La recente decisione del presidente della sezione civile del tribunale di Trieste di mandare via un uomo, presentatosi per un’udienza di separazione dalla moglie, perché in abiti sconvenienti (bermuda e infradito), segue altri fatti verificatisi nel corso del tempo per abbigliamenti indecorosi utilizzati sia in sedi istituzionali, in uffici pubblici e nelle vie delle città. Il senso del decoro è sicuramente cambiato nel tempo e l’abbigliamento si evolve ma un conto è l’evoluzione dei costumi, un altro conto è esibire a sproposito le proprie nudità. In una società che difende la libertà è bene ricordarci che la libertà di ciascuno trova un limite sia nella libertà altrui sia nel rispetto dei luoghi che si frequentano. Il caldo sicuramente spinge ad atteggiamenti ed abbigliamenti i meno formali possibile ma questo non può significare girare per le città o negli edifici pubblici semiscalzi o mostrando parti del corpo che vanno esibite solo all’interno della propria abitazione. Siamo tutti accaldati ma canottiere anche colorate, infradito, top di bikini o mutande spacciate per calzoncini non devono essere consentiti laddove c’è un rapporto con gli altri, se non in luoghi deputati alla balneazione o allo sport.
Il problema dell’abbigliamento non è fine a se stesso, ma dimostra un lento e inesorabile scivolamento verso il basso, verso la mancanza di rispetto verso se stessi e di conseguenza verso gli altri. E questo è un problema sul quale meditare e intervenire perché è proprio dalla mancanza di rispetto che nascono anche fake news, attività illecite, che lentamente sfociano in una vera criminalità, indifferenza sostanziale verso i ruoli che si ricoprono, ignorando la responsabilità che questi ruoli rappresentano. Non è solo una questione di lassismo ma proprio una decadenza dell’educazione e della cultura che ci porta lentamente non a migliorare i livelli di vita, anche di coloro che vorremmo integrare, ma che ci porta semmai a inselvatichirci, quasi fossimo dei coatti. Questo è dimostrato anche dall’eccessivo ricorso ai tatuaggi, come se ciascuno avesse bisogno di appartenere a una tribù per essere se stesso. Un desiderio di omologazione che nasce dall’incapacità di avere una propria individualità.