uguaglianza

  • In attesa di Giustizia: la legge è uguale per tutti?

    Sembra di poter dire che al peggio non c’è mai limite e non c’è limite alla impunita strafottenza con cui la corporazione dei magistrati si stringe sistematicamente a tutela dei propri adepti e privilegi: ecco a voi due storie, una particolarmente sgradevole, sulle quali riflettere.

    Chi segue questa rubrica ricorderà che più di una volta sono stati segnalati episodi relativi a sentenze che si erano scoperte come decise prima della fine del processo (e chissà quante non vengono disvelate, considerato che non possono essere accadimenti episodici): ebbene, per uno di questi fatti, si è da pochi giorni arrivati ad una decisione della rigorosissima sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura.

    Accadde a Firenze nel febbraio scorso che un difensore, chiedendo di consultare il fascicolo che lo interessava mentre il Collegio era impegnato in camera di consiglio per un altro processo – probabilmente a fare colazione, facendosela portare dal bar, visto l’andazzo – scoprì che all’interno si trovava la sentenza già scritta, motivata e ben definita con la condanna e la determinazione della pena: tutto ciò senza che avesse discusso non solo l’avvocato ma neppure il Pubblico Ministero. Quasi, quasi, sarebbe preferibile una bella ordalia.

    Qualcuno si sarebbe, forse, dovuto prendere la briga di sequestrare immediatamente tutti i fascicoli, almeno quelli del giorno, verificando se altri contenessero qualcosa del genere. Invece, niente: anzi, il Tribunale si accanì contro il difensore perchè aveva osato esercitare il suo diritto di consultazione, debitamente autorizzato dal P.M. a cui era stata fatta la richiesta ed era presente in aula. Solo per la presa di posizione della Camera Penale di Firenze la vicenda è finita al C.S.M.

    Ed ecco, dopo pochi mesi, l’Organo di Autogoverno (che più spesso impiega anni a decidere in guisa da far raggiungere serenamente la pensione agli incolpati e poi chiudere il disciplinare con un nulla di fatto) eccezionalmente sollecito a decidere sulla richiesta di trasferimento di quei magistrati per incompatibilità ambientale; neanche chissà che: avrebbero solo dovuto fare le valigie ed andare altrove a fingere di fare i giudici invece di essere spediti a calci nel sedere a fare i fattorini per Glovo.

    Il Consiglio ha deciso di archiviare il tutto perché l’accaduto è (testuale) “privo di ricadute nell’esercizio indipendente ed imparziale sulla giurisdizione”: il richiamo all’imparzialità in questo caso più che un insulto all’intelligenza è asserto da voltastomaco ed in un Paese civile tutti i cittadini, quelli nel cui nome viene esercitata la giustizia, avrebbero dovuto essere adeguatamente informati di questa duplice vergogna e, traendone le conclusioni, prendere d’assalto Palazzo dei Marescialli come fosse la Bastiglia; ogni altro commento è lasciato a voi lettori.

    La seconda vicenda è un po’ meno stomachevole: si tratta del risarcimento per ingiusta detenzione riconosciuto (giustamente va detto) dalla Corte d’Appello di Milano a Pasquale Longarini, già Procuratore della Repubblica di Aosta, vittima di una giustizia (?) che ha impiegato anni per assolverlo da accuse infamanti di induzione indebita, violazione del segreto di ufficio e favoreggiamento. Nessuno nega che a quest’uomo sia stata rovinata la vita, la carriera e che abbia subito l’onta di due mesi di arresti domiciliari ma…la riparazione per ingiusta detenzione è prevista proprio solo per le carcerazioni preventive rivelatesi ingiuste a seguito di assoluzione e la domanda che ci si deve porre è perché al Dott. Longarini siano stati corrisposti circa 800 euro per ogni giorno di prigionia domestica (in totale quasi 50.000). Infatti, per un comune mortale la “tariffa” non arriva a 120 euro/giorno: 1/7, più o meno…più meno che più se si considera che recentemente ad un imprenditore di Frosinone per due anni e otto mesi di carcere e cinque mesi di arresti domiciliari sono stati versati 160.000 euro. Soldi, comunque, di noi contribuenti: evidentemente l’abito non fa il monaco ma il tipo di toga indossata fa il risarcimento.

  • Lo scontro democratico tra garanzie ed opportunità

    Una democrazia rappresenta la forma di governo all’interno della quale, come nel periodo degli antichi Greci, tutti potevano godere degli stessi diritti e tutti potevano accedere a determinati incarichi pubblici in base alla propria competenza.

    Questa forma di governo basata sul principio di uguaglianza riportata all’era contemporanea offre anche delle opportunità (che rappresentano un concetto radicalmente diverso da quello di garanzia democratica) per chi sappia utilizzare e magari volgere a proprio favore delle “vacatio legis” tali da non definire una base minima di requisiti per la eleggibilità.

    Questa lacuna viene abitualmente interpretata da ogni forza politica come la possibilità di proporre per una carica elettiva candidati il cui unico merito è quello di rappresentare una vicinanza alla stessa compagine politica. Tuttavia, proprio perché in altri campi la legge nazionale risulta invece molto precisa nella definizione dei requisiti minimi di accesso, questa vacatio diventa non più una caratteristica della democrazia ma una semplice quanto banale opportunità speculativa.

    Il principio principe delle uguaglianza, già presente nella democrazia dell’antica Grecia, viene così azzerato quando per accedere ad un qualsiasi concorso del personale di servizio ATA il candidato deve risultare incensurato mentre una persona che abbia già subito quattro condanne e ventinove denunce possa venire tranquillamente candidata ed eletta al Parlamento Europeo.

    In fondo sarebbe bastato adottare il medesimo criterio richiesto per l’accesso ai concorsi pubblici come espressione della semplice garanzia democratica.

    Questa elezione di Ilaria Salis rappresenta in buona sostanza il risultato di uno sfruttamento della “Opportunità” che un sistema democratico assolutamente perfettibile non ha ancora avuto il coraggio di normare adeguatamente.  In altre parole, il voto non può e non deve rappresentare l’unica forma di manifestazione della democrazia.

    Questo, invece, si dovrebbe inserire all’interno di un sistema elettorale nel quale venisse adottato un criterio comune in relazione alla eleggibilità. Come logica conseguenza, quindi, i leader di partito non possono sentirsi esenti da una propria responsabilità quando utilizzano nel sistema una opportunità a proprio semplice beneficio politico, in più spacciandola come espressione di una garanzia democratica.

    La democrazia dovrebbe essere gestita cum grano Salis  da chi pretende di stabilirne i principi democratici ma che per opportunità politiche lascia la definizione di accesso assolutamente libera ed espressione degli interessi delle  formazioni politiche.

    In fondo basterebbe solo un minimo di discernimento in quanto la democrazia non può essere intesa come una giostra alla quale chiunque, solo in quanto scelto da un partito, possa accedere.

    Il livello di una democrazia comincia dalla qualità dei candidati i quali, per il principio di uguaglianza, dovrebbero essere soggetti ai medesimi obblighi di legge sia per un concorso pubblico quanto per la semplice presentazione di una candidatura.

  • Alla vigilia dell’8 marzo dall’UE il grido dall’allarme sull’ancora difficile equilibrio di genere

    “Il 2024 è un anno storico sul piano elettorale: in tutto il mondo oltre 4 miliardi di persone saranno invitate a esprimere il loro voto, tra cui oltre 400 milioni di cittadini e cittadine dell’UE che voteranno alle elezioni del Parlamento europeo a giugno. In occasione di questa Giornata internazionale della donna riconosciamo il coraggioso attivismo delle suffragette europee che si sono battute per il diritto di voto quando questo era il privilegio degli uomini, e di tutte le donne, in tutta la loro diversità, che contribuiscono a plasmare una società più equa e paritaria”. E’ quanto affermano, in una dichiarazione congiunta, in occasione della Giornata internazionale della donna, la Commissione europea e l’Alto rappresentante/Vicepresidente. Il tema generale del 2024 è “Ispirare l’inclusione”, in linea con il tema di quest’anno delle Nazioni Unite, “Investire nelle donne: accelerare il progresso”. Purtroppo, come dalla Commissione sottolineano, la percentuale di donne nel mondo politico è però ancora lontana dall’essere rappresentativa delle nostre diverse società, con appena il 33% delle rappresentati nelle camere uniche o basse dei parlamenti negli Stati membri dell’UE e del 26,5% a livello mondiale.

    Nel 2023 solo sei Stati membri avevano raggiunto un equilibrio di genere superiore al 40% tra i loro parlamentari, mentre in sette Stati membri le donne parlamentari erano meno del 25%. Al Parlamento europeo si è prossimi a un equilibrio di genere di 40% di donne e 60% di uomini. A gennaio 2024 solo cinque Stati membri su 27 avevano capi di Stato di sesso femminile. A livello mondiale le donne detengono appena il 26,7% dei seggi parlamentari, il 35,5% dei seggi delle amministrazioni locali e solo il 28,2% delle posizioni dirigenziali sul luogo di lavoro. Se l’attuale lentezza dei cambiamenti persiste, entro il 2050 la percentuale di donne in posizione dirigenziale sul luogo di lavoro raggiungerà solo il 30%.

    E in molte parti del mondo le donne non possono ancora partecipare alla vita pubblica e in alcuni contesti sono completamente escluse dal processo decisionale e dallo spazio pubblico. “In tutte le società le donne continuano a subire discriminazioni e sono più esposte al rischio di violenza online e offline. Questo fatto è particolarmente grave per le donne in politica, le giornaliste e le attiviste, in particolare quelle che si battono per la difesa dei diritti umani. In quest’anno di elezioni incoraggiamo ovunque tutte le donne, anche le giovani, a esercitare il loro diritto di voto, rivendicare il loro spazio nella società e sentirsi in grado di partecipare alla vita politica”, dichiarano da Bruxelles.

    La Commissione ha appena pubblicato la relazione 2024 sulla parità di genere nell’UE, che offre una panoramica dei progressi compiuti nell’attuazione della strategia per la parità di genere 2020-2025. La maggior parte delle azioni previste dalla strategia è già stata realizzata. La prima Commissione guidata da una donna e composta da un collegio dei commissari equilibrato sotto il profilo del genere e la prima Commissaria per l’Uguaglianza sono riuscite a porre la parità di genere al centro dell’agenda dell’UE. La Commissione ha inoltre conseguito progressi sostenibili, raggiungendo un equilibrio di genere a tutti i livelli dirigenziali. Al 1º marzo 2024 il 48,5 % di tutte le posizioni dirigenziali in seno alla Commissione è occupato da donne.

    La svolta più recente è l’accordo politico raggiunto il 6 febbraio 2024 tra il Parlamento europeo e il Consiglio sulla proposta della Commissione di direttiva sulla lotta alla violenza contro le donne e alla violenza domestica. Questa direttiva è il primo strumento giuridico completo a livello dell’UE per contrastare la violenza contro le donne, ancora troppo dilagante. La direttiva configura come reato in tutta l’UE determinate forme di violenza contro le donne, commesse sia offline che online. Le mutilazioni genitali femminili e i matrimoni forzati costituiranno reati a sé stanti. Costituiranno reato anche le forme più diffuse di violenza online, tra cui la condivisione non consensuale di immagini intime (compresi i deepfake), lo stalking online, le molestie online, l’incitamento all’odio misogino e il “cyber-flashing”. La direttiva prevede inoltre misure esaustive per la protezione delle vittime, l’accesso alla giustizia e il sostegno, quali case rifugio, centri anti-stupro e linee di assistenza telefonica. Le vittime di tutte le forme di violenza contro le donne che configurano reato a livello nazionale potranno beneficiare di tali misure.

  • Riflessioni riferendosi alla Giornata mondiale dei Diritti Umani

    La violazione del diritto avvenuta in un punto della terra è avvertita in tutti i punti.

    Immanuel Kant

    “Tutti gli uomini sono per natura egualmente liberi e indipendenti. Quest’eguaglianza è necessaria per costituire un governo libero. Bisogna che ognuno sia uguale all’altro nel diritto naturale”. Così scriveva Philip Mazzei nel 1774 nel The Virginian Gazette (Il giornale di Virginia; n.d.a.). Egli, come anche il suo amico Thomas Jefferson, uno dei Padri Fondatori degli Stati Uniti d’America, nonché altri loro amici e colleghi, erano convinti che gli uomini nascono tutti liberi e devono beneficiare di questa loro innata libertà. Una convinzione espressa dalla frase All men are created equal (Tutti gli uomini sono creati uguali; n.d.a.). Due anni dopo, è stato proprio Thomas Jefferson ad inserire questa frase all’inizio del testo della Dichiarazione dell’Indipendenza degli Stati Uniti d’America, proclamata il 4 luglio 1776. Il testo della Dichiarazione comincia con questo paragrafo: “Quando nel corso di eventi umani, sorge la necessità che un popolo sciolga i legami politici che lo hanno stretto a un altro popolo e assuma tra le potenze della terra lo stato di potenza separata e uguale a cui le Leggi della Natura e del Dio della Natura gli danno diritto, un conveniente riguardo alle opinioni dell’umanità richiede che quel popolo dichiari le ragioni per cui è costretto alla secessione”. Per poi proseguire con un ben noto paragrafo, il cui inserimento è stato attribuito proprio a Thomas Jefferson. In quel secondo paragrafo della Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti d’America, i 55 firmatari della Dichiarazione, rappresentanti dei tredici primi Stati Uniti d’America, confermavano: “Noi sosteniamo che queste verità sono per sé evidenti: che tutti gli uomini sono creati uguali; che sono dotati dal Creatore di certi diritti inalienabili, tra i quali vi sono la vita, la libertà e la ricerca della felicità; che per garantire questi diritti sono istituiti tra gli uomini i governi, che derivano i loro giusti poteri dal consenso dei governati; che, ogni qualvolta una forma di governo diventi perniciosa a questi fini è nel diritto del popolo di modificarla o di abolirla”. Si tratta di concetti diretti, semplici, chiari e molto significativi che annoverano tra gli altri diritti innati, inalienabili e fondamentali dell’uomo anche la vita, la libertà e la ricerca della felicità. Un concetto, quest’ultimo, il quale è stato trattato già da diversi filosofi della Grecia antica. Per loro l’Eudaimonia (la felicità; n.d.a.) era molto importante. Lo stesso concetto, quello della ricerca, il perseguimento della felicità, è stato trattato anche dall’illuminismo europeo, per poi trovare espressione scritta nelle costituzioni di diversi Paesi del mondo.

    Solo tredici anni dopo la proclamazione dell’Indipendenza degli Stati Uniti d’America, in Francia, il marchese de La Fayette, amico di Thomas Jefferson, presentava all’Assemblea nazionale, riunita a Versailles, il testo della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino. Il testo è stato discusso durante la riunione dell’Assemblea (tra il 20 ed il 26 agosto 1789). Un testo quello in cui si trovavano inseriti anche i concetti trattati dai Padri Fondatori degli Stati Uniti d’America, compresa la “ricerca della felicità”. Però nel testo della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino trovava espressione anche l’obiettivo delle istituzioni politiche, la ricerca della “felicità di tutti”. Il testo è stato in seguito ratificato dal re Luigi XVI, in seguito alla marcia su Versailles, il 5 ottobre 1789. Così, proprio in quel 5 ottobre 1789, è stata approvata la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino (in francese La Déclaration des droits de l’homme et du citoyen; n.d.a.). Ma il testo della Dichiarazione, contenente un preambolo e 17 articoli, trattava molti altri concetti riguardanti i diritti fondamentali dell’essere umano. Nel preambolo della Dichiarazione si sanciva che “I Rappresentanti del Popolo Francese, costituiti in Assemblea Nazionale, considerato che l’ignoranza, la dimenticanza o il disprezzo dei diritti dell’uomo sono le uniche cause delle sventure pubbliche e della corruzione dei governi, hanno stabilito di esporre, in una solenne Dichiarazione, i diritti naturali, inalienabili e sacri dell’uomo, affinché questa Dichiarazione, costantemente presente a tutti i membri del corpo sociale rammenti loro continuamente i loro diritti e i loro doveri; affinché gli atti del Potere legislativo e quelli del Potere esecutivo, potendo essere in ogni momento paragonati con il fine di ogni istituzione politica, siano più rispettati; affinché i reclami dei cittadini, fondati d’ora innanzi su principi semplici e incontestabili, si rivolgano sempre alla conservazione della Costituzione e alla felicità di tutti”. Nel primo articolo si affermava: “Gli uomini nascono e rimangono liberi ed eguali nei diritti. Le distinzioni sociali non possono essere fondate che sull’utilità comune”. Mentre nel secondo articolo si sanciva che “Lo scopo di ogni associazione politica è la conservazione dei diritti naturali e imprescrittibili dell’uomo. Questi diritti sono la libertà, la proprietà, la sicurezza e la resistenza all’oppressione”. La libertà veniva sancita nel quarto articolo della Dichiarazione: “La libertà consiste nel poter fare tutto ciò che non nuoce ad altri; cosi l’esistenza dei diritti naturali di ciascun uomo non ha altri limiti che quelli che assicurano agli altri membri della società il godimento di questi stessi diritti. Questi limiti non possono essere determinati che dalla Legge”. I seguenti articoli della Dichiarazione trattavano il modo in cui doveva funzionare la legge, nonché il modo come si dovevano garantire i diritti dell’uomo e del cittadino. “La società nella quale la garanzia dei diritti non è assicurata, né la separazione dei poteri determinata, non ha Costituzione”, si affermava nell’articolo 16. Mentre l’ultimo articolo della Dichiarazione sanciva: “La proprietà è un diritto inviolabile e sacro, pertanto nessuno può esserne privato, se non quando la pubblica necessità, legalmente constatata, lo esige evidentemente, e sotto la condizione d’una giusta e previa indennità”.

    Sempre in Francia il 21 marzo del 1804 è stato proclamato “Il Codice civile dei francesi” (Code civil des français; n.d.a.) noto anche come il Codice napoleonico, riferendosi proprio a colui che lo ha voluto, l’imperatore Napoleone Bonaparte. Il Codice civile, prima di essere ufficializzato dal richiedente, è stato discusso dalla Corte di Cassazione e dal Consiglio di Stato. Organismi quelli presieduti, in quel periodo, ovviamente, dallo stesso imperatore. In seguito il Parlamento ha approvato il Codice. Si tratta di un testo concepito ed elaborato da una apposita commissione scelta e nominata da Napoleone Bonaparte. Il Codice civile presentava, in un solo testo, tutto ciò che aveva a che fare con il concetto del diritto, tenendo ben presente quanto era stato sancito dalla Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino nel 1789. Nel periodo in cui Napoleone aveva chiesto alla commissione da lui nominata di redigere il Codice si faceva riferimento al sistema del diritto comune, che si basava ai principi del sistema del diritto romano. Il che, in quel periodo, noto come l’Ancient régime (Regime vecchio, passato; n.d.a,), causava di solito delle difficoltà nella valorizzazione e nel trattamento giuridico dei singoli casi e, di conseguenza, portava anche a delle decisioni non giuste e a delle disuguaglianze. Nonostante sia stato redatto all’inizo del XIX secolo, il Codice napoleonico viene ancora considerato come un Codice a cui fare riferimento. Per gli specialisti della giurisprudenza, il Codice napoleonico viene ancora considerato come il primo codice contemporaneo. Bisogna sottolineare, basandosi su fatti storici, che il Codice napoleonico, è stato valutato anche da alcuni noti scrittori francesi come Stendhal prima e Paul Valery poi il quale scriveva convinto, addirittura, che il Codice napoleonico era “uno dei capolavori della letteratura francese”. Mentre un altro noto scrittore francese, Jules Romains, con spiccato senso di umorismo, suggeriva di leggerlo prima di dormire.

    Basandosi a quei importanti testi di giurisprudenza, dopo più di un secolo dopo, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, il 10 dicembre 1948, ha promulgato un’altro testo importante. Un testo al quale si fa spesso ormai riferimento: la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, con i suoi trenta articoli. In quel giorno, il 10 dicembre 1948, a Parigi, i rappresentanti istituzionali degli Stati membri delle Nazioni Unite hanno approvato, con la propria firma, un documento che sanciva tutti i diritti dell’essere umano, diritti universalmente riconosciuti in quel periodo. Si trattava di un  documento discusso e redatto dai rappresentanti di molti Paesi del mondo, membri delle Nazioni Unite. Paesi nei quali si usavano diversi sistemi legali. In base alla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, tutti gli esseri umani avevano gli stessi diritti. Il primo articolo della Dichiarazione sanciva che “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”. In seguito, il terzo articolo affermava che “Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della propria persona”. Mentre il sesto articolo stabiliva che “Ogni individuo ha diritto, in ogni luogo, al riconoscimento della sua personalità giuridica”, seguito poi dalla garanzia che dava il settimo articolo: “Tutti sono eguali dinanzi alla legge e hanno diritto, senza alcuna discriminazione, ad un’eguale tutela da parte della legge. Tutti hanno diritto ad un’eguale tutela contro ogni discriminazione che violi la presente Dichiarazione come contro qualsiasi incitamento a tale discriminazione”. E poi seguono tutti gli altri articoli della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, promulgata il 10 dicembre 1948 a Parigi dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, che sanciscono tutti i diritti dell’uomo che devono essere obbligatoriamente rispettati. Un obbligo che devono rispettare tutti i Paesi delle Nazioni Unite. La Dichiarazione si conclude con l’articolo 30 che sancisce: “Nulla nella presente Dichiarazione può essere interpretato nel senso di implicare un diritto di qualsiasi Stato, gruppo, o persona di esercitare un’attività o di compiere un atto mirante alla distruzione dei diritti e delle libertà in essa enunciati”. E proprio facendo riferimento a quella data, il 10 dicembre, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, il 4 dicembre 1950 ha approvato la Risoluzione 423 (V), con la quale proponeva a tutti gli Stati membri delle Nazioni Unite di celebrare ogni anno, in quella data, la Giornata mondiale dei Diritti Umani. Una ricorrenza celebrata anche quest’anno, domenica scorsa, 10 dicembre.

    I diritti dell’essere umano vengono sanciti anche dalla Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione europea, nota anche come la Carta di Nizza, ufficialmente presentata il 7 dicembre 2000 a Nizza, in Francia. Una versione elaborata della stessa Carta è stata in seguito adattata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo, sia dal Parlamento europeo che, poi, dal Consiglio e dalla Commissione europea. Ma nonostante tutti quei documenti, fatti accaduti alla mano, in diversi Stati membri delle Nazioni Unite spesso i diritti dell’essere umano vengono violati e calpestati. Ed in alcuni di loro non vengono mai rispettati, anzi! Una significativa testimonianza è stato il conferimento del Premio Nobel per la Pace ad Oslo, domenica scorsa, 10 dicembre, a Narges Mohammadi, una nota attivista iraniana per i diritti dell’uomo, la quale nel gennaio 2022 è stata condannata a otto anni e due mesi di reclusione, due anni di esilio e 74 frustate! Ma non è solo l’Iran dove non si rispettano i diritti dell’essere umano. Ci sono anche diversi altri Paesi e, fermandosi solo in Europa, si potrebbero elencare la Turchia, la Russia e, per quello che potrebbe essere valido, anche l’Albania.

    Chi scrive queste righe, riflettendo sui diritti dell’essere umano, è convinto, basandosi alle continue e secolari esperienze, che se una persona non è consapevole e disponibile a riconoscere prima i propri doveri e poi ad adempierli non può considerare ed, in seguito, neanche rispettare i diritti degli altri. E non può pretendere che vengano rispettino i suoi diritti. Un obbligo anche per coloro che esercitano i poteri istituzionali, non importa dove essi si trovino. Le conseguenze si sentiranno, prima o poi, ovunque. Proprio come affermaava Immanuel Kant, il quale era convinto che la violazione del diritto avvenuta in un punto della terra è avvertita in tutti i punti.

  • Legge Zan e la rana democratica

    All’interno di una società evoluta e democratica le persone non vengono identificate in base alle proprie affinità sessuali ma semplicemente per le loro idee e come “tali ed uguali” ricevono la medesima tutela giuridica. Nel caso in cui le attitudini sessuali possano diventare un motivo di aggressione risulta evidente come le vittime debbano venire salvaguardate esattamente nello stesso modo di quelle aggredite per altre motivazioni.

    Nel furore ideologico integralista che sottende la legge Zan se questa venisse applicata non solo alla sfera personale e sessuale ma anche a quella religiosa nel momento in cui qualcuno dicesse, ad esempio, che considera l’Islam estremo e radicale un supporto al fondamentalismo e quindi al terrorismo islamico potrebbe venire rinviato a giudizio per discriminazione religiosa e incitamento all’odio religioso.

    La libertà di espressione trova già delle giuste limitazioni e conseguenti responsabilità penali e civili quindi introdurre un nuovo parametro interpretativo etico e soprattutto politico (perché la tutela della persona è già ampiamente prevista) e sottoporla ad una ulteriore valutazione di un giudice ne rappresenta inevitabilmente una sua limitazione.

    La libertà di pensiero e di espressione deve sempre essere tutelata e contemporaneamente resa responsabile all’interno dei principi democratici stabiliti tanto dalla Costituzione quanto dal normale ordinamento penale e civile. Nel momento in cui si cominciano ad introdurre delle eccezioni per la tutela aggiuntiva di una minoranza “definita in base alle proprie attitudini sessuali” (uno dei principi e parametri più ghettizzanti ed umilianti dell’ultimo secolo) a scapito però del principio della libertà di espressione (certamente non di aggressione) viene meno subito una parte minima della democrazia.

    Successivamente a questa riduzione democratica ne seguirà una seconda e forse una terza, sempre sulla base dei medesimi principi etici ed ideologici, gli stessi ispiratori di questa legge ed applicati in altri campi del “diritto”.

    Questa rana “democratica” viene bollita” a propria insaputa “aumentando” di un grado alla volta la temperatura dell’acqua. Così un passo alla volta verrà annullata una prima porzione della nostra libertà di pensiero poi una seconda come espressione di uno stato democratico in nome della nuova follia che il politicamente corretto ha istituzionalizzato. Il passo successivo sarà quello di bruciare i libri – il riferimento al 1933 ed dal rogo dei libri di Hitler è assolutamente calzante – che non risultassero secondo il mainstream in linea con la visione integralista proposta. Esattamente com’è avvenuto in un Ateneo statunitense nel quale sono stati aboliti gli studi dei classici. (*)

    Così, in breve tempo, ci ritroveremo all’interno di uno Stato etico molto più simile ad uno Stato dittatoriale che non ad una democrazia accidentale.

    Sembra incredibile come il principio di uguaglianza di fronte alla legge e la sua idea della realtà quotidiana nasca da una molteplice ghettizzazione definita anche sulla base dei comportamenti sessuali e non dall’annullamento di ogni valutazione valoriale basata sugli stessi.

    (*) Howard University

  • La Veterinaria al femminile va oltre gli stereotipi

    Le donne Veterinarie sono il 51,8% della categoria professionale. Sono soprattutto libere professioniste, titolari di Partita Iva o a regime agevolato/forfettario, e ritengono “irrinunciabile” l’indipendenza economica (95%). Ma giudicano il proprio reddito “insoddisfacente” (44%) e per questo chiedono allo Stato politiche di sostegno economico-finanziario. Soprattutto per la maternità.

    E’ l’istantanea di una consultazione condotta dall’ANMVI (v. nota) sulla professione veterinaria al femminile, dalla quale emerge una questione di genere concreta e priva di luoghi comuni.

    In attività– La maggioranza delle partecipanti (90%) è in attività professionale e il settore prevalente è la medicina veterinaria per animali da compagnia. Ha un’età compresa fra i 30 i 50 anni (il 64% del campione) ha almeno un figlio (48%) e vorrebbe più tempo da dedicare alla famiglia attuale o di origine (70%).

    La carriera- Le Veterinarie chiedono di non dover essere costrette a scegliere fra vita extra-professionale e carriera professionale. Carriera professionale che le vede prevalentemente (42%) in posizioni di collaborazione presso realtà societarie o associative delle quali sono ancora poche quelle al vertice come direttrici sanitarie, comproprietarie di quote o titolari (23%).

    L’80% delle partecipanti non ha mai ricoperto ruoli di vertice in ambito veterinario. E tuttavia, gli incarichi di rappresentanza non sembrano attrarre: il criterio dell’equilibrio di genere introdotto dalla riforma degli Ordini delle professioni sanitarie (cd Legge Lorenzin) è valutato positivamente dal 33%, ma è indifferente per il 59%.

    Gender o a-gender? – Le Veterinarie non danno una connotazione di genere alla professione medico veterinaria in sé, ma spostano il focus sulle condizioni di esercizio in quanto donne. Anche il sorpasso di genere fra gli iscritti all’albo nazionale non vale come rivendicazione, ma è principalmente un dato “neutro”.

    Maternità e tempo– La dimensione donna entra davvero in gioco quando si tratta di maternità e genitorialità. L’88% chiede sostegni strutturali allo Stato più che alle organizzazioni di categoria. Il 51,5% vorrebbe sostegni al lavoro domestico per poter ridurre il carico di lavoro extra professionale. Conciliare il tempo professionale con quello extra-professionale è un’abilità che riesce a poche (16%). Solo il 19% auspica una riduzione del carico professionale. E per il 52% delle rispondenti il tempo da dedicare all’aggiornamento professionale è “insufficiente”.

    Una professione adatta alle donne– Per il 60% delle Veterinarie la professione è adatta alle donne. Che le donne abbiano un proprio peculiare approccio- sia al cliente che al paziente in cura- è vero “a volte” per la maggioranza delle rispondenti (36%) e non lo è per il 17%. Percentuali che diluiscono e la connotazione di genere, guardando alla professionalità come ad un valore a-gender.

    Discriminazione– Quando c’è discriminazione (23% sì, 22% a volte) verso la Veterinaria donna, essa proviene soprattutto dai clienti (33%): in generale, la discriminazione verso la donna Veterinario è dovuta principalmente a pregiudizi sulle capacità professionali (66%) e alla resistenza culturale a guardare alla donna come al “dottore” e non a una figura ausiliaria. Raggiunge la significativa percentuale del 45% la quota di Veterinarie che intravvede una esposizione al rischio di discriminazione e di violenza di genere.

    I rapporti con i Colleghi- Nei rapporti con i più stretti Colleghi di lavoro, le Veterinarie si confermano ben poco influenzate dal genere, a prevalere nei giudizi è un equidistante “dipende” (42%) seguito da un 37% di rispondenti per le quali “non c’è differenza” di genere. Nei commenti liberi, le partecipanti stigmatizzano però che la maternità, in atto o potenziale, è un fattore sfavorevole nei colloqui di lavoro o per il mantenimento dei rapporti di lavoro. Ma il gender gap, per il 63%, è un problema culturale generale universale, che va oltre lo specifico della Veterinaria (solo il 15% pensa che la mancanza di pari opportunità per le donne Veterinarie dipenda da fattori endogeni della Categoria). Un 10% attribuisce delle responsabilità alle stesse donne.

    Superare gli stereotipi- Superare gli stereotipi di genere e favorire la sensibilità di genere sono due priorità culturali, accanto ad un cambio di mentalità e allo sviluppo di una maggiore coesione fra i sessi.

    NOTA – “Essere Veterinarie, essere Donne Consultazione sulla dimensione professionale femminile” – Questionario e commenti liberi somministrato nel periodo settembre- novembre 2020. Rispondenti 2.246 Veterinarie – ©ANMVI 2020

    Ufficio Stampa ANMVI – Associazione Nazionale Medici Veterinari Italiani- 0372/40.35.47

  • Solo con l’educazione si può conquistare la parità di genere

    Le leggi, le numerose prese di posizioni, gli appelli e le condanne, che le parole esprimono con decisione, non modificano la realtà: l’uccisione di donne aumenta e viviamo in una società maschilista non perché il Pd non ha ministri donna ma perché, dall’educazione scolastica a quella famigliare, non si insegna il rispetto dell’altro e le donne ne subiscono le conseguenze.

    La parità di genere non si conquista se non attraverso l’educazione che i bambini dovrebbero ricevere fin dalla culla, che i maschi adulti dovrebbero apprendere dalla società che li circonda, società che invece sulle disuguaglianze discetta molto per non eliminarle quasi mai. Educazione, cultura, costume anche per insegnare alle donne a rispettarsi di più, a non cedere alle lusinghe di droga o denaro facile, a sapere che la libertà ha anche il prezzo di rendersi il prima possibile autonome e capaci di gestire la propria vita, a prescindere da quanto possa essere difficile, faticoso accettare una momentanea solitudine piuttosto che un rapporto poco chiaro o violento. Bisogna pensare meglio a come prevenire situazioni che troppo spesso si tramutano in fatti di sangue. Il covid ha fatto più chiaramente emergere le troppe violenze, fisiche e morali, che troppe volte si consumano in ambito domestico. Il legislatore, prima della tanto attesa ed urgente riforma della giustizia, deve occuparsi subito almeno di tutto quanto riguarda i crimini di violenza contro donne e bambini, sia per quanto riguarda gli interventi immediati da fare dopo segnalazioni e denunce, sia per le corsie celeri, che devono portare a decisioni rapide per isolare gli uomini violenti, che per dare concrete ed immediate opportunità di vita alle donne che devono fuggire dalla violenza. Forse anche questo aspetto economico e sociale dovrebbe essere affrontato con i fondi europei perché le poche strutture, prive di sufficienti mezzi, che esistono oggi non sono in grado di arginare il sangue che bagna le mimose.

  • Italia sesta in Europa per leadership femminile in azienda, ma solo il 4% delle donne è Ceo

    I progressi ci sono, ma non tutti in Europa hanno lo stesso passo nel cammino che porta le donne ai vertici delle aziende. E la pandemia di Covid, tra nuovi equilibri di conciliazione e crisi dell’occupazione, rischia di pesare ancora di più sul mondo femminile. E’ la fotografia scattata dallo studio europeo di Ewob, l’associazione European Women on Boards di cui fa parte l’italiana Valore D, che ogni anno analizza la rappresentanza di genere nei consigli di amministrazione e nei posti di comando aziendali delle più grandi realtà europee.

    In Norvegia, Francia, Regno Unito, Finlandia e Svezia le aziende sono vicine all’equilibrio di genere ai vertici societari, diversamente da ciò che si registra in paesi come Polonia e Repubblica Ceca, tutt’altro che orientati alla leadership femminile. L’Italia si trova in sesta posizione nell’indice di Gender Diversity. Si colloca nella parte alta della classifica registrando un indice di 0,60 – leggermente superiore alla media europea – e posizionandosi davanti a Olanda, Belgio e Irlanda. Con un indice di 0,74 è la Norvegia a vantare le aziende più performanti in termini di uguaglianza di genere. Nel Belpaese i dati testimoniano una buona presenza di donne nei consigli di amministrazione (22%) e nei comitati di controllo (45%) dettata anche, tuttavia, da una legislazione favorevole. Ma sui livelli esecutivi la musica cambia: le donne al vertice delle aziende sono solo il 17% contro il 33% della Norvegia e il 25% del Regno Unito e solo il 4% riveste il ruolo di amministratore delegato, contro il 21% della Norvegia o il 15% dell’Irlanda. “È grazie alla legge Golfo-Mosca se oggi in Italia abbiamo migliorato la rappresentanza femminile nei Consigli di amministrazione, ma il percorso è lungo. Ancora troppo esiguo il numero di donne ai vertici delle aziende nei livelli executive e ceo”, spiega Paola Mascaro, Presidente di Valore D. Sono appena il 6% le società che compongono l’indice di Borsa Stoxx Europe 600 con a capo una donna e solamente in 130 (19%) è presente una donna che a livello europeo ricopre la funzione di amministratore delegato o direttore operativo. La parità nella stanza dei bottoni però sembra ancora lontana: i ruoli dirigenziali sono il 28% del totale. La presenza femminile all’interno dei Cda è invece del 34% ed è il livello di governance che registra la maggiore partecipazione delle donne.Il 2020, nonostante la pandemia, è stato comunque un anno di progresso. “Rispetto al 2019, l’avanzamento della leadership femminile si è tradotto concretamente in un aumento delle donne Ceo che oggi sono 42, 14 in più rispetto all’anno scorso”, sottolinea Päivi Jokinen, presidente di European Women on Boards.

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