Yemen

  • Somalia di male in peggio. E affiora la tentazione di abbandonarla al suo destino

    La transizione della Somalia verso la stabilità rischia di slittare ulteriormente, nel quadro dei complessi sviluppi regionali e dei presunti legami che intercorrono tra le milizie jihadiste somale e i gruppi armati mediorientali. L’ennesima minaccia potrebbe venire ora dal Golfo di Aden, dove gli Stati Uniti hanno lanciato l’allarme sui presunti contatti fra Al Shabaab e gli Houthi, le milizie sciite yemenite sostenute dall’Iran. Secondo il generale Michael Langley, a capo del Comando degli Stati Uniti per l’Africa (Africom), la Somalia deve guardare con estrema attenzione all’accresciuta presenza di miliziani dello Stato islamico nel nord del Paese, ma anche alla crescente collaborazione tra Al Shabaab e gli Houthi. In un’intervista rilasciata in esclusiva al canale “Voa”, Langley ha rivelato che, secondo le stime di Washington, il numero di miliziani dello Stato islamico nel nord somalo sarebbe “quasi raddoppiato” rispetto allo scorso anno. Sebbene il generale non abbia quantificato la presenza, stime precedenti della Difesa Usa parlavano di circa 200 combattenti jihadisti sul territorio. Una minaccia alla quale vanno aggiunti i circa 12-13mila combattenti che Al Shabaab continua a governare in tutta la Somalia.

    Una possibile alleanza, quella tra le milizie sciite Houthi e Al Shabaab, che spaventa non poco gli Usa. “Siamo preoccupati e stiamo monitorando attentamente la situazione, perché questo potrebbe trasformarsi molto rapidamente in un cattivo vicinato” per la Somalia, ha detto Langley. Il generale non ha fatto mistero della sua preoccupazione soprattutto in vista del piano di ritiro della Missione di transizione dell’Unione africana in Somalia (Atmis), previsto – dopo diversi rinvii – entro la fine di dicembre. Il capo di Africom ha escluso che gli Usa possano giocare un ruolo sul campo in questa fase di transizione, affermando che le unità statunitensi manterranno solo la loro missione di consulenza e assistenza. “Siamo lì per consigliare e assisterli nella loro formazione, ma la lotta è loro”, ha detto in riferimento ai militari dell’esercito somalo. Il progetto di ritiro delle forze Atmis prevede infatti il graduale trasferimento di tutti gli oneri di sicurezza all’Esercito nazionale somalo (Sna), nel quadro di una progressiva assunzione di responsabilità nella stabilizzazione del Paese.

    La percezione di un rafforzamento di Al Shabaab, del resto, aveva già spinto il presidente Hassan Sheikh Mohamud a chiedere e ad ottenere dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, per ben tre volte, il rinvio della tabella di marcia del ritiro delle truppe dell’Unione africana, missione alla quale partecipano militari di Kenya, Burundi, Uganda, Etiopia e Gibuti. Lo scorso 19 agosto la missione Atmis è stata prorogata fino al 31 dicembre, permettendo così a circa 12.600 militari dell’Ua di rimanere nel Paese del Corno d’Africa per altri quattro mesi. L’organo esecutivo delle Nazioni Unite ha chiesto in particolare al segretario generale Antonio Guterres di approvare il mantenimento della fornitura alla missione di un pacchetto di supporto logistico in grado di supportare altri 20.900 membri del personale dell’Esercito nazionale somalo o della Forza di polizia nazionale somala in operazioni congiunte o coordinate con l’Atmis. Ad oggi, 10mila ufficiali hanno già lasciato la missione in conformità con il Piano di transizione somalo.

    Se la vasta lanciata dall’esercito contro al Shabaab dopo l’elezione del presidente Hassan Sheikh Mohamud – nel maggio del 2022 – ha contribuito a riconquistare rilevanti porzioni di territorio, la capacità del gruppo jihadista di riorganizzarsi ed adattare la sua azione ad obiettivi civili e militari continua a dare filo da torcere all’esercito somalo. Ad agosto l’attentato ad un frequentato lido di Mogadiscio ha ucciso 32 civili e ne ha feriti 63, mentre meno di un mese prima, il 15 luglio, una bomba fatta esplodere in un bar della capitale mentre veniva trasmessa la finale degli Europei tra Spagna ed Inghilterra ha provocato 9 morti e 23 feriti. A febbraio un’autobomba piazzata nella base Generale Gordon di Mogadiscio ha ucciso quattro militari degli Emirati Arabi Uniti e uno del Bahrein. A questo aspetto si è aggiunta anche la crisi in corso con la vicina Etiopia per l’accordo siglato dal governo di Addis Abeba con l’autoproclamata Repubblica del Somaliland, che rivendica un’indipendenza non riconosciuta da Mogadiscio.

    L’Etiopia offre un importante contributo di sicurezza alla Somalia nelle regioni di confine, e l’eventuale ritiro delle sue forze dal territorio rischierebbe di incrinare il precario equilibrio di sicurezza faticosamente conquistato da Mogadiscio. Un contenzioso che ha creato anche tensioni interne fra il governo federale ed alcuni Stati regionali, in particolare quello del Sudovest, e che a livello regionale ha portato l’Egitto a schierarsi – anche assicurando un consistente sostegno militare – in favore di Mogadiscio, sull’onda di una mai sopita ostilità etiope legata ad altri dossier, a cominciare da quello sulla Grande diga della rinascita etiope (Gerd). Alla missione Atmis hanno contribuito in tutto 22mila militari, provenienti prevalentemente da Uganda, Kenya, Gibuti ed Etiopia.

    I vertici della missione militare Ua stanno progressivamente smantellando le posizioni delle loro truppe, riconsegnando via via la responsabilità della sicurezza territoriale alle Forze armate somale. Così, a febbraio scorso sono state riconsegnate all’esercito sette basi operative: fra queste ci sono la sede della presidenza e del parlamento a Mogadiscio, in precedenza sotto la sicurezza del contingente ugandese; le basi di Bio Cadale, Raga Ceel e Qorillow gestite in precedenza dalle unità del Burundi; quella di Burahache che era in mano alle Forze di difesa del Kenya ed il vecchio aeroporto militare, in precedenza sotto la tutela dell’esercito etiope. Altre due basi sono state chiuse. I successi ottenuti dall’esercito somalo nella controffensiva contro al Shabaab ha permesso ad Atmis di procedere nel ritiro delle sue unità, sebbene la situazione della sicurezza rimanga molto precaria. In questo scenario d’incertezza, il governo federale ha negoziato con i partner internazionali l’istituzione una forza multinazionale che opererebbe per un anno a partire da gennaio del 2025 con il sostegno di Gibuti, Kenya, Uganda e Burundi.

  • Gli Usa sventano una fornitura d’armi agli Houthi dalla Somalia. Ma è allarme per ambiente e pirateria

    Le autorità statunitensi hanno incriminato quattro cittadini stranieri accusati dell’invio di armi di fabbricazione iraniana alle milizie yemenite Houthi, responsabili degli attacchi sferrati in questi mesi contro le navi commerciali che attraversano il Mar Rosso. Il dipartimento di Giustizia ha divulgato ieri i capi d’accusa a carico di Muhammad Pahlawan, Mohammad Mazhar, Ghufran Ullah and Izhar Muhammad: i quattro sarebbero responsabili del carico di armi sequestrato dai Navy Seals al largo delle coste della Somalia il mese scorso, e sono anche accusati di aver fornito informazioni false alla Guardia costiera statunitense dopo il loro arresto.

    Pahlawan è stato inoltre accusato di aver trasportato illegalmente una testata esplosiva, pur sapendo che gli Houthi avrebbero potuto utilizzarla per attaccare navi commerciali. L’arresto dei quatro contrabbandieri e il sequestro di un piccolo carico di componenti per missili sono stati effettuati l’11 gennaio scorso durante un controverso raid al largo delle coste della Somalia, che ha portato alla morte di due militari statunitensi. Secondo indiscrezioni della stampa Usa, il raid venne ordinato dai vertici della Marina Usa a dispetto di condizioni proibitive sul piano operativo, a causa del mare molto mosso.

    In un’intervista al Financial Times, Arsenio Dominguez, segretario generale dell’Organizzazione marittima internazionale, ha paventato un corto circuito tra gli attacchi degli Houthi nel Mar Rosso e la pirateria africana.

    Costrette dallo scorso dicembre a deviare le loro rotte e circumnavigare l’Africa per evitare gli attacchi Houthi, le principali compagnie navali hanno determinato un aumento della navigazione nelle acque dell’Oceano Indiano e al largo dell’Africa occidentale, un’area marittima dove notoriamente avvengono degli attacchi di pirateria. Non a caso, da anni, in quella sezione di mare è operativa la missione Ue Atalanta. Dominguez ha affermato di aver parlato con le autorità della Somalia, dell’Africa orientale e dei Paesi attorno al Golfo di Guinea, nella parte occidentale del continente, per discutere degli sforzi da mettere in atto per garantire che la pirateria non diventi nuovamente un grave problema.

    Last but not least, gli attacchi degli Houthi rappresentano una minaccia anche all’ambiente. Il Comando centrale degli Stati Uniti (Centcom) ha segnalato nei giorni scorsi che una nave mercantile abbandonata nel Golfo di Aden dopo un attacco dei ribelli sciiti yemeniti sta imbarcando acqua e ha lasciato un’enorme chiazza di petrolio, provocando un disastro ambientale. La Rubymar, una nave mercantile battente bandiera del Belize, registrata in Regno Unito e gestita dal Libano, è stata colpita da un missile sulla fiancata della nave, con conseguente allagamento della sala macchine e abbassamento della poppa, ha affermato il suo operatore, il Blue Fleet Group. “Quando è stata attaccata la M/V Rubymar trasportava oltre 41mila tonnellate di fertilizzanti che potrebbero riversarsi nel Mar Rosso e peggiorare questo disastro ambientale”, ha affermato Centcom in un post su X. L’attacco alla Rubymar rappresenta il danno più significativo mai inflitto a una nave commerciale da quando gli Houthi hanno iniziato a sparare sulle navi a novembre come forma do rappresaglia contro l’offensiva israeliana a Gaza. Gli attacchi degli Houthi hanno spinto alcune compagnie di navigazione ad allungare la rotta intorno all’Africa meridionale per evitare il Mar Rosso, dove normalmente transita circa il 12% del commercio marittimo globale.

  • Egitto pronto ad aiutare l’Italia nella missione per mantenere l’ordine nel Mar Rosso

    Secondo quanto apprende l’agenzia di stampa Nova, Giorgia Meloni e il presidente dell’Egitto, Abdel Fattah al Sisi, si sono sentiti almeno un paio di volte tra l’ultima settimana di gennaio e la prima di febbraio, per discutere della delicata situazione del Medio Oriente, incluso il fascicolo relativo al Mar Rosso. L’Italia, infatti, avrà il comando tattico della missione militare aeronavale europea Aspides (“scudo” in greco) volta a proteggere il traffico marittimo dalle incursioni dei ribelli yemeniti Houthi, che attaccano le navi commerciali occidentali nel tentativo di esercitare pressione su Israele per porre fine al conflitto a Gaza. Situato strategicamente sulle coste del Mar Rosso, l’Egitto ha oggettivamente un interesse nel porre fine agli attacchi alle navi che attraversano il vitale Canale di Suez, fonte di entrate valutarie annue per il Cairo stimabili intorno ai 10 miliardi di dollari. Nonostante il Cairo non abbia ancora annunciato ufficialmente la propria partecipazione alle operazioni militari contro gli Houthi, temendo di essere trascinato in conflitti prolungati nella regione e di urtare la sensibilità dell’opinione pubblica, fonti di “Agenzia Nova” suggeriscono che l’Egitto potrebbe fornire supporto logistico o consulenza ai suoi alleati. Negli ultimi anni, il Paese delle piramidi ha investito 1,2 miliardi di dollari per acquistare due fregate Fremm dell’ex Marina italiana, Ems Bernees (ex Emilio Bianchi) e Ens Al Galala (ex Spartaco Schergat) rispettivamente nell’aprile 2021 e nel dicembre 2020, per rafforzare la sicurezza delle proprie acque territoriali, contrastare l’emigrazione clandestina e proteggere le risorse energetiche offshore dove opera, tra gli altri, anche Eni.

  • Incursioni di pirateria nel Mar Rosso contro le navi commerciali. Blocco di Suez e circumnavigazione dell’Africa: grave attacco all’economia europea

    Riceviamo e pubblichiamo un comunicato stampa di Salvatore Grillo della Segreteria di Unità Siciliana

    “Persiste un sostanziale silenzio in Italia, una assenza di dibattito politico su una vicenda che determinerà, se non si interverrà urgentemente, un forte aumento dei costi sui beni importati ed esportati colpendo seriamente interessi strategici del nostro Paese e dell’intera Europa. Mi riferisco agli attacchi che le milizie ribelli yemenite Houth, sorrette dall’Iran, stanno lanciando contro le navi commerciali che transitano nel mar Rosso. A seguito di questa azione piratesca, che sconvolge i diritti internazionali di navigazione negli stretti, le maggiori compagnie e i consorzi di navigazione, a cominciare da   Maersk, Cma Cqm,Hapag-Lloyd e MSC Mediterranean Shipping Co,  hanno annunciato che devieranno il tragitto delle loro navi evitando lo stretto di Suez e tornando a circumnavigare l’Africa dal Capo di Buona Speranza. Questa scelta causerà l’aumento di almeno da 5 a 9 gg di navigazione e la conseguente lievitazione dei costi di una quantità enorme di materie prime e semi lavorati che riforniscono la struttura manifatturiera europea. Questa vicenda riguarda il 20% della ricchezza mondiale che normalmente transita nel Mediterraneo, fatto che ha determinato un colossale investimento per il raddoppio di Suez e su cui si basano le speranze di sviluppo di molti territori, a partire dal Mezzogiorno italiano. Nonostante gli enormi interessi in ballo registro un silenzio assordante da parte della politica italiana, Governo ed opposizione, ed aggiungerei anche scarsa reazione delle categorie interessate, non solamente quella della rappresentanza industriale, ma di tutti i settori coinvolti, a partire dalla logistica per giungere all’intera rappresentanza sindacale. I fatti sono legati ad una azione violenta di solidarietà ad Hamas dei guerriglieri sciiti che hanno dichiarato che attaccheranno le navi di tutti i paesi che riconoscono Israele, una azione certamente scatenata dal regime iraniano che arma e finanzia queste milizie, un regime la cui esistenza da anni si appalesa come insopportabile innanzitutto per l’oppressione violenta di ogni libertà reclamata dai giovani e dalle donne di quel paese, un regime nei confronti del quale rimane inspiegabile la mancata partecipazione dell’Europa Comunitaria al suo isolamento assoluto sul piano delle relazioni economiche. Sull’argomento amerei vedere muovere il nostro Parlamento, sentire il pensiero del Governo e magari potere constatare una protesta e una mobilitazione sociale”.

                                    

  • How missiles from Yemen could escalate Israel-Gaza war

    It is well over 1,000 miles from the coast of Yemen to the Gaza Strip, and yet what happened last Sunday at the southern end of the Red Sea has the potential to dramatically escalate the war between Israel and Hamas.

    According to US Central Command, the division of the US Department of Defence that covers the Middle East, Iranian-backed Houthi rebels in Yemen carried out four attacks on three commercial ships operating in international waters. The attacks involved a combination of explosive drones and anti-ship ballistic missiles.

    The US Navy already had a guided missile destroyer in the vicinity, the USS Carney, which managed to shoot down three of the drones. Others hit their targets, causing some damage but no casualties.

    “These attacks” said the Pentagon, “represent a direct threat to international commerce and maritime security.” In a further statement it added that it believed the attacks from Yemen were “enabled by Iran”.

    The location of the attacks is significant. They took place just north of the strategic chokepoint of the Bab El Mandeb Strait, a 20-mile wide channel that separates Africa from the Arabian Peninsula and through which about 17,000 ships and 10% of global trade pass every year. Any ship passing through the Suez Canal and heading on south to the Indian Ocean has to pass this strait, close to the coast of Yemen.

    So what was behind these attacks and what exactly is the link to Gaza?

    Most of the populated parts of Yemen, including its Red Sea coast, have been under the control of a tribal militia known as the Houthis which overthrew the legitimate, elected Yemeni government in late 2014. They are backed by Iran which has allegedly been supplying them with weapons and training, including drone and missile technology, just as it has with Hamas in Gaza and Hezbollah in Lebanon.

    The Houthi coup triggered a catastrophic civil war that has dragged on for more than nine years, causing thousands of casualties and triggering a humanitarian disaster. While Iran backs the Houthis, Saudi Arabia and the UAE went to war against them in 2015, backed by the US and UK, in an unsuccessful bid to restore the internationally recognised government.

    During this war the Houthis have fired numerous long-range missiles and drones at targets in Saudi Arabia, the UAE and inside Yemen, hitting civil airports, towns and petrochemical infrastructure as well as military targets.

    Following the outbreak of the latest Israel-Hamas conflict in Gaza on 7 October, the Houthis declared their support for what they called “their brothers in Gaza” and have fired missiles and drones towards Eilat and other targets in Israel. These were intercepted by the US Navy’s USS Carney which shot them down.

    But the Houthis have also targeted any shipping which they suspect of having Israeli connections. In November they landed troops by helicopter on the deck of a cargo ship, the Galaxy Leader, and seized it. They have vowed to prevent any Israeli vessels from passing their coast and in a statement on Sunday their military spokesman said the vessels they fired missiles at were attacked because they were “Israeli”. Israel’s military denied any connection between its government and the ships but media reports say there are some private commercial links with wealthy Israeli businessmen.

    The US has said subsequently it is “considering all appropriate responses in full coordination with its allies and partners”.

    In practice, Washington will be reluctant to raise tensions any further in a region already nervous about spill-over from the war in Gaza. But if the Houthis in Yemen continue to fire missiles beyond their borders, then eventually the US may decide it needs to retaliate by targeting those missile launch sites. If that happens then there follows the risk that Iran, which supports the Houthis, could also retaliate, potentially leading to the nightmare scenario of a direct conflict between Iran and the US. For now, this is something both sides wish to avoid.

  • Yemeni model facing unfair trial by rebel authorities – rights group

    A Yemeni actress and model accused of an “indecent act” and drug possession is facing an unfair trial by rebel authorities, Human Rights Watch says.

    Intisar al-Hammadi, 20, who denies the charges, was detained by the Houthi movement’s forces in Sanaa in February.

    Her lawyer alleged she was physically and verbally abused by interrogators, subjected to racist insults, and forced to sign a document while blindfolded.

    Prosecutors also allegedly threatened her with a forced “virginity test”.

    Her lawyer told HRW that he had been prevented from seeing Ms Hammadi’s casefile and was stopped from representing her when she appeared in court twice earlier this month.

    The Houthis, who have been fighting a war against Yemen’s internationally recognised government since 2015, have not commented on the case.

    Ms Hammadi, who has a Yemeni father and an Ethiopian mother, has worked as a model for four years and acted in two Yemeni TV series.

    She sometimes appeared in photographs posted online without a headscarf, defying strict societal norms in the conservative Muslim country.

    Her lawyer said she was travelling in a car with three other people in Sanaa on 20 February when rebel Houthi forces stopped it and arrested them. Ms Hammadi was blindfolded and taken to a Criminal Investigations Directorate building, where she was held incommunicado for 10 days, he added.

    “Her phone was confiscated, and her modelling photos were treated like an act of indecency and therefore she was a prostitute [in the eyes of Houthi authorities],” the lawyer told HRW.

    According to HRW, Ms Hammadi told a group of human rights defenders and a lawyer who were allowed to visit her in prison in late May that she was forced by interrogators to sign a document while blindfolded. The document was reportedly a “confession” to several offences.

    In March, Ms Hammadi was transferred to the Central Prison in Sanaa, where guards called her a “whore” and “slave”, because of her dark skin and Ethiopian descent, her lawyer said.

    He added that prosecutors halted their plans to force her to undergo a “virginity test” in early May after Amnesty International issued a statement condemning them. The World Health Organization has said that “virginity tests” have no scientific merit or clinical indication and that they are a violation of human rights.

    “The Houthi authorities’ unfair trial against Intisar al-Hammadi, on top of the arbitrary arrest and abuse against her in detention, is a stark reminder of the abuse that women face at the hands of authorities throughout Yemen,” said Michael Page, HRW’s deputy Middle East director.

    “The Houthi authorities should ensure her rights to due process, including access to her charges and evidence against her so she can challenge it, and immediately drop charges that are so broad and vague that they are arbitrary.”

  • UN chief warns of Yemen ‘death sentence’ as donor pledges fall short

    UN Secretary-General Antonio Guterres on Monday expressed his disappointment that a virtual pledging event has failed to raise sufficient funds to avert a large-scale “man-made” famine in Yemen, urging donors to reconsider their stance.

    “Millions of Yemeni children, women and men desperately need aid to live,” Guterres said in a statement, adding that “cutting aid is a death sentence.”

    While the UN chief was hoping to raise some $3.85 billion, the pledging event that was co-hosted by the United Nations, Sweden and Switzerland, fell short of the $1.9 billion needed to avert famine, as it only gathered $1.67 billion in pledges.

    “The best that can be said about today is that it represents a down payment,” Guterres said.

    According to the UN aid chief Mark Lowcock, 16 million Yemenis, meaning more than half the population of the Arabian Peninsula country, are going hungry, while of those, 5 million are on the brink of famine, – “the worst the world will have seen for decades”, as characterized by Lowcock.

    For much of its food, the war-torn country is heavily relied on imports that have been badly disrupted over the years by all warring parties. UN data have shown that almost 80% of Yemenis are in dire need of help, with 400,000 children under the age of five severely malnourished.

    The coronavirus pandemic comes on top of the prolonged conflict which has plunged Yemen into the world’s largest humanitarian crisis. In a bid to find a solution, the UN are trying to revive peace talks between warring parties, while the new US administration under President Joe Biden has set Yemen as a priority.

  • Il Primo Ministro yemenita ritorna ad Aden grazie agli accordi con i separatisti

    Il 18 novembre il primo ministro dello Yemen, Maeen Abdulmalik Saeed, è arrivato nella capitale provvisoria Aden da Ryad in seguito all’accordo di condivisione del potere siglato nella capitale saudita tra il governo dello Yemen e il gruppo separatista Southern Transitional Council (STC), che aveva estromesso il governo dalla capitale. I combattenti dello STC lo scorso agosto hanno preso il controllo di Aden, che era diventata la sede del governo, dopo essere stati cacciati dalla capitale dello Yemen, Sanaa, nel 2014 da ribelli Houthi. Il governo e lo STC sono alleati nella lotta contro gli Houthi. L’Unione europea ha accolto con favore la mossa, definendola un primo passo essenziale nell’attuazione dell’accordo di Riyadh e si aspetta che tutte le parti interessate si attengano ai termini dell’accordo e mostrino una sincera collaborazione sul campo per garantirne la regolare applicazione. Il ritorno del governo ad Aden ha anche gettato le basi per la creazione di un nuovo gabinetto di 24 membri con pari rappresentanza per gli abitanti della parte meridionale del Paese, compreso lo STC.

  • Altro pacchetto d’aiuti della Ue per lo Yemen

    La Commissione europea ha promesso aiuti per 107,5 milioni di euro alle vittime della carestia in corso nello Yemen devastato dalla guerra. Col nuovo pacchetto di aiuti, l’Ue porterà i suoi contribuiti al Paese della penisola araba a 438,2 milioni di euro. Quasi un terzo del pacchetto di aiuti è stato destinato all’assistenza umanitaria d’urgenza, compresa la fornitura di servizi sanitari di base, nutrizione, alloggi, acqua e servizi igienico-sanitari. Altri 66 milioni di euro sono destinati agli aiuti allo sviluppo per sostenere le misure di resilienza e ripristino tempestivo.

    Il commissario europeo per gli aiuti umanitari e la gestione delle crisi, Christos Stylianides, ha sottolineato l’impegno dell’UE a prestare assistenza alle vittime della guerra civile yemenita, sottolineando altresì che tutte le parti in conflitto devono garantire «un accesso umanitario sicuro e senza ostacoli a tutte le comunità colpite nello Yemen». «Una soluzione politica è urgente per porre fine a questo conflitto, che ha causato milioni di vittime», ha detto Stylianides.

    I finanziamenti dell’Unione nello Yemen hanno contribuito a contrastare un’epidemia di colera che ha devastato un Paese che ha già visto 14.000 morti e quasi 3 milioni e mezzo sfollati a causa della guerra di tre anni. L’Ue ha collaborato col Programma alimentare mondiale e ha sostenuto fortemente la capacità logistica e di trasporto umanitaria da parte del Servizio aereo umanitario delle Nazioni Unite nel tentativo di raggiungere i quasi 18 milioni di persone, più della metà della popolazione yemenita, che hanno bisogno di regolare accesso al cibo e acqua. Si stima che fino a 8,4 milioni di yemeniti, compresi tre milioni di bambini e giovani madri, soffrano di malnutrizione e malattie a causa della catastrofe umanitaria provocata dalla guerra – il quarto maggiore conflitto interno nel paese dopo che lo Yemen del Nord, sostenuto dall’Arabia Saudita e giordano nel 1990, si unì con lo Yemen del Sud – che affonda le sue radici nella primavera araba del 2011 (la rivolta costrinse il presidente, Ali Abdullah Saleh, a cedere il potere, al suo vice Abdrabbuh Mansour Hadi, dopo 22 anni di governo dittatoriale, e la minoranza sciita dello Yemen, gli Houthi, ha sfruttato il vuoto di potere fino ad arrivare a conquistare la capitale yemenita Sanaa all’inizio del 2015, inducendo a quel punto l’Arabia Saudita a dar vita a una coalizione di tribù sunnite dello Yemen fedeli a Hadi).

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