorni prima della medesima data.

    Forse è questo che alimenta il buonumore di Bonafede: dal processo da remoto si sta passando al processo per veggenti ed una classe forense dotata di capacità predittive sarà anche in grado di pronosticare l’esito dei processi evitando di iniziare o proseguire quelli il cui destino è già noto.

    Un po’ quello che avevano pensato gli autori e sceneggiatori di Minority Report solo che nel nostro caso sono gli autori dei testi a far pensare ad una minoranza, o meglio ad una minorazione. Quella mentale, con buona pace di una Giustizia perennemente in rosso, dimenticata da tutti la cui attesa inizia ad apparire disperata.

  • Alle elezioni per l’Anm vince la corrente progressista dei magistrati, giù il gruppo di Davigo

    Le toghe progressiste di Area sono prime, ma tallonate da Magistratura Indipendente, la corrente che ha avuto a lungo come punto di riferimento Cosimo Ferri e che ha pagato il prezzo più alto al caso Palamara, con tre consiglieri del Csm costretti alle dimissioni. Dimezza la propria rappresentanza Unità per la Costituzione, di cui è stato a lungo leader di fatto il pm romano radiato dalla magistratura per lo “scandalo” delle nomine. E va male anche Autonomia e Indipendenza, il gruppo fondato da Piercamillo Davigo, che alle scorse elezioni aveva fatto il botto, ma che stavolta sconta l’assenza del suo leader: prende gli stessi seggi degli esordienti “Articolo 101”, la neonata formazione che si pone in antitesi alle correnti tradizionali, ma i cui rappresentanti sono già stati in passato all’Anm sotto le insegne di “Proposta B”. E’ il quadro composito che emerge dalle elezioni per il rinnovo dei trentasei componenti del Comitato direttivo centrale dell’Anm, il “parlamentino delle toghe” che già il 7 novembre prossimo è chiamato ad eleggere il nuovo presidente e la nuova giunta destinate a guidare il sindacato dei magistrati per i prossimi quattro anni.

    Ma c’è un altro dato da non sottovalutare. Ed è il calo sensibile dei votanti, che tradisce la “disaffezione” di una parte dei magistrati al sistema delle correnti, uscito con le ossa rotte dal caso Palamara. Nonostante per la prima volta si votasse con modalità telematica, sono stati solo 6.101 magistrati a scegliere i rappresentanti al Comitato direttivo centrale dell’Anm, pari al 85,92% dell’elettorato attivo. Un migliaio in meno (7100) di quelli che si erano registrati nelle scorse settimane e quasi due migliaia in meno rispetto alle elezioni del 2016.

    Area è dunque la vincitrice con 1785 voti e suo è anche il primo degli eletti, con 739 preferenze: il presidente uscente dell’Anm Luca Poniz, che ha spinto per una linea intransigente nei confronti di tutti i magistrati protagonisti della riunione sulle nomine all’hotel Champagne con Palamara, Ferri e il dem Luca Lotti, ma dialogante sulla riforma dell’ordinamento giudiziario, alla guida di una coalizione formata da Area, Unicost e Autonomia e Indipendenza, con Magistratura Indipendente all’opposizione.  Numeri che dovrebbero portare il gruppo a 11 seggi, 2 in più di quelli che aveva ottenuto nel 2016. Ottimo risultato anche per Magistratura Indipendente, nella cui lista si erano presentati sotto l’insegna di Movimento per la Costituzione, anche ex esponenti di Unicost (come Antonio Sangermano, in passato pm del caso Ruby): incassa 1648 voti, che dovrebbero portarla a 10 seggi (+2 rispetto a 4 anni fa). Per Unità per la Costituzione – la cui dirigenza ha preso da subito le distanze da Palamara e ha sposato una linea intransigente – invece la batosta è netta. Anche se il suo presidente Mariano Sciacca vede comunque un progresso rispetto alle elezioni suppletive del Csm. Nel 2016 era stata la prima corrente, oggi i suoi consensi si fermano a 1212, con una contrazione di seggi notevole: dai 13 di allora, dovrebbe accontentarsi di soli 7. In calo considerevole anche Autonomia e Indipendenza: dopo il bagno di voti del 2016 trainato essenzialmente da Davigo ottiene 749 preferenze e così gli stessi seggi di “Articolo 101” che di voti ne ha presi 651.Tra i suoi, il primo degli eletti è l’ex consigliere del Csm Aldo Morgigni.

    Difficile capire che prospettive si aprono per il “governo” del sindacato dei magistrati. “Come quattro anni fa il nostro obiettivo è la giunta unitaria”, assicura il segretario di Area Eugenio Albamonte. Ma l’accordo tra tutte le correnti non sembra un traguardo facile.

  • In attesa di Giustizia: emergenza continua

    I contagi, purtroppo, segnano una curva in decisa risalita: è in arrivo la seconda ondata, quella in cui nessuno credeva sebbene se ne fosse anticipato il rischio. Non diversamente da quello che sembra accadere nel settore della sanità, invece che lavorare d’anticipo per prevenire i problemi, anche in quello della giustizia si corre ai ripari con un certo ritardo. Piuttosto che niente è meglio piuttosto, si dirà ed è di pochi giorni fa la notizia di un accordo tra Ministro di Giustizia e sindacati del comparto sulla organizzazione di uno smart working lontano dalla versione caricaturale praticata in fase di lockdown, e purtroppo anche oltre, con uffici giudiziari che, se va tutto bene, funzionano tutt’ora a due cilindri (nemmeno a tre…).

    Come si è annotato in precedenti articoli, il personale distaccato a casa non era autorizzato ad accedere ai registri ordinariamente accessibili dall’ufficio ed alla rete protetta: uno smart working all’amatriciana, insomma. Ora, sebbene nulla di preciso si sappia della gara per la fornitura, dovrebbero essere consegnati migliaia di computer portatili, con licenza di accesso ai dati riservati agli uffici. Bene, una volta tanto e se funzionerà, il sistema potrà costituire senz’altro un valore aggiunto anche trascorsa la fase emergenziale.

    Nessuna notizia, peraltro, sul corrispondente accesso smaterializzato degli avvocati agli uffici giudiziari. Male, anzi malissimo perché non servono strumenti tecnologici nuovi ma solo una normativa che autorizzi l’uso della pec per depositare gli atti difensivi: ora, invece, si è costretti ad andare in Tribunale, facendo lo slalom tra divieti, file in assembramento, prenotazione di accessi concessi con evidente fastidio come se l’ingresso fosse facultato a degli untori.

    Vero è che il deposito telematico di atti presuppone una riorganizzazione della fase ricettiva degli stessi, ma è un problema banale da risolvere.

    Massima comprensione per quelle che sono le priorità di chi ci governa, ma oltre ai diritti sindacali, pur legittimi, il diritto di difesa dei cittadini non può essere trascurato prima che questo attivismo a senso unico, sollecitato dalla previsione della possibile ricaduta in condizioni di grave emergenza sanitaria, determini una ulteriore emergenza nell’emergenza.

    E, a proposito di emergenza, sarebbe anche giunto il momento per avere una informazione univoca, chiara e trasparente sui dati reali del fenomeno epidemico, dalla cui dimensione dipenderanno scelte cruciali nelle prossime settimane (tra le quali, dunque, anche quelle relative allo svolgimento dell’attività giudiziaria).

    Lungi da ogni forma idiota di negazionismo, anzi, sono da considerare grottesche le resistenze pseudo-libertarie alle regole di distanziamento sociale ed all’uso della mascherina: ma non si può più negare il dato di una torbidità della informazione sulla epidemia. Anche un analfabeta in matematica, comprende la totale arbitrarietà della comunicazione di numeri dei contagi in valore assoluto, accompagnati a mezza bocca dalla variabile dei tamponi effettuati, come se fosse informazione di contorno.

    Perché si insiste nella diffusione di dati privi del benché minimo rigore statistico?

    Le informazioni di rilevanza pubblica non sono un patrimonio che il Governo di un Paese democratico possa amministrare in modo inspiegabilmente arbitrario, oscuro, nebuloso: ne risentono la vita sociale, l’economia, ovviamente la dislocazione di presidi sanitari e non può trascurarsi il settore della giustizia la cui attesa, altrimenti, con l’aggiunta delle criticità portate dalla epidemia l’attesa diventerà infinita. Insomma, dateci informazioni, invece di dare i numeri.

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