Usa

  • Defezione del Niger: stop all’accordo militare con gli Usa

    Il governo militare del Niger ha interrotto “con effetto immediato” l’accordo di cooperazione militare firmato con gli Stati Uniti nel 2012. L’annuncio è stato letto in un intervento trasmesso dalla televisione nazionale “Rtn” dal colonnello Amadou Abdramane, portavoce della giunta al potere dal colpo di stato dell’anno scorso, chiamata Consiglio nazionale per la salvaguardia della patria (Cnsp). Abdramane ha spiegato che il governo nigerino “tenendo conto delle aspirazioni e degli interessi del suo popolo” ha deciso “di interrompere con effetto immediato l’accordo relativo allo status delle forze armate degli Stati Uniti” e del personale civile del dipartimento della Difesa Usa in territorio nigerino. Il portavoce ha definito la presenza militare statunitense “illegale” e in violazione di “tutte le regole costituzionali e democratiche”. Non solo: secondo Niamey è illegittimo e “ingiusto” lo stesso accordo, che sarebbe stato “imposto unilateralmente” dagli Stati Uniti, tramite una “semplice nota verbale”, il 6 luglio 2012.

    L’annuncio giunge dopo una visita di tre giorni (12-14 marzo) di una delegazione Usa guidata da Molly Phee, assistente segretaria di Stato per gli Affari africani, e comprendente anche il generale Michael Langley, comandante del comando Africom. Il portavoce del governo militare di Niamey ha riferito che dalla delegazione è stata lanciata al Niger l’accusa “cinica” di aver stretto un accordo segreto per fornire uranio all’Iran e la “minaccia di ritorsioni”. Il colonnello ha contestato anche le obiezioni che gli Usa avrebbero sollevato sugli alleati scelti dal Niger, nonché il mancato rispetto del protocollo diplomatico: il Niger non sarebbe stato informato della composizione della delegazione, della data di arrivo e dell’agenda della missione.

    I militari statunitensi presenti in Niger sono più di 600. In risposta all’annuncio di Nyamey, Washington ha replicato con un post pubblicato su X del portavoce del dipartimento di Stato Usa, Matthew Miller. “Siamo a conoscenza della dichiarazione del Cnsp in Niger, che fa seguito alle franche discussioni a livello senior svoltesi questa settimana a Niamey riguardo alle nostre preoccupazioni per la traiettoria del Cnsp. Siamo in contatto con il Cnsp e forniremo ulteriori aggiornamenti come garantito”, ha scritto Miller.

    Il Niger ha precedentemente messo fine alla cooperazione militare con la Francia. Lo scorso 24 settembre il presidente francese, Emmanuel Macron, ha annunciato il ritiro del contingente ancora presente in Niger, ritiro iniziato il 5 ottobre e completato il 22 dicembre. Dal 2015 la Francia ha inviato circa 1.500 militari nel Paese africano per contribuire a contrastare l’intensificarsi dell’insurrezione jihadista. Le truppe francesi erano stanziate nella capitale Niamey e nelle basi di Ouallam e Ayorou, vicino al confine con il Mali.

    Nel Paese è presente la Missione bilaterale di supporto nella Repubblica del Niger (Misin), autorizzata dal Parlamento italiano nel 2018 e istituita al fine di incrementare le capacità volte al contrasto del fenomeno dei traffici illegali e delle minacce alla sicurezza, nell’ambito di uno sforzo congiunto di Unione europea e Stati Uniti per la stabilizzazione dell’area, il rafforzamento delle capacità di controllo del territorio da parte delle autorità nigerine e dei Paesi del G5 Sahel e le attività di sorveglianza delle frontiere e del territorio e di sviluppo della componente aerea. La missione – la cui area geografica di intervento è allargata anche a Mauritania, Nigeria e Benin – conta attualmente circa 350 effettivi e 13 mezzi, tutti terrestri.

    Il contingente, dislocato in un hub operativo-logistico completato nel giugno 2022 e situato all’interno dell’aeroporto di Niamey, comprende squadre di ricognizione, comando e controllo, e addestratori, da impiegare anche presso il Defense College in Mauritania, personale sanitario e del Genio per lavori infrastrutturali, squadra rilevazioni contro minacce chimiche-biologiche-radiologiche-nucleari (Cbrn), unità di supporto, force protection, raccolta informativa, sorveglianza e ricognizione a supporto delle operazioni.

  • Esplode la bomba del debito usa e globale

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi apparso su notiziegeopolitiche.net del 16 marzo 2024

    Le vicende finanziarie dovrebbero essere valutate per quello che sottendono, a volte situazioni negative. Attualmente sono gli Usa che preoccupano perché dal giugno 2023 ogni cento giorni il debito pubblico aumenta di ben mille miliardi di dollari. I dati sono eloquenti. Anzitutto va rimarcato che in dieci anni, dal 2014 a oggi, il debito americano è raddoppiato, passando da 17.000 miliardi all’attuale cifra di 34.500 miliardi. Molti ritengono che il modello “mille miliardi ogni 100 giorni” continuerà in futuro.
    Il Congressional Budget Office, l’organismo indipendente che produce analisi economiche per il Congresso, stima che il deficit di bilancio annuale passerà da 1.600 miliardi di quest’anno a 2.600 miliardi del 2034. In altre parole, nel prossimo decennio gli Stati Uniti aggiungeranno quasi 19.000 miliardi di dollari all’attuale debito pubblico fino a un totale di 54.000 miliardi.
    Nello stesso decennio soltanto per gli interessi gli Usa spenderanno più di 12.400 miliardi. Perciò si stima che la quota per il pagamento degli interessi sul debito potrebbe superare le altre voci di bilancio, comprese le spese per la difesa. Si tenga presente che le proiezioni sono fatte stimando che il tasso d’interesse dovrebbe scendere sotto il 3% dall’attuale 5,5%.
    Questa è la realtà nascosta, volutamente ignorata per dar spazio soltanto all’esaltazione dei dati positivi relativi alle aspettative dell’aumento del pil e dell’occupazione.
    L’Institute of international finance, l’associazione delle maggiori istituzioni finanziarie del pianeta con sede a Washington, afferma che nel 2023 la “bolla globale” del debito, quello pubblico, delle imprese e delle famiglie, con l’eccezione dei derivati finanziari, sarebbe aumentata di circa 15.000 miliardi di dollari portando il debito globale al livello di 310.000 miliardi! Un decennio fa era di 210.000 miliardi. Si tratta di un pericoloso trend mondiale.
    Non si tratta di un malessere ma di una febbre da cavallo le cui cause risiedono in decenni di politiche finanziarie errate. Gli effetti si manifestano di volta in volta in modi differenti o in settori diversi ma sono sempre il frutto avvelenato di una finanza speculativa che inquina tutti i settori dell’economia. Lo abbiamo visto nella grande crisi del 2008-9, mai affrontata veramente, nelle bancarotte bancarie, nella liquidità a “go go” dei quantitative easing, nelle politiche della Federal Reserve del tasso di interesse zero prima e dell’impennata dei tassi poi per rincorrere l‘inflazione.
    In questo quadro è stupefacente osservare che, mentre il debito e la liquidità crescono, hanno raggiunto i massimi storici anche l’oro, il bitcoin e Wall Street. L’oro ha superato i 2.000 dollari l’oncia, il bitcoin, la criptovaluta più conosciuta, è ritornato a valori impensabili, appena sotto i 70.000 dollari, con un aumento del 200% in 12 mesi, e S&P 500, il più importante indice azionario della borsa di Wall Street, ha sfondato ampiamente il punto massimo storico di 5.000 punti. Ovunque si guardi, i mercati azionari stanno battendo i record: l’indice europeo azionario STOXX 600 ha stabilito il proprio record intorno ai 500 punti e il Nikkei 225 giapponese ha superato il suo migliore valore precedente, fissato nel 1989.
    Questa euforia è provocata in particolare dall’effervescenza dei titoli legati alle imprese dell’intelligenza artificiale. Per esempio, il produttore di chip AI Nvidia ha registrato l’incredibile crescita dei ricavi del 265% nel quarto trimestre 2024, facendo salire più del 60% il prezzo delle sue azioni da inizio anno. In verità occorre cautela perché di troppa euforia si può morire! D’altronde è già successo negli anni novanta con la bolla dei titoli IT, information technology, che, dopo avere drogato il mercato di Wall Street portandolo in un paradiso artificiale, nei primi anni del 2000 un crac, noto come dot-com crash, lo fece sprofondare nei più bassi gironi dell’inferno.
    Molti negli Usa, a fronte dell’insostenibilità del debito propongono la riduzione dei deficit di bilancio, che significa tagli alla spesa pubblica. Sarebbe un giro di vite sul welfare, sulle spese sanitarie, sull’istruzione, sui trasporti, ecc., che andrebbe a colpire i livelli di vita della popolazione più povera e della cosiddetta middle class già depauperata. A Washington si stima che le entrate, che ammontano al 17,5% del Pil nel 2024, scenderanno al 17,1% nel 2025, per poi rimanere sotto il 18% fino al 2027.
    In sintesi di tutto si parla, tranne che mettere mano alla finanza dominante sfuggita ai controlli con il rischio che possa riverberare i suoi effetti negativi in tutto il mondo. Questa è una ragione di più per chiedere al G7 e al G20 di affrontare lo spinoso problema.

    Mario Lettieri, già sottosegretario all’Economia; Paolo Raimondi, economista

  • Cimici dagli occhi a mandorla sulle gru dei porti yankee

    Il Congresso Usa ha avviato una indagine sulle gru di fabbricazione cinese presenti in diversi porti statunitensi, riscontrando la presenza di componenti e attrezzature per le telecomunicazioni che non sono legate alla normale operatività delle strutture. Fonti anonime hanno riferito al “Wall Street Journal” che a bordo di alcune gru sarebbero stati anche installati modem per telefoni cellulari che potrebbero essere accessibili da remoto. La scoperta ha rinnovato le preoccupazioni dei parlamentari in merito alla necessità di garantire la sicurezza informatica delle infrastrutture portuali, alla luce dei rischi di sabotaggio e spionaggio industriale derivanti dalla presenza di un enorme numero di gru prodotte dalla società cinese Zpmc. Ad oggi, queste rappresentano circa l’80 per cento delle gru impiegate nei porti statunitensi. Il presidente della commissione per la Sicurezza interna della Camera dei rappresentanti, il repubblicano Mark Green, ha affermato che il governo di Pechino sta “sfruttando ogni opportunità per raccogliere informazioni di intelligence e sfruttare le vulnerabilità delle nostre infrastrutture, anche nel settore marittimo: il Paese ha ignorato questa minaccia per troppo tempo”.

    Secondo le fonti, durante le indagini sono stati rinvenuti più di 12 modem in diverse gru, e almeno uno sarebbe stato trovato all’interno della sala server di un porto statunitense. La presenza di componenti per le telecomunicazioni a bordo delle gru è spesso giustificata dalla necessità di monitorare le operazioni da remoto, ma in più di un caso la presenza di queste attrezzature non sarebbe stata richiesta dalla società produttrice. Il mese scorso, la Casa Bianca ha annunciato investimenti per oltre 20 miliardi di dollari sulla sicurezza dei porti nazionali, anche con l’obiettivo di dismettere le gru cinesi. Le spese saranno coperte dal pacchetto infrastrutturale da mille miliardi di dollari approvato nel 2021 dal Congresso Usa. A produrre le nuove gru portuali sarà una controllata statunitense della compagnia giapponese Mitsui.

    La decisione delle autorità federale segue un’inchiesta pubblicata lo scorso anno proprio dal “Wall Street Journal”, che ha riferito dei timori dei dirigenti statunitensi in merito ai rischi di spionaggio e sabotaggio legati alla presenza nei porti Usa (alcuni utilizzati anche dalle forze armate) di un enorme numero di gru giganti fabbricate da colossi statali cinesi. La preoccupazione di Washington è che i software impiegati dalle gru possano essere manipolati dalla Cina, in particolare nel caso di un conflitto nello Stretto di Taiwan o altrove. Le gru impiegate nei porti statunitensi, per l’80 per cento prodotte dalla cinese Zpmc, dispongono inoltre di sensori sofisticati che possono registrare e tracciare l’origine e la destinazione dei container in transito, consentendo così potenzialmente a Pechino di assumere informazioni sulla ricezione o sulla spedizione di materiale (anche militare) da parte degli Usa.

  • Nuovi sconti sul mercato cinese, Tesla incalza Byd in casa sua

    La casa automobilistica statunitense Tesla ha varato nuovi incentivi in Cina per fidelizzare e aumentare la quota di clienti nel mercato nazionale, dove è alle prese con una serrata guerra dei prezzi con rivali locali come Build Your Dreams (Byd). Come riferito dall’azienda di Elon Musk in una nota pubblicata sul social network Weibo, la casa automobilistica offrirà incentivi fino a 4.807 dollari a quanti acquisteranno esemplari invenduti di berline Model 3 e Suv Model Y entro la fine del mese. Tesla offrirà anche piani di finanziamento preferenziali a tempo determinato per l’acquisto di Model Y, che garantiranno agli acquirenti un risparmio fino a 2.306 dollari.

    Gli incentivi comprendono anche uno sconto di 1.111 dollari sui prodotti assicurativi e sconti pari a 1.389 dollari per modifiche alla colorazione dell’auto. A fronte del rallentamento della domanda e alla crescente concorrenza in Cina, Tesla ha tagliato i prezzi su alcune tipologie di Model 3 e Y a gennaio, offrendo sconti in contanti per alcune Model Y dal primo febbraio. Il suo più grande rivale locale, Byd, ha abbassato oggi il prezzo di lancio di una nuova versione del suo Suv ibrido Song Pro del 15,4%. Byd ha detronizzato Tesla come principale produttore di veicoli elettrici nel quarto trimestre.

    Sull’altra sponda del Pacifico, l’amministrazione del presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha mosso i primi passi verso la chiusura del mercato automobilistico statunitense ai veicoli elettrici connessi a Internet di produzione cinese, sulla base di considerazioni legate alla sicurezza nazionale. Il dipartimento del Commercio Usa ha avviato proprio un’indagine a carico dei veicoli elettrici cinesi connessi alla rete, argomentando che Pechino potrebbe utilizzarli come mezzo per appropriarsi di informazioni sensibili. L’indagine è il primo passo di un processo che potrebbe condurre a restrizioni sulle vetture elettriche importate dalla Cina, e fonti dell’amministrazione presidenziale citate dalla stampa Usa hanno evidenziato che l’indagine potrebbe sostenere “un’ampia gamma di risposte politiche” alle auto elettriche a basso costo cinesi, che stanno rapidamente guadagnando ampie quote del mercato globale della mobilità alternativa.

    In una nota diffusa ieri dalla Casa Bianca, Biden ha affermato che “la Cina è determinata a dominare il futuro del mercato dell’auto, anche tramite pratiche inique”. Secondo il presidente Usa, “le politiche della Cina potrebbero inondare il nostro mercato di veicoli, ponendo un rischio per la sicurezza nazionale. Non lascerò che accada sotto il mio sguardo”, afferma la nota.

  • Gli Usa sventano una fornitura d’armi agli Houthi dalla Somalia. Ma è allarme per ambiente e pirateria

    Le autorità statunitensi hanno incriminato quattro cittadini stranieri accusati dell’invio di armi di fabbricazione iraniana alle milizie yemenite Houthi, responsabili degli attacchi sferrati in questi mesi contro le navi commerciali che attraversano il Mar Rosso. Il dipartimento di Giustizia ha divulgato ieri i capi d’accusa a carico di Muhammad Pahlawan, Mohammad Mazhar, Ghufran Ullah and Izhar Muhammad: i quattro sarebbero responsabili del carico di armi sequestrato dai Navy Seals al largo delle coste della Somalia il mese scorso, e sono anche accusati di aver fornito informazioni false alla Guardia costiera statunitense dopo il loro arresto.

    Pahlawan è stato inoltre accusato di aver trasportato illegalmente una testata esplosiva, pur sapendo che gli Houthi avrebbero potuto utilizzarla per attaccare navi commerciali. L’arresto dei quatro contrabbandieri e il sequestro di un piccolo carico di componenti per missili sono stati effettuati l’11 gennaio scorso durante un controverso raid al largo delle coste della Somalia, che ha portato alla morte di due militari statunitensi. Secondo indiscrezioni della stampa Usa, il raid venne ordinato dai vertici della Marina Usa a dispetto di condizioni proibitive sul piano operativo, a causa del mare molto mosso.

    In un’intervista al Financial Times, Arsenio Dominguez, segretario generale dell’Organizzazione marittima internazionale, ha paventato un corto circuito tra gli attacchi degli Houthi nel Mar Rosso e la pirateria africana.

    Costrette dallo scorso dicembre a deviare le loro rotte e circumnavigare l’Africa per evitare gli attacchi Houthi, le principali compagnie navali hanno determinato un aumento della navigazione nelle acque dell’Oceano Indiano e al largo dell’Africa occidentale, un’area marittima dove notoriamente avvengono degli attacchi di pirateria. Non a caso, da anni, in quella sezione di mare è operativa la missione Ue Atalanta. Dominguez ha affermato di aver parlato con le autorità della Somalia, dell’Africa orientale e dei Paesi attorno al Golfo di Guinea, nella parte occidentale del continente, per discutere degli sforzi da mettere in atto per garantire che la pirateria non diventi nuovamente un grave problema.

    Last but not least, gli attacchi degli Houthi rappresentano una minaccia anche all’ambiente. Il Comando centrale degli Stati Uniti (Centcom) ha segnalato nei giorni scorsi che una nave mercantile abbandonata nel Golfo di Aden dopo un attacco dei ribelli sciiti yemeniti sta imbarcando acqua e ha lasciato un’enorme chiazza di petrolio, provocando un disastro ambientale. La Rubymar, una nave mercantile battente bandiera del Belize, registrata in Regno Unito e gestita dal Libano, è stata colpita da un missile sulla fiancata della nave, con conseguente allagamento della sala macchine e abbassamento della poppa, ha affermato il suo operatore, il Blue Fleet Group. “Quando è stata attaccata la M/V Rubymar trasportava oltre 41mila tonnellate di fertilizzanti che potrebbero riversarsi nel Mar Rosso e peggiorare questo disastro ambientale”, ha affermato Centcom in un post su X. L’attacco alla Rubymar rappresenta il danno più significativo mai inflitto a una nave commerciale da quando gli Houthi hanno iniziato a sparare sulle navi a novembre come forma do rappresaglia contro l’offensiva israeliana a Gaza. Gli attacchi degli Houthi hanno spinto alcune compagnie di navigazione ad allungare la rotta intorno all’Africa meridionale per evitare il Mar Rosso, dove normalmente transita circa il 12% del commercio marittimo globale.

  • Australia holds Chinese man over suspected North Korea tobacco smuggling

    A Chinese man is being held in Australia over his alleged role in a tobacco smuggling scheme that generated $700m (£570m) for North Korea.

    Jin Guanghua now awaits extradition to the US, where he faces prosecution.

    He is accused of supplying tobacco to Pyongyang for roughly a decade. It is unclear whether he contests the claim.

    US authorities allege the tobacco trade allowed Kim Jong Un’s regime to make and sell counterfeit cigarettes to help fund its weapons programme.

    Australia’s Attorney-General’s Department confirmed that Mr Jin had been detained in Melbourne in March last year, and that his “extradition matter” was ongoing.

    “The individual is wanted to face prosecution in the US for a number of sanctions, bank fraud, money laundering, and conspiracy offences,” it said in a statement on Tuesday.

    According to US court documents, the scheme Mr Jin was allegedly involved in was run through a series of North Korean “state owned companies” and financed by its banks.

    “Chinese front companies” were then used to conduct transactions through the US financial system, bypassing sanctions and bringing millions of dollars into Pyongyang, the documents say.

    Mr Jin is accused of setting up a number of entities in the UK, New Zealand, the United Arab Emirates and China that “facilitated purchases of [the] tobacco” used.

    The revenue from the scheme is believed to have supported North Korea’s ballistic and nuclear proliferation programmes, the US says.

    Counterfeit cigarettes have been a “major source of income” for North Korea since the 1990s, according to US authorities. Made in Pyongyang, they are then sold using the fake packaging of well-known tobacco brands, and have turned up in countries such as the Philippines, Vietnam and Belize.

    The illegal trade is thought to be one of Pyongyang’s largest sources of hard currency, according to the US government.

    If found guilty, Mr Jin faces millions of dollars in fines and decades in prison.

    His alleged co-conspirators have been named in court documents as Chinese nationals Qin Guoming, 60, and Han Linlin, 42.

    Both are wanted by the FBI and are suspected to have ties to “China, the United Arab Emirates, and Australia”.

    A bounty of $498,000 is on offer for any information that could assist with the arrest and conviction of either man.

    For years, the US has imposed strict sanctions on North Korea over its nuclear and ballistic missile activities.

    In 2023, British American Tobacco was ordered to pay $635m in fines to the US government after one of its subsidiaries admitted to selling cigarettes to Pyongyang. The case was described by authorities as an “elaborate scheme to circumvent US sanctions”.

  • Sostegno da Oltreoceano ad un autocrate corrotto

    In nessun altro tempo ebbe la ciarlataneria tanti seguaci e s’allegrò di

    così lauti profitti, quanto in questo tempo di spregiudicati e di scaltriti.

    Arturo Graf; da “Ecce Homo”, 1908

    Si continua a combattere e a morire nella Striscia di Gaza, dopo che il 7 ottobre 2023 i terroristi di Hamas attaccarono e uccisero circa 1200 persone innocenti, tra civili e militari israeliani. In più presero come ostaggi circa 250 altri cittadini israeliani. Da allora il numero delle vittime aumenta ogni giorno che passa. E mentre il conflitto continua si sta cercando anche di mediare tra le parti. Purtroppo i negoziati, tuttora in corso, non hanno portato ad una soluzione plausibile e duratura, accettata sia dal governo israeliano, sia dai rappresentanti del Hamas.

    Nel frattempo e quasi da due anni ormai si continua a combattere e a morire anche in Ucraina. L’aggressione, che il dittatore russo considerava “un’operazione militare speciale”, cominciò il 24 febbraio 2022. Un’aggressione che ha causato molte vittime innocenti, soprattutto tra i cittadini ucraini. L’opinione pubblica in tutto il mondo ha avuto modo di conoscere le atrocità dell’esercito russo. Sono tanti i simboli di queste crudeltà, compresa quella nella cittadina di Bucha durante la primavera del 2022. Lì sono stati ritrovati uccisi e buttati nelle fosse comuni alcune centinaia di cittadini inermi ucraini, tra cui anche bambini ed anziani. Ogni giorno che passa arrivano notizie di questa guerra che continua a mietere tante vite umane. L’ideatore di questa aggressione continua però a parlare cinicamente di “un’operazione militare speciale” e non di una sanguinosa guerra, di una vera e propria carneficina.

    Purtroppo attualmente non si combatte e non si muore soltanto in Ucraina e nella Striscia di Gaza. Da circa dieci mesi si sta combattendo anche in Sudan, causando morti tra i civili inermi e i combattenti nonché una grave crisi umanitaria. Nello stesso tempo però sono in corso anche altri combattimenti in diverse parti del mondo, con morti e distruzioni, nonostante non abbiano la stessa attenzione mediatica e politica.

    La scorsa settimana c’è stata un’altra notizia che ha attirato l’attenzione dell’opinione pubblica; la morte di Alexei Navalny, il maggior oppositore politico del dittatore russo. La morte “improvvisa” è avvenuta in una prigione speciale in Siberia, oltre il circolo polare artico, costruita nel periodo dei lager nell’Unione Sovietica. La colonia penale IK-3, nota anche come la colonia Polar Wolf (Lupo polare; n.d.a.) si trova a circa duemila chilometri a nord-est di Mosca. E, guarda caso, la morte di Navalny è avvenuta a meno di un mese dalle elezioni presidenziali in Russia, previste tra il 15 ed il 17 marzo 2024. Elezioni che, vista la realtà, saranno “vinte” di nuovo dal dittatore russo. Proprio da lui che ha visto sempre nella persona di Alexei Navalny un avversario molto pericoloso, perciò un avversario da eliminare.

    La notizia della morte di Navalny è stata diffusa dalle autorità venerdì scorso, 16 febbraio, alle ore 14:17 locali (le 10:17 italiane; n.d.a.). Lo confermava anche un certificato rilasciato a sua madre dalle autorità della colonia penale IK-3, dopo che lei era andata lì per vedere il defunto figlio, dopo la diffusione della notizia, insieme con l’avvocato di Navalny. Bisogna sottolineare che la notizia è stata propagata dal servizio penitenziario russo tramite alcune delle reti televisive controllate dal governo. In un breve comunicato stampa si faceva sapere che Alexei Navalny “… si è sentito male dopo una passeggiata e ha perso conoscenza quasi immediatamente”. Aggiungendo che “…tutti gli sforzi fatti per rianimarlo non hanno avuto esiti”. Da fonti indipendenti e credibili risulterebbe che ai media ed ai giornalisti è stato “consigliato” di non dare spazio alla notizia e comunque di attenersi a quanto diramato solo dalle autorità e diffuso dalle televisioni e dalle agenzie stampa controllate dal governo russo. Ma nonostante tutto ciò, la notizia ha avuto subito una rapida diffusione a livello internazionale. E si riferiva soprattutto alle dichiarazioni della madre e della moglie di Navalny, della sua portavoce e dell’avvocato. Si è saputo che sua madre ed il suo legale hanno dovuto aspettare per circa due ore prima che un funzionario della colonia penitenziaria si presentasse finalmente per comunicare loro che il corpo era stato portato nel obitorio di una città a circa 50 chilometri di distanza. Andati lì hanno trovato però l’obitorio chiuso, In seguito, è stato comunicato loro che il cadavere non si trovava nell’obitorio! La famiglia e i suoi collaboratori sono convinti che la morte di Navalny “ha un solo responsabile: Vladimir Putin”. La portavoce dell’oppositore ha dichiarato, tra l’altro::“….Ora chiediamo che il corpo di Navalny sia consegnato alla famiglia, e facciamo appello a tutti perché lo chiedano con noi”.

    Alexei Navalny, morto il 16 febbraio scorso, a 47 anni, era un avvocato e uno dei più convinti ed agguerriti oppositori del dittatore russo. Aveva cominciato la sua attività politica all’inizio degli anni 2000 con il partito liberale e nazionalista Yabloko (La mela; n.d.a.). In seguito ha aperto un sito dove denunciava la corruzione del regime russo e degli oligarchi “amici” del dittatore. Poi, nel 2011, registra ufficialmente la sua Fondazione anticorruzione e continua a pubblicare molti materiali e documenti con i quali denunciava la corruzione ai massimi livelli del potere politico. Ed era proprio tra il 2011 ed il 2012 che Navalny organizzava e dirigeva, insieme ad altri suoi amici e collaboratori, delle proteste in piazza contro i brogli elettorali. Brogli che garantivano sempre al dittatore russo la vittoria. Le “paperelle gialle” sono state diventate il simbolo della realtà russa, caratterizzata dalla corruzione diffusa e che partiva dai massimi livelli del potere politico. Navalny diventa perciò un’avversario “ingombrante” per il dittatore russo e proprio per questa ragione lui non è stato registrato come candidato nelle elezioni presidenziali del 2018 con la scusa di una “condanna per frode”. Alexei Navalny diventava sempre più una crescente preoccupazione per lo zar russo. Ragion per cui quest’ultimo ordina ai suoi di avvelenarlo. Era il 20 agosto del 2020 quando, a bordo di un aereo diretto a Mosca, Navalny si sente male. Perciò l’aereo atterra nella città di Omsk e lui viene ricoverato nell’ospedale dove, comunque, non hanno fatto riferimento di avvelenamento. Da quell’ospedale Navalny, su sua richiesta, è stato trasferito presso l’ospedale Charité (Carità; n.d.a.) di Berlino. I medici tedeschi hanno constatato l’avvelenanento con un agente nervino. Ma nonostante la consapevolezza dei pericoli che poteva affrontare, Navalny, dopo la degenza in Germania, nel gennaio 2021 decise di ritornare di nuovo in Russia. Ma in patria lui è stato di nuovo condannato dal regime russo. Condanne che ammontavano, tutte insieme, ad oltre trent’anni di carcere. A quelle condanne poi, guarda caso, subito dopo l’inizio guerra in Ucraina, a Navalny è stata aggiunta un’altra condanna di nove anni. Ma non è finita lì. Era l’agosto del 2023 quando a lui arriva un’altra, l’ennesima, condanna. Quella volta di 19 anni di prigione. Ed era dopo quella condanna che lui, a fine dicembre scorso, è stato trasferito proprio nella colonia penale IK-3 dove, secondo i suoi familiari e collaboratori, è stato ucciso venerdì scorso 16 febbraio.

    Subito dopo la diffusione della notizia della morte di Navalny in diverse città in Russia sono state organizzate delle manifestazioni per onorare quello che lui rappresentava. Ovviamente la reazione delle autorità russe è stata immediata, con alcune centinaia di arresti. Durante il fine settimana ci sono state delle manifestazione in onore di Navalny anche in diverse capitali e città europee e negli Stati Uniti d’America. Lunedì 19 febbraio, mentre le autorità russe annunciavano che la salma non sarebbe stata restituita alla famiglia per altri 14 giorni, la vedova di Alexei Navalny è stata a Bruxelles dove ha partecipato alla riunione dei ministri degli Esteri dei Paesi membri dell’Unione europea. Lo stesso giorno, in una video, lei affermava: “Mentono meschinamente e nascondono il suo corpo attendendo quando svaniranno le tracce dell’ennesimo novichok di Putin”.

    Purtroppo il dittatore russo ha dei suoi simili in diverse parti del  mondo. Simili che, come lui, fanno di tutto per avere le “mani libere” nella gestione dei regimi dittatoriali. Compresa anche l’eliminazione degli avversari politici e di qualsiasi opposizione. Quanto sta accadendo in questi ultimi mesi in Albania ne è una significativa ed inconfutabile testimonianza. Il nostro lettore è stato informato della palese violazione della Costituzione e delle leggi in vigore da parte delle istituzioni del sistema “riformato’ della giustizia. Si tratta di procuratori e giudici che, ubbidendo agli ordini personali e perentori del primo ministro albanese, hanno deliberato prima il divieto dell’uso del passaporto e poi, dal 30 dicembre scorso, l’arresto domiciliare del dirigente dell’opposizione politica albanese (Inconfutabili testimonianze di una dittatura in azione, 23 ottobre 2023; Preoccupante ubbidienza delle istituzioni al regime dittatoriale, 7 novembre 2023; Un dittatore corrotto e disposto a tutto, 20 dicembre 2023). Riferendosi alla drammatica realtà albanese, l’autore di queste righe scriveva che si tratta di una realtà: “…che è stata palesemente confermata anche da quello che è accaduto con il dirigente dell’opposizione, ex presidente della Repubblica (1992-1997) ed ex primo ministro (2005-2013). Per il primo ministro e per i suoi “alleati”, lui rappresenta non solo un avversario politico, ma bensì un nemico da combattere con tutti i metodi. E dal 30 dicembre scorso, in piena violazione della Costituzione e delle leggi in vigore, il dirigente dell’opposizione è agli arresti domiciliari” (Preoccupanti e pericolose somiglianze; 16 gennaio 2024).

    Il primo ministro albanese, trovandosi sempre più impantanato in vistose difficoltà, da lui stesso causate, sta cercando, costi quel che costi, un “appoggio internazionale”. E siccome non convince più il comprato sostegno dei soliti “rappresentanti diplomatici” accreditati in Albania e neanche quello di alcuni rappresentanti delle istituzioni dell’Unione europea, allora lui sta disperatamente cercando di avere anche l’appoggio di alcuni massimi rappresentanti delle istituzioni statunitensi.

    Giovedì scorso, 15 febbraio, per alcune ore, è arrivato in  Albania il segretario di Stato degli Stati Uniti d’America. Proprio colui che ultimamente è stato continuamente impegnato nei negoziati difficili e ad ora senza nessun esito, tra l’Israele e Hamas. Proprio lui che, guarda caso, il 19 maggio 2021 dichiarava il dirigente dell’opposizione, ormai agli arresti domiciliari dal 30 dicembre scorso, come persona “non idonea ad entrare negli Stati Uniti d’America’. Una visita, quella del segretario di Stato ,che è stata smentita dalle istituzioni statunitensi fino a pochi giorni prima di essere stata realizzata. Una visita durante la quale non sono state trattate delle “questioni geostrategiche”, come preannunciavano alcuni media controllati dal primo ministro albanese. Una visita, durante la quale l’illustre ospite ha avuto un brevissimo incontro con il presidente della Repubblica, un ubbidiente  servitore del primo ministro, fatti accaduti alla mano. Una visita, durante la quale il segretario di Stato ha incontrato anche alcuni dirigenti delle istituzioni del sistema “riformato’ della giustizia. Il segretario di Stato statunitense ha avuto però un lungo incontro e poi una conferenza stampa con il primo ministro albanese. E durante quella conferenza stampa il segretario di Stato ha considerato il primo ministro albanese come ”un illustre dirigente e un ottimo primo ministro” (Sic!). Chissà a cosa si riferiva? Ma non di certo alla vera, vissuta e sofferta realtà albanese. E se lui, il segretario di Stato, avesse letto solo l’ultimo rapporto pubblicato nel marzo 2023 proprio del Dipartimento di Stato che lui dirige, doveva avere avuto dei “buoni motivi” per dire quelle parole.

    Chi scrive queste righe pensa che quello del segretario di Stato statunitense, giovedì scorso, è stato un vergognoso sostegno da oltreoceano ad un autocrate corrotto. Aveva pienamente ragione Arturo Graf quando scriveva nel suo libro “Ecce Uomo” che in nessun altro tempo ebbe la ciarlataneria tanti seguaci e s’allegrò di così lauti profitti, quanto in questo tempo di spregiudicati e di scaltriti.

  • Crac di banche regionali Usa

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi apparso su ItaliaOggi il 15 febbraio 2024

    Dopo il collasso di tre istituti di credito regionali statunitensi nel marzo scorso, il settore è di nuovo sotto stress. Infatti, in un solo giorno le azioni della New York Community Bank (Nycb) sono crollate del 38%, dopo aver riportato una perdita di 252 milioni di dollari nell’ultimo trimestre.

    Anche l’indice bancario regionale Kbw è sceso del 6%, il suo più grande calo giornaliero da maggio. Non sono crolli improvvisi e momentanei. Le perdite sono continuate, colpendo altre banche regionali, tra cui la Bank of California, la BankUnited con base in Florida, la Western Alliance Bank dell’Arizona, la Bank OZK dell’Arkansas e la Valley National Bank del New Jersey.

    È utile ricordare che in queste situazioni c’è sempre una certa speculazione che soffia sul fuoco. Si stima che chi ha scommesso sul crollo delle azioni delle banche regionali abbia registrato profitti per 685 milioni di dollari in un giorno! Perciò gli investitori e le autorità di regolamentazione sono di nuovo in allerta.

    Una delle cause sarebbe l’esposizione al mercato immobiliare commerciale che è da tempo in difficoltà. Ci sarebbero state delle grosse perdite sui prestiti immobiliari concessi. Le banche sono state e sono costrette ad accantonare cospicui fondi per coprire eventuali perdite.

    C’è anche una nefasta eredità lasciata dalla pandemia: il valore di molti immobili, infatti, sarebbe crollato poiché milioni di lavoratori sono ancorati al lavoro a distanza, lasciando gli uffici vacanti o sottoutilizzati. Ancora una volta, però, è soprattutto l’alto tasso d’interesse della Federal Reserve al 5,5% a mettere in difficoltà molte banche, colme di titoli Treasury in perdita, e a rendere difficile il pagamento dei prestiti accesi dagli investitori immobiliari. Anche la recente decisione del governatore Jerome Powell di non ritoccare al ribasso i tassi ha dato una spallata al mercato.

    Vi è poi la richiesta da parte della Federal deposit insurance corporation (Fdic) alle banche di riempire i suoi fondi svuotati per i salvataggi fatti la scorsa primavera. La Fdic è l’agenzia indipendente del governo Usa che garantisce i depositi fino a 250 mila dollari. Si stima che le banche regionali americane dovrebbero versarle almeno 500 milioni di dollari. Inoltre, per sopravvivere, molte banche regionali starebbero portando avanti numerose operazioni di fusione/acquisizione e ciò renderebbe il mercato più instabile, volatile.

    La crisi immobiliare americana sta mettendo, com’era prevedibile, in serie difficoltà anche alcune banche europee, canadesi e giapponesi esposte sul mercato immobiliare statunitense. Al riguardo, la banca privata svizzera, gestore patrimoniale, Julius Baer, ha registrato forti ribassi dei suoi profitti e altre banche maggiori, come la Deutsche Bank, hanno dovuto accantonare delle riserve extra per far fronte a eventuali perdite su investimenti immobiliari americani.

    Anche i salvataggi fatti lo scorso anno hanno lasciato dei buchi irrisolti. Ad esempio, la Nycb ha registrato delle difficoltà a seguito dell’acquisizione di prestiti per un valore di 13 miliardi di dollari dalla Signature Bank di New York, uno dei tre istituti di credito falliti lo scorso anno. Molte banche regionali lamentano rilevanti diminuzioni del loro cosiddetto net interest income (nii), che è la differenza tra quanto esse guadagnano sui prestiti concessi e gli interessi pagati sui depositi. Per riuscire a trattenere i depositi dei clienti in fuga e in cerca di compensi più alti, esse hanno dovuto alzare gli interessi offerti.

    In un recente discorso, Michael J. Hsu, presidente dell’Office of the Controller of the Currency (Occ), l’agenzia federale di vigilanza bancaria, ha analizzato le crisi bancarie del 2023 evidenziando tre grandi problematiche: la «fuga dei depositi» non assicurati è sempre più veloce; mantenere degli asset liquidi non è sufficiente in caso di grave stress; il contagio colpisce le grandi banche anche in mancanza di un loro rapporto diretto con quelle regionali in crisi. Si ricordi che nella Silicon Valley Bank, il cui fallimento è stato il secondo più grande della storia Usa, il 90% dei depositi non erano assicurati e, al sorgere della crisi, in precipitosa fuga.

    Hsu ha inoltre riportato che la Fdic evidenzia che i depositi non assicurati sono aumentati del 10% annuo, passando dai 2.300 miliardi di dollari del 2009 ai 7.700 miliardi del 2022. Molte più banche si basano su depositi non assicurati.

    Inoltre, le banche, che sono visionate dall’Occ, hanno 12.000 miliardi di dollari di depositi, il 40% dei quali, pari a 4.800 miliardi, è senza l’assicurazione della Fdic.

    In altre parole, il sistema bancario americano è seduto su una bomba a orologeria. In caso di stress o di crisi, i «run», cioè le fughe dei depositanti dalle banche, diventerebbero incontrollabili. Continuiamo a pensare che il G20 debba affrontare il tema di una riforma radicale del sistema che non riguarda soltanto gli Usa.

    * già sottosegretario all’Economia ** economista

  • US to consider mass release of detained migrants over budget woes

    A senior US immigration official has said that authorities plan to release thousands of migrants from detention amid a severe budget crunch.

    The official from Immigration and Customs Enforcement (ICE) told CBS, the BBC’s US partner, that between 4,000 and 6,000 migrants could be released.

    A bipartisan border bill that would have funded immigration detentions collapsed last week.

    More than 6.3 million migrants have entered the US illegally since 2021.

    ICE is currently holding about 38,000 migrants in long-term detention facilities.

    The bipartisan border bill that faltered due to Republican opposition last week would have earmarked $7.6bn (£6bn) for ICE, including an additional $3.2bn for detention capacity that would have boosted the agency’s ability to house detainees by several thousand beds.

    According to the Washington Post – which first reported the story – the bill’s collapse prompted ICE officials to circulate an internal proposal to slash costs by cutting detentions from 38,000 to 22,000.

    While the proposal would see some of the migrants deported back to their home countries, many would be released into the US, the report added.

    In response to a query from the BBC, a spokesperson for the Department of Homeland Security (DHS) – which includes ICE – said that Congress has “chronically underfunded” efforts to secure the border.

    The rejection of the border bill, the spokesperson added, will “put at risk DHS’s current removal operations” and “put further strain on our already overtaxed workforce”.

    The spokesperson said that without “adequate funding” for Customs and Border Patrol, ICE and US Citizenship and Immigration Services, “the department will have to reprogram or pull resources from other efforts”.

    A budget shortfall would also mean that ICE’s capacity to deport migrants would suffer, one of a number of potential changes to DHS operations cited by the spokesperson.

    Any such move would almost certainly face intense criticism from Republicans, who have long called for stricter enforcement and fewer migrants being “paroled” into the US to await immigration court proceedings.

    The border has become an extremely divisive issue in the US.

    A January poll conducted by CBS – the BBC’s US partner – suggests that nearly half of Americans view the situation at the border as a crisis, with 63% wanting “tougher” policies.

    More migrants have been held while crossing the border illegally since the start of President Joe Biden’s term than under either Donald Trump, Barack Obama or George W Bush.

    Of the more than 6.3 million total, about 2.4 million have been allowed into the US, mostly to await decisions from immigration courts.

    On a monthly basis, migrant detentions rose to an all-time high of over 302,000 in December 2023, but fell by 50% to about 124,00 in December.

    CBP officials have attributed the drastic decline to “seasonal trends, as well as enhanced enforcement efforts”.

    Experts have also credited increased enforcement by the Mexican government for the drop in migrants “encounters” at the border in the wake of a December meeting between Secretary of State Antony Blinken and Mexican President Andrés Manuel López Obrador.

  • L’Occidente seduto sul bordo del precipizio?

    Ormai siamo abituati a tutto, guerre, massacri, satanismi, violenti di ogni età, ordine e grado, che ammazzano e violentano donne, distruggono scuole, picchiano i professori, sproloquiano sui social, devastano gli stadi e mettono a testa in giù il Presidente del Consiglio o qualche altro avversario.

    Siamo abituati alle leggi presentate, ritirate, non applicate, alle carceri strapiene, alle cure mediche rimandate di mesi per la mancanza di personale sanitario o per l’incapacità di gestirlo e di fare funzionare i macchinari, ai cavalcavia pericolanti e non sistemati, alle esondazioni dei fiumi, per altro mai ripuliti nei lunghi momenti di siccità.

    Siamo abituati a tutto ma che la più grande potenza occidentale, gli Stati Uniti, abbia un ex presidente che aspira a tornare alla Casa Bianca, anche se pieno di processi e primo attore di vari scandali, il quale, in un comizio elettorale e con dichiarazioni varie, di fatto afferma che lascerebbe carta bianca a Putin per fare quello che gli pare, minacciando anche di uscire dalla Nato e che l’America non si dovrà occupare se uno dei suoi alleati europei sarà invaso credo sia un drammatico segnale dell’abisso sul quale è seduto l’Occidente.

    Quando un leader politico non è in grado di comprendere la gravità delle sue affermazioni, per i risvolti interni ed esterni, ed anzi si compiace di alzare i toni e la violenza del linguaggio fino al parossismo, o c’è modo di intervenire per riportarlo alla ragione o bisogna bandirlo dalla vita pubblica.

    Tutti sappiamo come migliaia, purtroppo milioni di persone possono essere contagiate proprio dal machismo esasperato dei capi popolo che, alla caccia esasperata di voti, non realizzano che il loro esempio porta a conseguenze molto pericolose.

    Vale per gli Stati Uniti come per l’Italia, Giorgio Pisanò scrisse un importante libro sul primo dopoguerra in Italia “Sangue chiama sangue”, e ormai dovremmo sapere che violenza verbale chiama violenza anche fisica così, vale per tutti, se i toni non tornano ad un civile confronto la responsabilità peserà su coloro che hanno dato il cattivo esempio.

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