Università

  • Conte e Fedeli: la credibilità istituzionale

    Conte non è il nome dell’allenatore del Chelsea ma di colui che dovrebbe diventare primo ministro e che è stato presentato come una persona specchiata e preparata. Viceversa, e purtroppo per l’Italia, molte università stanno precisando l’assoluta mancanza di riscontri inseriti all’interno del curriculum vitae del candidato primo ministro. Quello che trovo incredibile non è tanto l’aver inserito step professionali inesistenti uniti a corsi e Master altrettanto frutto di pura fantasia con l’obbiettivo di aumentare l’appeal politico ed il prestigio presso i cittadini italiani di una persona praticamente sconosciuta, francamente non ho nessun motivo per mettere in dubbio la professionalità relativa alla questione della pubblica amministrazione e dell’ inevitabile e assolutamente improcrastinabile aggiornamento e rinnovamento. Aver appoggiato però un ciarlatano venditore di fumo, come fu il promotore della vicenda stamina, qualche dubbio sull’equilibrio del candidato premier lo suscita. Quello che trovo francamente incredibile, insopportabile e assolutamente inaccettabile è che questa persona abbia ottenuto delle docenze universitarie truccando i propri curriculum e l’università non abbia verificato mai una volta se quanto affermato fosse realmente rispondente alla verità.

    Esattamente come nel caso dell’attuale Ministro della Pubblica Istruzione Fedeli la quale ha mentito per trent’anni affermando di possedere una laurea quando invece aveva la terza media. Trovavo incredibile allora come  adesso che la CGIL per la quale ed in nome della quale questa mentitrice ha operato. Trovo incredibile che la CGIL non abbia dimostrato la sensibilità di emettere un comunicato nel quale si dissociava dalla pratica truffaldina della propria esponente e dirigente.

    Ora trovo altrettanto incredibile che l’Università presso la quale questo docente detiene in modo improprio una cattedra basandosi su un curriculum inesistente non emetta una dichiarazione nella quale sospende immediatamente il professore in attesa di accertamenti.

    Ecco perché nonostante la differenza di spessore culturale evidente ed innegabile tra una povera bugiarda e una persona comunque di cultura, il caso Fedeli e Conte risultano uguali per l’assoluta inattività degli enti per i quali questi hanno operato. Il silenzio di questi due istituti fondamentali come l’università ed il sindacato di fatto avalla comportamenti quantomeno dubbi arrecando un grande disvalore patrimoniale anche solo nella considerazione generale verso due istituti.

    In altre parole il silenzio del sindacato come dell’università dimostrano come il declino culturale nasce all’interno delle strutture che sono incapaci persino di tutelare la propria onorabilità attraverso la certezza delle professionalità di coloro che in loro nome operano.

  • Erasmus un progetto europeo vincente

    Nel 1987 l’Unione europea dà vita al progetto Erasmus che consente agli studenti universitari dei Paesi membri dell’Unione europea di seguire un periodo di studi in un altro Stato. Nei 31 anni di vita, Erasmus ha consentito a 4,4 milioni di studenti, 663mila dei quali italiani, di frequentare l’università in un altro Paese della Ue. Se a questi studenti universitari si aggiungono quelli in formazione professionale, i partecipanti a scambi giovanili, i docenti e i volontari, ben 9 milioni di persone hanno potuto usufruire di un’esperienza Erasmus. Dal 2014 infatti Erasmus è divenuto Erasmus+, cioè un programma della Ue per istruzione, formazione, gioventù e sport, rivolto a tutti gli studenti dai 13 ai 30 anni, La Ue dal 2014 al 2020 ha stanziato 14,7 miliardi di euro per questa iniziativa, che offre non solo la possibilità di studiare in un altro Paese e quindi di conoscerlo ma è utile anche per creare quei cittadini europei che potranno, si spera, un domani risolvere i tanti problemi ancora irrisolti sia del loro Paese che dell’Unione.

    L’Italia è il quarto Paese, dopo Spagna, Germania e Francia, per numero di giovani in partenza per altri Stati ed è al quinto poso, dopo Spagna, Germania, Francia e UK, per studenti europei ospitati nelle proprie università. Gli italiani scelgono principalmente Spagna, Germania, Francia, UK e Portogallo e gli studenti provengono anzitutto dall’Alma Mater di Bologna, dall’università degli Studi di Padova, dalla Sapienza di Roma, dall’Università degli Studi di Torino e dalla Statale di Milano. Le università italiane che accolgono più studenti dall’estero sono l’Alma Mater, la Sapienza, l’Università degli Studi di Firenze, il Politecnico di Milano e l’università di Padova. Secondo i dati a 5 anni dalla laurea il tasso di disoccupazione degli studenti Erasmus è più basso del 23% rispetto agli studenti non Erasmus.

    Il progetto diventa sempre più importante rispetto alle note difficoltà che sta incontrando la Ue nell’affrontare temi incandescenti come quello dell’immigrazione, del terrorismo, della disoccupazione e della capacità di collaborazione e comprensione reciproca tra Paesi che per storia, tradizioni e abitudini, hanno sistemi non omogenei. La frequentazione di Erasmus non solo migliora complessivamente il grado di cultura ma aiuta anche i giovani a una maggiore consapevolezza delle realtà altrui. L’Europa per diventare effettivamente unita ha certamente bisogno di una politica comune, ma per realizzare una politica comune occorrono cittadini europei e cioè persone che rispettando le proprie nazionalità ed origini siano in grado di comprendere anche gli altri. E partire da giovani a conoscere realtà differenti, a sapersi confrontare ed integrare è un grande passo avanti per realizzare quell’unione di popoli che purtroppo è ancora lontana.

  • L’insostenibilità di un sistema circolare

    Sembra incredibile come in relazione al numero degli iscritti all’Università del 2018 due tra i maggiori quotidiani nazionali affermino il primo che si assista una notevole diminuzione e il secondo che ci si trovi di fronte ad un aumento. Ciò dimostra, ancora una volta, la faziosità ed anche una scarsa professionalità della stampa nazionale. A puro titolo di cronaca l’errore clamoroso nasce  dall’aver calcolato, da parte di una redazione, non solo le nuove matricole ma anche quelli iscritti al primo anno di laurea già immatricolati. Queste due diverse posizioni dimostrano “matematicamente” come l’approccio alla individuazione di un semplice parametro numerico due tra le maggiori testate italiane arrivino a conclusioni diverse quando sarebbe stato sufficiente consultare i dati del Miur.

    Le considerazioni comunque che possono scaturire da questo semplice confronto dimostrano come ormai l’acquisizione di notizie non possa più basarsi sulla lettura di un’unica testata perché espressione di parzialità o quantomeno di posizioni viziate da influenze ideologiche e politiche.

    Tornando alla questione centrale è evidente che anche un settore come quello universitario non possa sottrarsi ad una analisi, e conseguente valutazione, approfondita attraverso l’utilizzo di  parametri economici ed aziendali per valutarne la propria efficacia sia a livello qualitativo che quantitativo del servizio offerto, in modo da offrire una valutazione relativa alle strategie e alle decisioni degli ultimi anni, in relazione soprattutto a quelle future, non sintonizzandosi neanche con il momento economico del nostro paese.

    Conseguenza di questo approccio è come il sistema universitario (come vedremo in seguito) rappresenti un perfetto sistema circolare completamente svincolato da ogni parametro economico e, ancor peggio, da ogni relazione con il momento complessivo economico. Un’azienda infatti in un’ottica di una strategia del breve medio come  lungo termine decide di prefiggersi come obiettivo la crescita dei propri profitti attraverso l’abbattimento o quantomeno all’abbassamento della soglia economica di accesso al proprio bene o servizio. L’obiettivo del maggior fatturato in questo caso viene conseguito attraverso un aumento dell’accesso di potenziali utenti precedentemente esclusi dalla soglia stessa. L’ultima rilevazione statistica  relativa al sistema universitario italiano vede l’Italia come il Paese con il più basso numero di laureati. Al tempo stesso  il nostro paese risulta in grado di  scalare la classifica delle tasse universitarie più care d’Europa fino al terzo posto. Logica conseguenza quindi che il numero dei laureati risulti ma soprattutto continui ad essere in continua decrescita  come espressione della scelta di alzare la soglia economica di accesso all’università. Per altro, anzi, una scelta con l’aggravante di non tenere in assoluto conto il momento storico che dal 2008 investe l’Italia nella sua complessità, non riconoscendo quindi una crisi economica. Un ulteriore elemento a conferma dell’assoluto svincolamento della realtà universitaria dal contesto economico nazionale.

    Se poi un’azienda per vendere il proprio prodotto o servizio crea attraverso degli investimenti propri oppure utilizzando delle  risorse pubbliche al fine di  un abbassamento della “soglia tecnologica di accesso” al servizio (si pensi ad esempio all’importanza della alfabetizzazione informatica che ha permesso a molti utenti di accedere ai servizi web) i risultati appaiono immediatamente evidenti, confermati dall’aumento dell’utenza potenziale, nel breve o medio termine, anche del fatturato. Un incremento del fatturato espressione diretta della maggiore platea di clienti ed utenti potenziali.

    Viceversa il mondo universitario continua nella strategia di innalzare la soglia tecnologica-culturale  di accesso attraverso i test di ingresso che hanno ulteriormente diminuito e scremato il numero degli iscritti e quindi, in prospettiva, dei potenziali laureati. Risulta evidente che il prodotto come il servizio subirà un ulteriore restringimento della base potenziale di utilizzo da parte dei potenziali clienti o, nel caso universitario, degli studenti. In questo senso infatti va interpretata la percentuale di oltre il 40% dei corsi universitari che avviene attraverso un test d’ingresso che rappresenti un indiscusso innalzamento della soglia culturale di accesso. Quest’ultimo poi trova la propria “giustificazione” nella selezione degli studenti che dovrebbero portare a compimento il proprio percorso di laurea. Un dato che viene sonoramente smentito dal fatto che l’Italia, come sempre, risulta fanalino di coda proprio nella produzione di laureati in Europa.

    Tale scelta supportata dalla classe politica e dai rettori per il test d’ingresso avrebbe dovuto assicurare una migliore preparazione ed un migliore sfruttamento delle poche risorse e di conseguenza un miglioramento dei contenuti dei corsi di laurea. Una tesi che dovrebbe venire confermata da una minore dispersione durante gli anni del corso di laurea degli studenti, fino dall’obiettivo della laurea stessa. I miseri dati relativi al numero di laureati dell’Italia rispetto all’Europa dimostra invece esattamente il contrario.

    Paradossale poi che nonostante oggi l’Italia presenti la più bassa percentuale di laureati questi invece di essere ricercati vengano obbligati ad una emigrazione culturale. Non va dimenticato infatti che molti laureati fanno parte di quella pattuglia di 215mila giovani, assieme ai diplomati, che lasciano ogni anno  l’Italia a causa dell’impossibilità di trovare un posto di lavoro adeguato al proprio titolo di studio e conseguentemente una retribuzione adesso adeguata. Inserendo anche in questo contesto una valutazione prettamente economica, considerando che allo Stato un diploma rappresenta mediamente un investimento di circa 92.000 euro di risorse pubbliche investite (fonte Ocse) e ed ogni anno di laurea viceversa 30.000, le risorse pubbliche che annualmente vengono disperse risultano circa di 23 miliardi alle quali vanno anche aggiunti 10 miliardi di mancato Pil.

    Potrà sembrare arbitrario o ingeneroso nei confronti di quella che dovrebbe essere la “eccellenza della produzione culturale italiana” ma  quando gli iscritti e il numero dei laureati risultano in costante e continua diminuzione è evidente che il problema deve essere individuato nella gestione e nella attuazione del progetto culturale come nella gestione della struttura stessa.

    Emerge evidente quindi, in ultima analisi, come il sistema circolare dell’Università risulti  assolutamente svincolato da ogni logica di mercato e di riscontro nei confronti dell’utenza e rappresenti  un lusso per il solo corpo docente  universitario ed un costo insostenibile per la collettività.

    La conseguenza è un’apertura dell’Università ad un contesto di confronto internazionale nel quale i fattori economici intervengono a determinare una base di parametri fondamentali per ottimizzare la gestione finalizzata ad arricchimento dei contenuti come all’aumento della platea degli studenti interessati, con il conseguente  riconoscimento del valore delle lauree stesse che  attualmente in Italia non trova assolutamente riscontro.

     

     

  • L’Italia rifiuta corsi di laurea in inglese, la Danimarca propone consorzi tra università europee

    Nel mondo globalizzato, l’Ue subisce la pressione di altri continenti che hanno accelerato la crescita e lo sviluppo, anche nella ricerca e nell’istruzione. Oggi le università dei paesi dell’Ue sono sottorappresentate nella fascia più alta delle classifiche internazionali delle università e in Paesi come l’Italia corsi di laurea interamente in inglese sono stati bocciati da ricorsi alla magistratura in nome della difesa della lingua autoctona (mentre le aziende italiane danno per scontato che chiunque cerchi lavoro sappia l’inglese e almeno un’altra lingua). Programmi come il Consiglio europeo della ricerca e le azioni Marie Skłodowska-Curie hanno aumentato la mobilità dei ricercatori europei tra i vari atenei del Continente ma manca ancora un progetto organico, capace di attrarre le persone più talentuose di ogni dove, così da gettare le basi per i più alti standard di istruzione e ricerca in tutto il mondo. Soren Pind, ministro danese dell’Istruzione superiore, ha proposto come primo passo per arrivare a quel traguardo la creazione di consorzi tra università e istituti di istruzione superiore e di ricerca di tre o più Paesi, col sostegno finanziario dell’Unione.

  • Studiare e laurearsi in Italia: quasi metà degli universitari si lamenta

    Il 38% degli universitari in Italia non è soddisfatto della propria vita, e ancora di più sono quelli (46% del totale) insoddisfatti del proprio percorso accademico. Gli studenti di India (82%), Cina (76%), Regno Unito (75%), Stati Uniti (73%) e Spagna (70%) risultano essere decisamente più appagati dalla propria vita studentesca. Ben il 36% degli italiani ha pensato almeno una volta di abbandonare l’università, contro il 5% dei cinesi e il 20% degli indiani, preceduti solo dai pari età inglesi (37%). A preoccupare gli studenti in Italia sono l’eccessivo carico di lavoro (51%), la mancanza di equilibrio tra studio, socializzazione e lavoro (44%) e la possibilità di trovare lavoro dopo la laurea (43%). Il tempo dell’insegnamento appaga il 56% del totale contro il 70% della media mentre il 43% degli studenti si dichiara preoccupato dalla gestione delle spese quotidiane, dato poco superiore alla media sovranazionale (40%). Infine, più di un terzo degli studenti (37%) pensa di aver ottenuto un buon rapporto qualità-prezzo dai servizi offerti dal proprio ateneo, valore inferiore a quelli di tutte le altre nazioni, fatta eccezione per il Regno Unito. Gli studenti italiani sono anche tra i più pessimisti nel ritenere che l’università possa aiutarli a risolvere i loro problemi, come quelli legati all’alloggio (53%), alla salute (47%), alla vita sociale (46%) e alle finanze (44%), valori sopra la media.

    Lo scontento è emerso dal sondaggio a livello mondiale condotto da Sodexo intervistando oltre 4000 studenti provenienti da Italia, Cina, Stati Uniti, Spagna, Regno Unito e India relativamente allo stile di vita universitario. Alcuni dati lasciano però perplessi sulle inclinazioni degli italiani, anche quando accedono ad alti gradi di istruzione. «Sorprende un poco la scarsa soddisfazione per il rapporto costi-benefici dell’istruzione universitaria. Le università pubbliche italiane, a dispetto di certi luoghi comuni, presentano costi di accesso fortemente contenuti a fronte di una qualità media elevata che ci viene internazionalmente riconosciuta», spiega Paolo Cherubini, Prorettore Vicario dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca. Per Loredana Garlati, Prorettore all’Orientamento e Job Placement dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca, invece: «La preoccupazione del futuro in un società complessa come quella attuale e in un momento di crisi economica ma anche di valori sembra scoraggiare e condizionare la visione di un percorso universitario, come se si avvertisse una mancanza di proporzionalità tra l’impegno di studio e le possibilità di lavoro. Vista dal lato positivo, lo studente non vede più l’università come un “esamificio”, ma come una comunità da cui attendere non solo qualità didattica ma anche supporto nella soluzione dei propri problemi attraverso servizi orientamento, counselling, alloggi, luoghi di aggregazione, sport etc, oltre a servizi efficienti, ma su questo le università italiane hanno ancora molto da fare”. Infine Michele Rostan, Delegato al Benessere Studentesco presso l’Università degli Studi di Pavia, spiega che: “I risultati dell’indagine ci segnalano che ciò che facciamo, soprattutto nei primi mesi del percorso universitario degli studenti, non sembra sufficiente per rispondere positivamente alle loro domande. Occorre, quindi, un maggiore impegno nel contrastare la dispersione formativa, nell’accompagnare gli studenti nel loro percorso, una maggiore attenzione alla didattica e l’offerta di maggiori spazi dedicati allo studio, soprattutto insieme ad altri studenti».

    Tra i giovani del Bel Paese che hanno pensato di abbandonare l’università il 57% l’ha fatto per problemi legati allo studio, il 28% per problemi economici, il 22% per problemi familiari, il 21% per l’insoddisfazione legata alla qualità dei servizi in relazione al rapporto qualità/prezzo, il 16% per problemi di salute e il 12% per problematiche legate alla vita sociale.

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