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  • Salviamo i piccoli negozi e le relazioni umane

    A Milano molti negozi si sono trasformati in mini appartamenti, il problema alloggi, sia per la penuria degli stessi che per gli alti costi degli affitti, rimane uno dei principali scogli da affrontare per i giovani che desiderano andare a vivere da soli, per le coppie  che si  separano e per i tanti che si trasferiscono a Milano per lavoro. Le case di edilizia popolare o convenzionata rimangono un miraggio. A Piacenza i negozi invece  diventano garage per le macchine mentre tante saracinesche si abbassano per sempre, sembra non ci sia più posto per i piccoli commercianti neppure nei centri storici, per farsene un’idea basta andare a Bologna o a Ferrara o in una delle tante cittadine del Piemonte o della Liguria. Al  centro Italia o al sud la situazione non è certo migliore e se una delle cause di tante chiusure di esercizi è la crisi economica che continua e che ha modificato il modo di vita è altrettanto vero che la eccessiva, a volte dissennata, apertura di troppi centri commerciali, anche a poca distanza gli uni dagli altri, ha prodotto una concorrenza che i piccoli non sono in grado di affrontare. Negli ultimi tempi, inoltre, le vendite on line sono aumentate in modo esponenziale cambiando usi, sistemi di scelta e anche relazioni umane.

    Il problema non è solo la chiusura di tanti piccoli esercizi con le conseguenze economiche ovvie, persone che restano senza lavoro, tradizioni e specificità artigianali che si perdono, etc ma il fatto che in troppi casi interi quartieri diventano dipendenti solo dal centro commerciale o dalle vendite on line. Le persone più anziane o che non dispongono di una macchina perdono la loro libertà di scelta e di acquisto ma perdono anche quel riferimento umano che dava il rapporto tra cliente e commerciante. I prodotti sono sempre più standardizzati, la qualità spesso lascia a desiderare e la mancanza di una legislazione europea che obblighi, con l’etichetta, a indicare l’origine del prodotto lascia aperto anche il campo a quelle truffe on line delle quali si è più volte parlato anche in campo sanitario. Prodotti contraffatti o per i quali sono state utilizzate componenti vietate e pericolose rappresentano un grave danno per i consumatori e per i produttori e la difesa del sistema manifatturiero non può che andare di pari passo con la tutela del consumatore e la difesa di quel piccolo commercio che sempre più va scomparendo. Se spetta all’Europa legiferare per eliminare la contraffazione e l’illegalità su larga scala spetta invece alle amministrazioni comunali e regionali difendere quel piccolo commercio che va scomparendo. Una maggior attenzione nel dare concessioni a nuovi centri commerciali, quando già ne esistono altri  sul territorio, e provvedimenti ad hoc per dare ai piccoli commercianti quelle agevolazioni e tutele necessarie alla loro sopravvivenza dovrebbe essere un impegno di chi amministra grandi e piccole realtà, il rischio, come dimostrano i fatti, è di rendere deserte e abbandonate al degrado intere zone delle città, di lasciare che i paesi siano solo quartieri dormitori, di rendere sempre più forte la crisi con la perdita di tanti posti di lavoro e di far perdere sempre più servizi ai cittadini.

  • E-commerce ed economia digitale: la sostenibilità del dettaglio tradizionale

    L’economia digitale rappresenta sicuramente l’evoluzione contemporanea della economia reale i cui effetti dipendono dalle modalità di applicazione e dai modelli di consumo conseguenti. Essenzialmente questa  trova la sua massima applicazione quando viene utilizzata nel mondo dello studio, analisi e realizzazione di prodotto così come negli articolati processi produttivi (innovazione di prodotto e di processo). Dovrebbe quindi venire intesa come un fattore complesso ed innovativo dai risultati tanto interessanti quanto articolati.

    In altre parole, questa rappresenta la inevitabile evoluzione dell’economia in un contesto storico di inarrestabile innovazione tecnologica e ciò è maggiormente evidente nella riduzione del time-to-market (risposta al mercato quindi attraverso l’innovazione di processo abbinato alla ideazione) e fornisce un supporto straordinario. Mentre il valore aggiunto come espressione di una maggiore eco-compatibilità andrebbe considerato con maggiore attenzione specialmente per un mercato evoluto e contemporaneo.

    In altre parole,l’economia digitale presenta nella propria genesi dei particolari fattori positivi quando questa viene applicata in modo corretto al complesso mondo produttivo e dei servizi.

    Da anni, viceversa, in questa definizione complessiva di economia digitale l’e-commerce ottiene le stimmate del migliore e contemporaneo asset distributivo per i beni e servizi, e quindi, per sua semplice genesi e definizione, risponderebbe ai nuovi parametri di eco-sostenibilità come semplice nuova espressione digitale nella distribuzione.

    L’e-commerce certamente presenta, come ogni innovazione, il vantaggio per un consumatore di saltare l’interposizione commerciale (anche se Amazon come gli altri top player rimangono dei grossisti on-line) ma il supporto digitale offre l’illusione di una rapporto diretto. Ovviamente quando l’intera distribuzione di una gamma di beni ad alto valore aggiunto viene gestita direttamente dalla società produttrice assistiamo al noto passaggio degli anni ’80-‘90 dal dettaglio indipendente ai flag ship, poi diventati vere e proprie catene gestite dall’azienda stessa.

    Tornando al tema dell’impatto ambientale l’e-commerce gode della considerazione dell’intero mondo politico, accademico e degli economisti che non valutano con obiettività il costo ambientale legato alla parcellizzazione dei flussi delle merci. Esattamente come nel passato si era sposata la filosofia dei centri commerciali e delle grandi catene a discapito del dettaglio indipendente, salvo poi trovarsi con centri storici desertificati e bui dimostrando, ancora una volta, come sia necessario valutare l’innovazione nella sua articolata applicazione e gli stessi effetti complessivi.

    All’interno di un mercato competitivo nel quale i Big Player dell’e-commerce avviano politiche di incentivazione sempre più estreme anche attraverso la possibilità di resi gratuiti, nel solo 2018 i returns (la merce resa dopo averla ricevuta e provata) hanno toccato il valore di 369 miliardi di dollari, circa il 10% dell’intera movimentazione legata all’e-commerce.

    Per il 2020 la previsione indica la possibilità di raggiungere circa 550 miliardi di dollari di returns (450 mld di euro) in quanto il 39% delle persone in fascia di età dai 25 i 39 anni ha dichiarato di acquistare on-line con la sola intenzione di provare e successivamente rendere la merce dopo averla magari indossata per una paio di giorni. Questa movimentazione continua di pacchi e vettori, specialmente nell’ultimo tratto, il cosiddetto last Mile (il furgone che porta a casa del singolo consumatore il prodotto), risulta fondamentale nella creazione di un impatto ambientale assolutamente incalcolabile tale da diventare la prima causa, negli Stati Uniti, di inquinamento superando persino le centrali di produzione di energia.

    Questi dati offrono l’occasione per delle osservazioni e considerazioni.

    La prima, forse la più banale, è relativa al fatto che ogni evoluzione, per sua stessa natura, presenta dei costi indipendentemente dalla propria natura. Al tempo stesso emerge evidente come il concetto di impatto zero rappresenti l’indicazione di un percorso più che un traguardo da raggiungere anche in un mondo caratterizzato dalla continua e sempre più veloce innovazione tecnologica.

    La seconda, e sicuramente la più preoccupante, riguarda l’incapacità da parte della classe dirigente e politica di comprendere come le evoluzioni di per sé risultino certamente inevitabili ma contemporaneamente presentino  sempre un costo anche in termini di sostenibilità.

    Infine, proprio nell’ottica di una sostenibilità diffusa, riconsiderando i parametri di questa evoluzione come la loro applicazione allora, la distribuzione tradizionale ancora oggi non ha alcun concorrente che sia in grado di superare il proprio basso impatto ambientale. Quindi digitalizzazione ed innovazione rappresentano della tappe inevitabili del nostro mondo come dell’economia sia produttiva che distributiva.

    In considerazione, però, della rinnovata attenzione alla sostenibilità ambientale non si dovrebbe commettere l’errore di valutare solo l’aspetto innovativo escludendo le conseguenze per l’ambiente legate ai nuovi comportamenti che da tale innovazione scaturiscono. Nello specifico la distribuzione tradizionale impatta in modo molto minore nel contesto ambientale e meriterebbe una attenzione maggiore anche in funzione del servizio che offrono ai centri cittadini. In altre parole, l’evoluzione legata all’innovazione meriterebbe la stessa valutazione complessiva che viene riservata al mondo reale nella quale si inserisce. Al tempo stesso il concetto di eco sostenibilità non può assolutamente risultare limitato alla diminuzione dei tempi di risposta al mercato (time to market) ma andrebbe valutato in rapporto alla modifica dei comportamenti dei consumatori mondiali (https://www.ilpattosociale.it/2019/09/02/la-sostenibilita-complessiva-il-made-in-italy-e-lesempio-biellese/).

    In fondo la digitalizzazione dell’economia se non introduce una reale ottimizzazione nei flussi commerciali e di persone rappresenta una mera evoluzione della conoscenza con un conseguente modello di consumo.

  • Bruxelles sollecita il potenziamento dei controlli sulle vendite di alimentari online

    Lo shopping on line di alimenti sta diventando sempre più popolare, e mentre cresce il numero delle aziende alimentari che sfruttano i nuovi modelli del business on line (il web contiene molte offerte di prodotti alimentari, compresi gli integratori) chi vende non sempre è consapevole che le norme europee valgono anche on line. «Tuttavia – fa notare una nuova relazione della Commissione Europea – gli operatori che entrano in questo mercato non sempre sanno che le norme sulla sicurezza alimentare dell’Unione Europea sono applicabili anche alle vendite online».

    La Commissione ha analizzato i controlli ufficiali degli Stati Membri sulle vendite di alimenti via Internet, per verificare se la compravendita on line sia stata inserita nei sistemi di sicurezza alimentare vigenti. Le norme che disciplinano le attività commerciali alimentari tradizionali (ad esempio norme di igiene e etichettatura) devono essere rispettate anche per gli alimenti oggetto di shopping on line. In base a una serie di missioni della DGSANTE condotte nel 2017 in 7 Stati membri dell’UE. La conclusione della Commissione è che i controlli ufficiali per la sicurezza degli alimenti compravenduti on line «sono ancora limitati e dovranno essere ulteriormente potenziati, anche a causa della rapida crescita prevista nei prossimi anni di e-commerce».

  • 1987 Common rail, 2018 Magneti Marelli: le pericolose similitudini

    L’obiettivo di chi gestisce una S.p.A quotata in borsa, semplificando, ovviamente, al netto della questione delle stock options riservate al management, è quello duplice di creare valore da distribuire attraverso la propria quota azionaria ai sottoscrittori del capitale e contemporaneamente riuscire ad aumentare il valore nominale delle azioni stesse accrescendo, in questo modo, il valore  patrimoniale dell’azienda stessa.

    In un mercato complesso, articolato e globale come quello attuale, è evidente come la politica di questa tipologia di  azienda quotata in borsa per assicurarsi dei piani di sviluppo a medio come a lungo termine (quella del breve è più dedicata all’aumento del valore nominale del titolo) debba trovare delle connessioni o, meglio, entrare all’interno di filiere complesse quanto competitive, nel caso produca dei beni intermedi, oppure attraverso la realizzazione di una filiera altrettanto articolata  del proprio prodotto finale. In altre parole, rimane difficile, se non economicamente insostenibile all’interno di un piano di sviluppo, la possibilità di gestire un’azienda senza avere una visione complessiva ed articolata del mercato di riferimento, ovviamente in un orizzonte mondiale nel quale per esempio il concetto di stagionalità viene superato dalla globalizzazione.

    Sono passati solo pochi mesi dalla morte di Sergio Marchionne il quale, attraverso la propria articolata attività e scelte strategiche, era riuscito, anche grazie allo spessore manageriale e credibilità personale, ad ottenere dei fondi statali dal Presidente degli Stati Uniti al fine di acquisire la Chrysler (sull’orlo del fallimento dopo la gestione Mercedes) ed attraverso questa operazione finanziaria inserire la FIAT nel piano di acquisizione salvandola dal tracollo finanziario ed industriale. Successivamente, nel  gennaio 2016, portò la Ferrari alla quotazione in Borsa con il fine  di creare per la holding familiare del valore aggiunto mantenendo il controllo della gestione: la quotazione quindi risultò funzionale alla elaborazione di piani di sviluppo articolati per la sfida dei mercati nel medio e lungo termine.

    Fedele a questa impostazione, che sposava felicemente le dinamiche della finanza e delle sue aspettative di remunerazione finanziaria alle complesse logiche industriali in quello che sarebbe stato  l’ultimo  periodo della propria vita, aveva individuato ancora nella quotazione della Magneti Marelli la strategia vincente per creare nuovo valore per la holding familiare ma senza escluderla dalla gestione delle politiche, soprattutto per l’innovazione tecnologica che sta rivoluzionando il settore dell’automotive come l’intero mondo dell’automobile. La quotazione quindi prevedeva, o perlomeno lasciava immaginare, la possibilità di mantenere, grazie al mantenimento della direzione strategica della Magneti Marelli, il settore dell’automobile come investimento principale della holding familiare.

    Dopo pochi mesi dalla sua scomparsa invece si è scelto di vendere la Magneti Marelli alla  giapponese Calsonic per un controvalore di oltre sei miliardi che verrà distribuito come dividendo straordinario (e forse una quota al mantenimento di un piano industriale nel settore automobilistico) ma che vede la perdita di know how strategico e soprattutto di capacità ed autonomia gestionale.

    La legittima scelta di vendere Magneti Marelli ricorda un po’ quella del brevetto del Common Rail realizzato dal centro studi della Fiat di Bari. Già nel 1986 il gruppo torinese aveva proposto la Croma i.d., che introduceva per prima l’iniezione diretta nel ciclo diesel, il massimo dell’innovazione tecnologica per quei tempi.

    Successivamente, e nella elaborazione di queste tecnologie tra il 1987 ed il 1990, il centro studi della Fiat di Bari creò il sistema common rail che vide una fase di  pre-industrializzazione nel 1990 proprio dalla Magneti Marelli. Questo pacchetto, allora fortemente innovativo, invece di creare valore all’interno di un’ottica di medio e lungo termine venne invece ceduto alla Bosh nel 1994 rendendo la casa tedesca leader mondiale nella applicazione di questa tecnologia nei motori Diesel e dando inizio alla marginalizzazione del gruppo torinese.

    In questo senso la cessione di Magneti Marelli risulta molto simile alla vicenda degli anni ‘90 ed  implicitamente potrebbe dimostrare una volontà di uscita del mondo dell’auto a pochi mesi dalla creazione del valore complesso dell’attività di Sergio Marchionne, che invece poneva l’auto al centro dei piani di sviluppo. Le pericolose similitudini tra le due cessioni del 1994 e del 2018 dimostrano come siano stati sufficienti pochi mesi per dimenticare l’insegnamento del manager canadese e ritornare alla vendita su piazza dei gioielli di famiglia che portarono la casa automobilistica torinese sull’orlo del fallimento poi evitato proprio dal compianto manager.

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