Usa

  • Elezioni statunitensi ed aspettative balcaniche

    Ora sapete come è l’aspettativa: immaginosa, credula, sicura;

    alla prova poi, difficile, schizzinosa….

    Alessandro Manzoni

    Rivolgendosi ai suoi discepoli, che insieme con lui erano saliti alla montagna, Gesù disse loro: “Voi siete la luce del mondo. Una città posta sopra un monte non può rimanere nascosta” (Vangelo secondo Matteo, 5/14; n.d.a.). Riferendosi proprio a questi versi anche il puritano inglese John Winthrop si rivolse ai suoi compagni di viaggio, mentre si apprestavano ad arrivare al Nuovo Mondo nel lontano 1630. “Noi dobbiamo sempre considerare che dobbiamo essere come una città sopra una collina; gli occhi di tutta la gente sono su di noi”. Parole che ispirarono anche Ronald Reagan durante il suo ultimo discorso da presidente degli Stati Uniti d’America, dopo la fine del suo secondo mandato. Durante quel discorso, nel gennaio 1989, lui immaginava gli Stati Uniti come “una città luminosa, una città su una collina”. Un modello che, secondo lui, avrebbe dovuto ispirare, illuminare e attrarre tutti coloro che apprezzano la libertà e la democrazia.

    Il 5 novembre scorso si sono svolte le elezioni negli Stati Uniti d’America. Erano le 60e elezioni, dopo le prime, quelle del 1788-1789, in cui è stato eletto il primo presidente degli appena costituiti Stati Uniti d’America, George Washington. Gli Stati Uniti sono stati costituiti durante il secondo congresso continentale il 4 luglio 1776, come unione di tredici colonie britanniche che decisero di staccarsi dal Regno Unito. Durante quel congresso è stato approvato il testo della Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America. Un testo scritto da Thomas Jefferson, uno dei Padri Fondatori della nuova Federazione. Un anno dopo, nel 1787 è stata presentata la Costituzione degli Stati Uniti d’America, che è entrata poi in vigore nel marzo del 1789.

    Il 5 novembre scorso si è votato per eleggere sia il presidente, che tutti i rappresentanti del 119o Congresso, ossia la Camera dei rappresentanti, nonché 34 nuovi rappresentanti del Senato. Ebbene, dalle elezioni è uscito vincitore il candidato del partito repubblicano, Donald Trump, ottenendo il suo secondo mandato non consecutivo come il 47° presidente degli Stati Uniti d’America. In più, dalle elezioni del 5 novembre scorso il partito repubblicano, ad ora, ha vinto anche la maggioranza dei seggi del Senato e della Camera dei rappresentanti.

    Ovviamente le elezioni del 5 novembre scorso negli Stati Uniti d’America non potevano non attirare l’attenzione delle cancellerie di tutto il mondo, dei media e delle più importanti istituzioni internazionali, quelle dell’Unione europea comprese. Il risultato di quelle elezioni ha suscitato delle aspettative anche nei Paesi balcanici. Paesi che, per varie ragioni cercano delle alleanze, oltre a quelle ormai stabilite o, almeno, degli appoggi temporanei. Ragion per cui vedono nel nuovo presidente degli Stati Uniti d’America un probabile alleato e/o sostenitore dei loro interessi. E stanno facendo di tutto per riuscirci, compresi il coinvolgimento degli “emissari” che possono garantire dei “rapporti d’affari” con i più stretti famigliari del presidente appena eletto. Ma ci sono anche alcuni rappresentanti politici dei Paesi balcanici che, nel passato, hanno avuto dei rapporti non buoni con alcune persone molto vicine al nuovo presidente statunitense, persone che con buone probabilità avranno delle importanti cariche istituzionali. Cariche che possono avere delle influenze significative anche nella regione dei Balcani occidentali.

    Le elezioni presidenziali negli Stati Uniti sono state seguite con grande attenzione ed interesse in Serbia. I massimi rappresentanti del Paese hanno festeggiato la vittoria di Donald Trump. Proprio loro che hanno un appoggio dichiarato dal presidente della Russia e da altri Paesi che, sulla carta, non hanno o, almeno, non dovrebbero avere buoni rapporti con gli Stati Uniti d’America. E si tratta di importanti rapporti geopolitici, geostrategici, economici ed altri. Il presidente della Serbia si è vantato di essere stato tra i primi che aveva salutato personalmente il nuovo presidente statunitense.

    “Sono stato tra i primi al mondo. Forse lo ha fatto [prima di me] solo il presidente australiano. Ho parlato anche con delle persone dal suo più ristretto ambiente. […]. In Serbia tutti speravano in una vittoria di Donald Trump a causa degli avvenimenti del 1999. Molte persone pensavano che lui era un diavolo, ma adesso sembrerà un angelo…” ha detto il presidente serbo. Aggiungendo altresì che “…è importante per me che lui è un imprenditore e credo che i nostri rapporti saranno migliori”. Bisogna sottolineare che nel maggio scorso il genero di Trump ha firmato con il governo serbo un contratto di investimenti di circa 500 milioni di dollari per delle costruzioni in pieno centro della capitale della Serbia.

    L‘elezione di Trump ha reso molto felice anche il presidente della Republika Srpska (Repubblica Serba; n.d.a.) di Bosnia ed Erzegovina che è una delle due entità del Paese. I media hanno fatto vedere lui bevendo grappa e cantando, mentre seguiva in televisione i risultati che confermavano la vittoria di Donald Trump. Bisogna sottolineare che il presidente della Republika Srpska è stato dichiarato in precedenza una persona “non grata” per gli Stati Uniti d’America come un estremista serbo. Anche lui però è, come il presidente serbo, molto legato al presidente della Russia. Lui però si è vantato, scrivendo nelle reti sociali dopo la vittoria di Trump, che “Siccome l’ambasciata statunitense a Sarajevo non ha organizzato la festa per la vittoria di Donald Trump l’ho organizzato io come presidente della Republika Srpska”.

    Il risultato delle elezioni presidenziali del 5 novembre scorso negli Stati Uniti è stato seguito anche in Kosovo con interesse. Si perché i massimi dirigenti del Paese avevano delle aspettative per la vittoria della candidata del partito democratico. Ma nonostante ciò anche loro, formalmente, hanno salutato il presidente eletto. Bisogna sottolineare che alla fine del suo primo mandato, il presidente Trump il 4 settembre 2020 ha ospitato nel suo ufficio le delegazioni della Serbia e del Kosovo per firmare un “accordo economico”. Ma, secondo gli analisti, le ragioni erano ben altre, tra cui anche la possibilità di ripartizioni territoriali tra i due Paesi. Una proposta che non è stata mai accettata dagli attuali rappresentanti governativi e statali del Kosovo.

    La vittoria di Donald Trump è stata salutata anche dal primo ministro albanese. Sì, proprio da lui che alla vigilia delle elezioni del 2016 dichiarava convinto che “… nessun problema a ripetere, sia in albanese che in inglese, che Donald Trump è una minaccia per l’America e che non si discute che è una minaccia anche per i rapporti tra l’Albania e gli Stati Uniti”. Il primo ministro albanese allora era altresì convinto che “È vergognoso per gli Stati Uniti d’America eleggere un presidente come Donald Trump!…Se Trump sarà presidente, questa sarà una disgrazia per gli Stati Uniti!”. Il nostro lettore è stato informato di tutto ciò a tempo debito (Dichiarazioni irresponsabili e deliranti, 21 novembre 2016; Piroette geopolitiche e alleanze instabili, 4 novembre 2019). Ma adesso lui ha cambiato completamente opinione sul presidente appena eletto. “La vittoria di Trump potrebbe essere qualcosa migliore per l’Europa”, dichiarava la scorsa settimana da Budapest il primo ministro albanese. Per lui adesso gli Stati Uniti con Donald Trump saranno “una città luminosa, sulla collina”. Chissà perché?! Ma niente può stupire da un saltimbanco senza scrupoli come lui!

    Chi scrive queste righe seguirà come andranno a finire le aspettative balcaniche legate al risultato delle elezioni statunitense del 5 novembre scorso. Ma anche per i rappresentanti politici dei Paesi balcanici potrebbe essere valido quanto scriveva Alessandro Manzoni. E cioè che “Ora sapete come è l’aspettativa: immaginosa, credula, sicura; alla prova poi, difficile, schizzinosa…”.

  • Dalla caduta del muro di Berlino ai nuovi assetti mondiali: l’Europa si svegli

    Il 9 novembre 1989 abbiamo tutti festeggiato la caduta del muro di Berlino e la riunificazione della Germania che rappresentava anche una nuova speranza per un’Unione Europea più forte e coesa.

    A distanza di tempo rimangono ancora irrisolti i problemi dovuti alla riunificazione, non solo quelli economici, tutti gli stati europei hanno infatti, in misura diversa, contribuito a pagarne il costo, ma quelli culturali legati alla permanenza, per tanti anni, degli abitanti della Germania dell’est sotto il giogo comunista e senza conoscere il valore autentici della libertà e della democrazia.

    Oggi la Germania, per molto tempo pilastro fondamentale dell’Unione, sta vivendo una crisi preoccupante per i risvolti interni ed esterni: formazioni politiche estremiste, crisi di governo, riduzione della crescita sono problemi che, assommati a quelli derivanti dalla guerra russa contro l’Ucraina, dalla mancanza di unione politica e di difesa in Europa e dal nuovo corso che con Trump prederanno gli Stati Uniti, destano significative preoccupazioni.

    Il diverso corso che prenderà la politica statunitense verso l’Europa, anche tendendo conto degli altri risvolti internazionali, e l’attuale debolezza tedesca, che va di pari passo a quella francese, e non solo, dovrebbero finalmente convincere il Consiglio europeo ad affrontare immediatamente al proprio interno il confronto sulla urgente necessità di attuare quanto fino ad ora è stato solo enunciato e promesso.

    L’Europa è veramente unita solo se si dota, finalmente, di una politica comune di difesa e di progettualità sociale ed economica, senza l’Unione politica siamo destinati ad un inesorabile declino con catastrofiche conseguenze per noi e per i paesi nostri partner, a cominciare dall’Africa che è sempre più colonizzata da Cina e Russia.

    Il nuovo patto di offesa, più che di difesa, tra Russia e Corea del Nord, la ormai stretta amicizia tra Russia e Cina, la confluenza degli interessi di alcuni paesi Bric verso la ricerca di un diverso ordine mondiale, il che non significa solo modifica di assetti economici ma soprattutto di sistemi culturali e del concetto di libertà e democrazia, non consentono all’Europa ulteriori indugi.

    Anche a noi cittadini il compito di ricordarlo ai nostri rappresentanti nazionali ed europei, solo se sentiranno che la nostra voce è forte e decisa finalmente faranno seguire i fatti alle troppe parole inutili.

  • Le elezioni americane e la vittoria di Trump

    Le ragioni che spingono ogni elettore verso la scelta che farà sono sempre più di una e non ogni volta tutte coscienti perfino per chi vota. Figuriamoci come possano essere tutte chiare a chi cerca di spiegare politicamente il perché di consensi o di ostilità. Certamente, il più delle volte i motivi che spingono con quel voto a stare da una parte o dall’altra o da un’altra ancora sono magari irrazionali, seppur chi lo fa dà a sé stesso spiegazioni del tutto logiche. È ciò che succede nel tifo calcistico. Provate a chiedere ad un tifoso sfegatato perché tifa per quella certa squadra. Vi risponderà con una serie di ragioni apparentemente razionali, ma lui stesso in fondo ne dubita e non riuscirà mai a spiegarsi con sincera sicurezza i motivi di quella “passione”. In politica, quando ancora vivevano le ideologie contrapposte, tutto era più semplice, visto che quali fossero le “verità” e le motivazioni per giustificarle, seppur a posteriori, erano disponibili per tutti, ovunque e ogni giorno. Comunque esistevano i libri “Bibbia”, forse mai letti, che si potevano citare.

    Quando scomparvero le grandi contrapposizioni ideologiche i voti cominciarono a diventare sempre più “mobili” e le “chiese” dovettero fare i conti con “fedeli” sempre più incerti. Fu allora che cominciò a manifestarsi con un costante crescendo il fenomeno dell’astensionismo. Chi continuava a votare, pur mantenendo davanti a sé stesso ed agli altri una qualche ragione oggettivabile dovette, quindi, affidarsi alle personalità che meglio potevano rappresentare, a torto o a ragione, ciò cui aspiravano o immaginavano di aspirare. Frequentemente, il fenomeno avveniva attraverso quel meccanismo che gli psicologi chiamano “proiezione” e che consiste nell’attribuire al personaggio in oggetto obiettivi o caratteristiche che in realtà sono soltanto immaginate.

    Nonostante le evidenti differenze tra i sistemi politici europei e quello americano, in questo secondo caso e in particolare durante le elezioni presidenziali, la scelta è, almeno in parte, dovuta soprattutto alla personalità dei candidati e a come sono percepiti. Dico almeno in parte poiché negli USA la secolare divisione tra soli due partiti ha continuato per molti (ma, evidentemente, non per tutti) a restare una discriminante.

    Gli analisti politici (e gli pseudo-tali) hanno cercato, e a volte trovato, molte ragioni razionali per giustificare la scelta di voto tra Trump e Harris: il fenomeno dell’immigrazione, i problemi di disoccupazione dei colletti blu, l’inflazione, soldi spesi per guerre lontane e incomprensibili, la candidatura tardiva e l’evidente inadeguatezza della candidata democratica, ecc. Tutte motivazioni reali ma ciò che pochi hanno non sufficientemente evidenziato è la ragione psicologica inconscia che ha spinto molti elettori verso una direzione o l’altra. Non va dimenticato che tutti i candidati particolarmente in vista hanno sempre una loro storia, una loro identità, un loro qualche “programma” ma che sono anche oggetto di quella “proiezione” cui si accennava poco sopra. Ebbene, Harris è stata percepita come rappresentante di un sistema ora dominante, soffocante per il popolo e vicino alle élite; Trump come chi si batteva contro quel sistema.

    È innegabile che sia negli Stati Uniti sia nelle altre democrazie occidentali è in corso da tempo uno scivolamento sociale verso il cosiddetto “pensiero unico”. In particolare, proprio le cosiddette “sinistre” (negli USA i Democratici) ne sono i dichiarati interpreti e lo impongono a tutti grazie al controllo esercitato sulla stampa, al conformismo becero degli intellettuali e alla censura praticata in vario modo verso chi non sia “in sintonia”.  Sto parlando di quei presunti “valori” che vengono smerciati come universali ed assoluti, cioè come l’unica verità ammissibile. Eccone qualche esempio: la cultura woke, il politicamente corretto, l’enfasi sul “Bene” dell’immigrazione, l’ideologismo green e quell’assurda a-sessualità che è il pensiero gender. Il paradosso sta nel fatto che mentre nel passato le “sinistre” sembravano essere coloro che prendevano le parti delle minoranze contro la potenziale arroganza impositiva della maggioranza, oggi sono assurte ad essere diventate l’emblema della prepotenza di poche minoranze contro la maggioranza della popolazione.

    Da chi è composta questa “maggioranza”? Da chi sa o percepisce pur senza il coraggio di manifestarlo pubblicamente che il gender è una idiozia perché esistono maschi e femmine, che esistono etero e omosessuali, che esistono anche, seppur rari, i transgender, ma poi ci si ferma li ed il resto è solo frutto di poche fantasie malate o di chi, semplicemente, crede di sentirsi “moderno”. La maggioranza ha capito che la filosofia woke è la negazione delle proprie radici e non è quindi accettabile, ha capito che il battage sulla responsabilità umana dei cambiamenti climatici è per lo meno esagerata, visto che nella storia del nostro pianeta variazioni di clima molto importanti sono sempre avvenute anche in assenza di industrie e di uso del petrolio. La maggioranza ha capito che il politicamente corretto è pura ipocrisia o becero conformismo e che l’immigrazione incontrollata nei numeri e nel tipo di cultura è fonte di gravi tensioni sociali e favorisce la delinquenza. Ha anche capito, magari sempre inconsciamente, che anche nelle democrazie più storicamente consolidate esistono certi poteri (finanziari) sempre più forti che condizionano la politica e rendono quindi pura apparenza molti aspetti della lotta tra partiti. Nelle elezioni americane questi sentimenti, pur non essendo la sola ragione della vittoria di Trump, hanno giocato un grande ruolo. Se ci si chiede perché molti supposti elettori Democratici hanno votato a favore dell’aborto nei referendum e poi Repubblicano nelle elezioni una parte della spiegazione sta proprio lì. Chissà sa la nostra “sinistra” sarà capace di capirlo? Ma forse manca troppo di capacità introspettiva e di autocritica per capirlo.

    Trump, pur essendo un miliardario che, a differenza del mito americano non si era “fatto da solo”, pur essendo un bancarottiere e pure, probabilmente, un evasore fiscale è stato percepito come “il” personaggio anti-sistema. Il suo rompere le regole nel linguaggio, il suo maramaldeggiare le abitudini sociali, il suo essere ostracizzato dai media hanno fatto da colore alla sua esuberante personalità. In qualche modo, lo hanno reso credibile come uomo della riscossa di quelle fasce della popolazione che non potevano più identificarsi con la classe dirigente oramai solo autoreferente. Ciò che ha prevalso nella mente dei suoi elettori è il semplice buonsenso quotidiano contro “verità” incomprensibili e contro natura. Il fatto che le élite mediatiche, gli intellettuali conformisti e perfino la maggior parte delle star miliardarie e ingioiellate, si pronunciassero con una sola voce contro di lui lo ha reso ancora più appetibile agli occhi di chi si sentiva vessato da “verità assolute” non sue ma non aveva mai avuto il coraggio, o il modo, di dirlo apertamente.

  • Il vero vincitore delle elezioni statunitensi

    Ora che i risultati emergono nella loro evidenza si possono anche individuare i fattori del successo di Donald Trump.

    Di certo l’attenzione dimostrata verso il lavoro inteso come un fattore determinante nella progettualità di vita dal quale dipendono le vite delle famiglie ha sicuramente ottenuto il proprio e giusto riscontro elettorale. In questo contesto, e come naturale conseguenza logica, ha ottenuto maggior peso lo stesso mondo dell’industria e dell’agricoltura, che rappresentano il vero Deep State statunitense, in assoluta contrapposizione alle rendite di posizione legate ai flussi sia turistici che di semplice business delle città posizionate sulla costa (1).

    In questo senso l’idea stessa di introdurre dei dazi, già anticipata dalla precedente amministrazione Biden, se venisse confermata nasce proprio dal principio di una maggiore tutela nei confronti dei prodotti made in USA rispetto soprattutto ai prodotti made in China, e in questo senso l’export italiano non dovrebbe temere dei grossi contraccolpi ai propri flussi commerciali verso il mercato statunitense. Va ricordato, infatti, come una ricerca della Bloomberg Investiment presso i consumatori statunitensi di Made in Italy avesse evidenziato, nel 2018, come tutti i consumatori si erano dichiarati disponibili a pagare anche un prezzo maggiorato del +30% purché questi prodotti rimanessero espressione della filiera italiana e del vero Made in Italy. Un vero monito ed opportunità nella complessa gestione delle filiere artigianali ed industriali portatrici dei valori legati al way of life che il Made in Italy esprime.

    La rinnovata centralità del sistema industriale come fattore di crescita rappresenta, quindi, la seconda motivazione che ha portato alla vittoria in quanto strettamente legato al valore del lavoro ed a quanto questo riesca ad assicurare in termini di qualità della vita (2).

    Sicuramente, poi, il successo parte anche dalla consapevolezza nell’adozione del principio di uguaglianza per tutti i lavoratori statunitensi di ogni origine e razza. Contrapposto, viceversa, a quello dell’inclusione all’interno di Stato etico come proposto dal delirio Woke ed abbracciato dalla candidata democratica ed espresso dall’intero mondo di Hollywood. Una deriva etica che esalta la folle centralità dell’IO ASSOLUTO da imporre alla società dalla quale si pretendono oltre i diritti riconosciuti, anche quelli specifici in relazione alla propria singola particolarità (3).

    La prospettiva di crescita economica, quindi, legata alla capacità di assicurare il benessere dei cittadini è stata premiata rispetto alla presunzione ideologica che voleva imporre un modello di inclusione per la cui realizzazione potevano venire addirittura negati quei diritti fondamentali, come quello di critica e di opinione, che il “politicamente corretto” ha cercato di limitare come una sorta di censura (4).

    A questo si aggiunga come di certo sia stato ridimensionato nella sua importanza e capacità di influenzare la masse di adoratori tutto il mondo di Hollywood, che si era dichiarato apertamente a favore della candidata Kamala Harris ed illuso di favorirla.

    Gli Stati Uniti esprimono una democrazia complessa ed articolata, più vicina nella sua grandezza a un continente che non ad un semplice stato federale, in questo favorito anche dalla indipendenza energetica che probabilmente favorirà il proprio progressivo isolazionismo.

    In questa articolata complessità emersa dai risultati delle ultime elezioni negli Stati Uniti si conferma, viceversa, l’incapacità di comprenderne le dinamiche con un approccio provinciale della stragrande maggioranza dei media e del corpo politico italiano ed europeo.

  • L’America ha votato, adesso aspettiamo una spinta di orgoglio europeo

    L’America ha votato, scelto il suo Presidente eletto sotto l’ala protettrice di Musk, l’uomo più ricco del mondo, che Trump ha definito non solo un genio ma anche una stella, speriamo che tra tante ricchezze qualcuno si occupi anche delle categorie in difficoltà.

    L’Europa abbia la forza e la capacità di scuotersi dall’immobilismo politico e istituzionale che da troppi anni le impedisce di avere autonomia e credibilità verso gli Stati Uniti e altre grandi potenze.

    I nodi che devono essere sciolti sono molti, da quelli legati alla guerra in Ucraina ed in Medio Oriente a quelli delle esportazioni e della autonomia e difesa militare.

    Senza l’unione politica l’Europa non riuscirà ad offrire una chiara e serena prospettiva futura ai proprio cittadini, possiamo solo sperare che dalle vicende d’oltreoceano possa rinascere una spinta di orgoglio europeo.

    Oggi speriamo che sia finita, con le elezioni, la politica spettacolo basata su slogan ad effetto e personaggi che ballano e cantano e si cominci ragionevolmente a capire che il mondo è sempre più sull’orlo del baratro e che non saranno i super miliardari che viaggiano sui razzi di Musk a salvare il pianeta.

  • Harris e Trump

    La maggior parte dei cittadini europei si è accorta che gli attuali governi dell’Unione sono composti in gran parte da personaggi di bassissima statura culturale e politica e non reggono il confronto con chi guidava gli stessi Paesi 30 o 40 anni fa. Se poi guardiamo alla Commissione Europea, a partire dalla Presidente Ursula Von der Leyen e dagli pseudo ministri degli esteri precedenti o di recente nomina, il quadro sembra perfino peggiore. Purtroppo, a dare poche speranze per il futuro c’è anche il fatto che, se mai fosse possibile, negli Stati Uniti la situazione non è certo incoraggiante. Tra meno di un mese, i cittadini americani che hanno optato di partecipare alle elezioni voteranno per il futuro presidente dovendo scegliere tra Kamala Harris e Donald Trump. La prima fu sempre stata giudicata dalla stampa occidentale come del tutto inadeguata perfino per il ruolo di Vice Presidente, salvo diventare, secondo gli stessi media, una summa di bravura, di fascino e di intelligenza nel momento in cui si è trovata quasi incidentalmente a diventare la candidata Presidente per conto del Partito Democratico. Come in pochi giorni abbia subito questa trasformazione è e resterà sconosciuto.

    Di Donald Trump, al contrario, si parlava male già durante la sua Presidenza e ora che è nuovamente candidato i giudizi negativi sono ulteriormente aumentati. Le descrizioni che lo accompagnano non lasciano spazio ad alcunché di positivo e, oltre a dipingerlo come il futuro distruttore del sistema democratico, lo si presenta come un corpo estraneo a tutta la storia americana. In altre parole sarebbe un alieno ignorante che vive di populismo gradito soltanto a fanatici e a ignoranti come lui. Oggettivamente, risulta difficile immaginarlo quale un virtuoso della cultura ma presentarlo come un incidente storico nella società americana è una faziosa e falsa interpretazione.

    A differenza di ciò che si vuol far credere, quello che viene chiamato il suo progetto “isolazionista” è una costante che ha abbracciato la politica degli Stati Uniti dal 1789 almeno fino alla prima metà del ‘900. Lo stesso Presidente Washington nel 1796 aveva chiesto che il Paese sviluppasse “il minore legame politico possibile” con le potenze straniere aggiungendo: “è nostra politica l’evitare alleanze permanenti con qualsiasi parte del mondo”. Come si sa, tale approccio non ha impedito ai vari governi di sviluppare ben presto una propria politica imperiale. A nord verso il Canada, a sud con la guerra che portò all’occupazione del Texas e perfino nell’Oceano Pacifico con l’occupazione di varie isole (tra cui le Hawaii) fino alle Filippine, sottratte alla Spagna. *

    Differentemente da ciò che Washington disse, e pur non avendo sottoscritto alcun accordo specifico, gli Stati Uniti parteciparono invece alla Prima Guerra Mondiale al fianco della Triplice Alleanza. Il motivo, va sottolineato, rappresenta da sempre la costante della politica estera americana: impedire che in qualunque parte del mondo potessero crearsi le condizioni per cui una singola potenza potesse diventarvi egemone. Sia nella prima che nella seconda guerra mondiale il pericolo fu identificato nel crescere della potenza tedesca. In quei casi, la filosofia “isolazionista” fu abbandonata ma si trattava pur sempre di un altro concetto ancora oggi caro a Trump: “America first”, seppur con sue particolari e moderne modalità. Sempre “America first” ha guidato le politiche americane in Medio Oriente, in Asia e in Sud America e anche lì con l’obiettivo di impedire il crescere di una qualunque potenza che da sola egemonizzasse l’area. Il problema, e cioè la vera differenza di allora con le politiche trumpiane, è che gli scopi attuali di Washington all’estero non sono più in equilibrio con i suoi mezzi interni disponibili. La deindustrializzazione, l’indebolimento numerico della classe media, la iper-globalizzazione delle economie, le pressioni migratorie al confine sud e l’enorme deficit pubblico spingono milioni di statunitensi a seguire quel Trump che propone di liberarsi dai fardelli esteri per concentrare le risorse sul fronte interno.

    Molti di coloro che votano democratico sono ancora convinti che il loro Paese debba continuare ad essere un faro di luce nel mondo in quanto esempio virtuoso del sistema democratico e liberale. Tuttavia, una lettura realistica della realtà mondiale lascerebbe capire anche a costoro due cose: la prima che altre culture non condividono necessariamente la filosofia politica nata e cresciuta nell’Occidente geografico, la seconda che, di là dalla retorica propagandistica, troppo spesso gli interventi militari americani nel mondo sono avvenuti a favore di regimi illiberali che rappresentavano il contrario dei valori proclamati a gran voce. Meno ipocrita (o più ingenuo) Trump dichiara in termini molto netti di essere “scettico nei confronti di unioni internazionali che……fanno crollare l’America…“ e: ”non sottoscriveremo mai alcun accordo che riduca la nostra capacità di controllare i nostri affari”.

    Anche in economia Trump non presenta progetti particolarmente nuovi, così come non è nuova l’idea di ridare slancio al protezionismo attraverso più alte tariffe doganali. Prima di lui, sebben con minore enfasi declamatoria, anche i presidenti Democratici hanno varato barriere tariffarie riguardanti vari settori industriali e il settore siderurgico europeo ne sa qualcosa. Comunque, già nel 1930 quando la crisi economica del ’29 stava esplodendo, fu fatta una legge fortemente protezionista la Smooth Hawley Tariff Act che colpì la maggior parte dei beni di importazione. Durante la sua presidenza, pur se oggettivamente i risultati attesi sono stati infinitamente minori del previsto, Trump ha rinegoziato l’Accordo di Libero Scambio Nord Americano, ha bocciato il progetto di Partenariato Transpacifico e il Partenariato Transatlantico e ha introdotto tariffe doganali elevatissime per tutti i prodotti in arrivo dalla Cina. Anche su quest’ultimo aspetto va notato che, nonostante i Democratici continuino a proclamare come un valore il liberismo economico, Biden Presidente ha confermato i dazi introdotti da Trump contro la Cina e ne ha persino aggiunti altri. Ciò con cui qualunque futuro Presidente dovrà far i conti è una maggiore diffusione della povertà dei ceti medi e bassi con il relativo aumento della disparità del benessere a favore delle classi alte. Per entrambi, il problema riguarderà il disavanzo commerciale crescente e un fortissimo incremento del debito pubblico giunto a livelli enormi.

    Un altro dei punti di forza della narrativa trumpiana è la lotta contro gli immigrati illegali ma anche questa volta ci sono precedenti storici cui ci si può rifare. Nonostante sia evidente a tutti che gli Stati Uniti attuali siano il frutto di importanti e costanti flussi migratori il sentimento anti immigrati da parte della popolazione WASP (white anglo-saxon protestant) è da sempre presente. Quando gli Stati Uniti annessero più della metà del Messico nella guerra del 1846-48 espulsero dai terreni conquistati la maggior parte dei messicani. Nel 1924 il Congresso approvò una legge che riduceva del 90% il numero di ebrei e cattolici ammessi ufficialmente del Paese e vietò totalmente l’immigrazione asiatica. Quanto all’idea di Trump di deportare i clandestini attualmente presenti nel Paese, si tratta semplicemente della copia di un provvedimento adottato già negli anni ’30 che rimandò verso il Messico un milione di immigrati clandestini. Che il livore anti-immigrati sia molto diffuso nella popolazione americana è dimostrato dal fatto che anche il Democratico Biden ha cercato di assecondare tale sentimento varando un ordine esecutivo che prevede la chiusura temporanea del confine meridionale e ha cercato di far passare una legge che bloccasse la maggior parte dei nuovi arrivi attraverso il Messico. Tale legge non è passata perché i parlamentari repubblicani non hanno voluto concedergli un guadagno di immagine presso l’elettorato.

    Come conclusione, continuare a credere ciò che i media mainstream vogliono propinarci e cioè che il fenomeno Trump sia totalmente estraneo alla tradizione politica americana è chiaramente un falso storico. Detto ciò, l’avere Harris o Trump come Presidente a Washington per noi europei qualcosa cambierebbe ma, di là dalla forma che il loro agire assumerà, una loro comune costanza sarà (comprensibilmente) di tutelare gli interessi del loro Paese e di considerarci una loro naturale “zona di influenza”.

    * Incidentalmente, non è male ricordare a chi, giustamente, accusa l’Italia di aver tradito la Triplice Intesa nella prima guerra mondiale nonostante gli accordi sottoscritti, che nulla è mai inventato. Quando, nel 1793, la Francia rivoluzionaria (che aveva aiutato i ribelli americani contro l’Inghilterra) chiese l’aiuto degli Stati Uniti in base a un accordo sottoscritto nel 1778, il governo di George Washington disdisse unilateralmente l’impegno assunto dichiarandolo contrario all’interesse nazionale del momento.

  • Quadro UE-USA per la protezione dei dati personali: le autorità statunitensi ne hanno messo in atto gli elementi costitutivi

    La Commissione ha pubblicato una relazione a seguito del primo riesame della decisione di adeguatezza relativa al quadro UE-USA per la protezione dei dati personali (DPF) trasferiti dall’Unione europea a organizzazioni negli Stati Uniti.

    Sulla base delle informazioni raccolte durante il riesame, la Commissione conclude che le autorità statunitensi hanno messo in atto tutti gli elementi costitutivi del quadro. Ciò comprende l’attuazione di garanzie per limitare l’accesso ai dati personali da parte delle autorità di intelligence statunitensi a quanto necessario e proporzionato per proteggere la sicurezza nazionale, e l’istituzione di un meccanismo di ricorso indipendente e imparziale. La relazione contiene inoltre una serie di raccomandazioni volte a garantire che il quadro continui a funzionare efficacemente, compresa l’elaborazione di orientamenti comuni, da parte delle autorità statunitensi e dell’UE, sugli obblighi fondamentali collegati a tale regime. La Commissione continuerà a monitorare gli sviluppi e riferirà periodicamente sul funzionamento del quadro.

    Il riesame si basa sui contributi di un’ampia gamma di attori, tra cui organizzazioni della società civile, associazioni di categoria, autorità dell’UE per la protezione dei dati e autorità statunitensi coinvolte nell’attuazione del quadro, nonché sui riscontri forniti dal grande pubblico mediante il portale “Di’ la tua”.

  • La Cambogia apre la sua base di Ream alla US Navy

    Il vicepremier della Cambogia, Sun Chanthol, ha dichiarato che la Marina degli Stati Uniti è benvenuta presso la base navale di Ream, che la Cambogia ha ammodernato e ampliato con il sostegno della Cina e che il Pentagono teme possa diventare un avamposto di Pechino nel Golfo della Thailandia. “La base navale di Ream non è per i cinesi, i cinesi ci hanno fornito l’assistenza per espandere la base navale di Ream per le nostre esigenze difensive, e non perché venga utilizzata dalla Cina o da una qualsiasi altra forza armate contro un altro Paese”, ha dichiarato Sun durante un evento organizzato a Washington dal Center for Strategic and International Studies.

    Stando a un reportage pubblicato lo scorso luglio dal quotidiano statunitense “Wall Street Journal”, la base navale di Ream, in Cambogia, è ormai “divisa in due”: un settore è controllato dalla Marina locale, l’altro da quella cinese. Il reportage confermerebbe tutti i timori dell’amministrazione del presidente Joe Biden in merito alle attività militari di Pechino nel Paese del sud-est asiatico. Era stato lo stesso “Wall Street Journal”, nel 2019, a rivelare l’esistenza di un accordo segreto tra i governi di Pechino e Phnom Penh per lo stazionamento di navi militari cinesi in Cambogia. Nella base di Ream si trovano dallo scorso dicembre due corvette della Marina cinese, inizialmente approdate in Cambogia per quelle che il governo locale aveva definito “attività di formazione”. “La loro presenza lì, a sei mesi di distanza, prova come le forze armate cinesi abbiano trovato una sistemazione permanente in un’area marittima che potrebbe svolgere un ruolo chiave in un eventuale conflitto per Taiwan o per il Mar Cinese Meridionale”, scrive il “Wsj”.

    La base navale di Ream è collegata alla capitale cambogiana da un’autostrada finanziata con 2 miliardi di dollari dalla stessa Cina e inaugurata nel 2022. Ora, riferisce il “Wall Street Journal”, è “puntellata di gru da costruzione” e la vista dal cancello meridionale mostra “grandi cantieri in corso”. Ai lavori, secondo un residente locale citato dal quotidiano, starebbero partecipando anche operai cinesi. La stessa fonte afferma che la base di Ream è ormai “divisa” in due, con un’area riservata alla Marina cinese e una a quella cambogiana. “La Marina cinese non vuole che operai e marinai cambogiani si avvicinino al loro settore”, aggiunge il residente. A confermare inoltre la presenza delle due corvette cinesi a Ream sono le immagini satellitari fornite dalla società Maxar Technologies, che mostrano come le due navi abbiano anche lasciato la base per brevi periodi di tempo a gennaio e a marzo, salvo poi rientrarvi.

    Il ministero degli Esteri di Pechino, da parte sua, ha confermato la scorsa estate la presenza delle due corvette in Cambogia, attribuendola però al “sostegno cinese al progetto di ricostruzione della Base navale di Ream, che porterà a rafforzare la capacità della Cambogia di proteggere la propria sovranità e indipendenza nazionale”. A Phnom Penh si è recato in visita all’inizio di giugno il segretario alla Difesa Usa, Lloyd Austin, che ha parlato con il governo cambogiano delle prospettive di rilancio di qualche forma di cooperazione militare tra i due Paesi. Non è chiaro, tuttavia, se il capo del Pentagono abbia sollevato la questione della presenza militare cinese a Ream. Preoccupazione in merito era già stata espressa dal presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, in occasione di una precedente visita nel 2022.

     

  • Il silenzio arabo nella crisi mediorientale

    Credere che un anno fa, il 7 ottobre 2023, sia cominciata una delle più gravi crisi mediorientali rappresenta una visione legittima ma piuttosto limitata e probabilmente viziata da un approccio ideologico. L’inizio di questa crisi sfociata nell’attuale conflitto trae la propria origine strategica e politica con l’inizio della presidenza Biden, il quale annullò, appena insediatosi alla Casa Bianca, l’accordo siglato dalla precedente amministrazione Trump con l’Arabia Saudita (sunnita), che aveva una funzione anti Iran (sciita), con l’obiettivo di isolare quella teocrazia all’interno del mondo arabo e con lo stesso appoggio della Russia.

    Questa scellerata decisione di politica estera dell’amministrazione Biden, invece, ha determinato come effetto immediato quello di riportare la teocrazia iraniana all’interno dello scacchiere internazionale e soprattutto medio orientale, come hanno dimostrato i finanziamenti a vari gruppi terroristici come Hamas e gli Hezbollah,

    In altre parole, il riconoscimento statunitense di un ritrovato ruolo alla teocrazia sciita iraniana all’interno dello scacchiere politico ha rigenerato, come affetto collaterale, lo stesso ruolo dell’Opec che l’accordo tra Stati Uniti, Arabia Saudita e Russia, anche sul prezzo del barile di petrolio, aveva messo in disparte.

    Soprattutto nello scacchiere mediorientale, il tradimento diplomatico statunitense ha posto le basi politiche dell’attuale crisi, il cui esito finale risulta ancora in via di definizione, anche se già ora alcune aspettative politiche cominciano a delinearsi.

    Pur riconoscendo che il mondo arabo, infatti, da sempre risulti di difficile lettura ed interpretazione, tuttavia forse all’interno di questo scenario di guerra israelo-palestinese contemporaneo i ruoli appaiono un po’ più definiti. Prova ne sia che dal 7 ottobre 2023 ad oggi si sia registrato l’assoluto silenzio delle Nazioni arabe moderate e soprattutto dell’Arabia Saudita, un silenzio indice di un nuovo atteggiamento politico nei confronti di Israele.

    Questi paesi arabi intendono assistere in complice silenzio alle azioni sempre più profonde della strategia militare israeliana, da tempo non più limitate all’interno di Gaza ma anche del Libano e forse in previsione probabilmente anche dello stesso Iran.

    L’inconfessabile desiderio dell’Arabia Saudita, i cui vertici politici hanno confermato una volta di più l’assoluto disinteresse per la causa palestinese, quanto dei paesi arabi moderati, rimane quello di vedere implodere la democrazia iraniana, da sempre fornitrice di supporti finanziari ai diversi gruppi terroristici che mettono a rischio la stabilità di molti paesi del Medio Oriente.

    Il paradosso di questa crisi mediorientale è definibile dal clamore assicurato nell’occidente dalle frange più estremiste nelle democrazie occidentali nella più totale assenza di una posizione politica dell’Unione europea, al quale si contrappone il silenzio dei paesi arabi moderati e della stessa Arabia Saudita che vedono in Israele lo strumento attraverso il quale eliminare il più grande pericolo al mondo arabo rappresentato dall’Iran.

  • China probes Calvin Klein over Xinjiang cotton

    China has announced it is investigating the company that owns US fashion brands Tommy Hilfiger and Calvin Klein for suspected “discriminatory measures” against Xinjiang cotton companies.

    The move marks a new effort by Beijing to fight back against allegations from western officials and human rights activists that cotton and other goods in the region have been produced using forced labour from the Uyghur ethnic group.

    The US banned imports from the area in 2021, citing those concerns.

    China’s Ministry of Commerce accused the firm of “boycotting Xinjiang cotton and other products without any factual basis”.

    PVH, which owns the two brands and has a significant presence in China as well as the US, said it was in contact with Chinese authorities.

    It has 30 days to respond to officials, at which point it could be added to the country’s “unreliable entities” list, raising the prospect of further punishment.

    “As a matter of company policy, PVH maintains strict compliance with all relevant laws and regulations in all countries and regions in which we operate,” the company said. “We are in communication with the Chinese Ministry of Commerce and will respond in accordance with the relevant regulations.”

    On Wednesday, a Chinese Ministry of Commerce official denied that the probe was linked to US plans to ban certain Chinese electric vehicle technology.

    “China has always handled the issue of the unreliable entity list prudently, targeting only a very small number of foreign entities that undermine market rules and violate Chinese laws,” they said.

    “Honest and law-abiding foreign entities have nothing to worry about.”

    Cullen Hendrix, senior fellow at the Peterson Institute of International Economics, said it was not clear exactly what prompted the investigation into PVH now.

    But he said the announcement was likely to hurt the firm’s reputation among Chinese shoppers – and send a wider warning to global firms of the risks of simply bowing to western concerns.

    “China is, to a certain extent, flexing its muscle and reminding, not necessarily western governments, but western firms… that actions have consequences,” he said.

    “This same kind of naming-and-shaming tactic, that human rights organisations in the west have used, can be weaponised here.”

    The investigation of PVH comes as tensions between China and the west have been growing on a range of issues, including electric cars and manufacturing.

    On Monday, the US proposed rules to ban the use of certain technology in Chinese and Russian cars, citing security threats.

    China has previously put US firms on its unreliable entities list, which it created as trade tensions heated up between Beijing and Washington.

    Those firms were major defence contractors, such as Lockheed Martin and Raytheon, over their business in Taiwan.

    Mr Hendrix said the decision to target PVH – a consumer-facing firm with a clearly recognisable US brand – showed the two countries’ disputes were widening beyond areas such as defence and advanced technologies.

    “These things have a way of spilling over,” he said. “It’s affecting a growing number of supply chains across different sectors of the economy.”

    In its annual report, PVH warned investors of revenue and reputational risks stemming from the fight over Xinjiang.

    It noted that the issue had been “subject to significant scrutiny and contention in China, the United States and elsewhere, resulting in criticism against multinational companies, including us”.

    The company was named in a 2020 report by the Australian Strategic Policy Institute that identified dozens of firms that were allegedly benefiting from labour abuses in Xinjiang.

    At the time PVH said it took the reports seriously and would continue to work to address the matter.

    PVH employs more than 29,000 people globally and does more than 65% of its sales outside of the US.

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